Scritti di getto, gli interventi raccolti in La scuola distrutta di Stefano D’Errico distribuiti nell’arco degli ultimi decenni, con un perimetro tematico flessibile ci fanno percorrere, per usare le parole dell’autore, i 26 anni del massacro scientifico della scuola pubblica (p.81). Pubblicato nel 2019 da Mimesis (Milano-Udine) è un testo, legato alle vicende del sindacato di base nel mondo della scuola e alle sue traversie e riflette il punto di vista di un protagonista riflessivo del sindacalismo libertario. Per altra parte, tuttavia, entra nel merito delle diverse stagioni delle vicende scolastiche inserite nella rilettura del contesto politico generale. La presente lettura si limita ai contenuti riferiti specificamente alla scuola e alla sua distruzione, richiamata esplicitamente nel sottitolo (“Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica”), pur riconoscendo il collegamento tra l’evoluzione degli scenari complessivi e le scelte compiute per l’istruzione.

            Il ruolo dell’autore e l’angolazione scelta rendono il volume impegnativo da leggere e un po’ unico nel panorama degli scritti sulla scuola[1]. La dimensione memorialistica si accompagna all’emergere continuo di prese di posizione sullo sfondo di una testimonianza culturale, seppur minoritaria, sulla professione docente e sulla sua autonomia.

            Il libro contiene molte informazioni di dettaglio che sfuggono nelle cronache e fornisce particolari delle vicende di politica scolastica di solito assenti nelle analisi erudite. é un viaggio dall’interno nell’ottica di un leader sindacale spesso in campo in prima persona nelle vicende di cui parla. Per molta parte è una storia non scritta della nostra scuola e delle politiche che l’hanno riguardata; non solo osservazione dei processi ma anche resoconto di iniziative concrete (esemplare è il caso del coinvolgimento dell’Onorevole Di Pietro per una proposta di legge, p.123ss, o la collaborazione fallita di Unicobas con la senatrice Bianca Laura Granato del Movimento 5 stelle, p.566). In controluce è costante la rilettura polemica del sindacalismo confederale e autonomo della scuola, da tempo ormai, secondo l’autore, non più “sindacato di lotta” (p.585).

            Un file rouge lega decenni di politiche scolastiche e stagioni abitualmente considerate separatamente. In sequenza affiorano i tratti di decisioni successive, isolate, discrete, espressione di quell’incrementalismo che caratterizza le politiche educative vista la fallacia delle grandi riforme. Evidentemente la sequenza di misure e di strumenti messi in campo esprime approssimazione e occasionalità, legate all’alternanza politica, all’instabilità della composizione dei governi, ma anche all’assenza di soluzioni condivise di medio e lungo periodo.

            I dati descrittivi e analitici cui D’Errico fa riferimento per gli indici di distruzione (p.495) sono quelli correnti nella letteratura relativi alla dispersione, ai Neet oltre che al livello di spesa in istruzione, con citazione dei rapporti annuali del CENSIS e dell’ISTAT e affermazioni sommarie sulla collocazione comparativa delle nostre scuole.

            Dalla lunga carrellata con cui l’autore vuole fornire una risposta a un elenco di interrogativi raccolti nella premessa (pp.19-26), vogliamo cogliere, al di là dei vari episodi di credibilità in caduta libera citati anche da Pino Aprile nella Introduzione (titoli di studio dei ministri e del presidente della Commissione Istruzione del Senato…), alcune istantanee significative per non perdere la memoria storica (1.), anzitutto, e, soprattutto, per rispondere alla domanda su chi abbia distrutto la scuola (2.) aggiungendo qualche riflessione d’insieme (3.), commentando le indicazioni sul ‘che fare’ (4.) e concludendo con sottolineature strategiche (5.).

1. Da non dimenticare

Stefano D’Errico, leader del sindacato di base, ci ricorda eventi dimenticati o rimossi, nonostante le loro rilevanza, del passato delle nostre scuole, come annota Pino Aprile nell’Introduzione (“Scorrendo le pagine di questo libro, ti accorgi di quante cose abbiamo fatto passare e dimenticato” p.17). L’oblio priva la memoria delle radici e della struttura profonda della nostra istituzione scuola e offusca l’azione di smantellamento che è diluita nel tempo.

            Così la lotta anarchica contro il giuramento richiesto agli insegnanti è oggi probabilmente fuori dalla memoria collettiva nonostante il significato assunto dalla sua abrogazione (1981), ottenuta non con gli strumenti convenzionali della concertazione. La tenacia di Sandro Galli prevale sulle procedure di decisione politica e rivela la rilevanza di attori non abituali sull’arena delle strategie politiche per l’educazione. La cancellazione non rimuove, anzi accentua, la preoccupazione etica (p.449) per una professione così rilevante come l’insegnamento. D’Errico rifiuta non solo l’ipotesi di reintrodurre il giuramento proposta negli anni più recenti dal Ministro Giulia Buongiorno, ma anche la formulazione di un codice deontologico non costruito dalla comunità professionale stessa (p.229ss)

            La lunga stagione del Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione (CNPI) la cui composizione determinata dalle elezioni del 1997, rimane cristallizzata fino al 1997 per quasi 20 anni. Il massimo organo istituzionale di alta consulenza sopravvive alle stagioni successive e viene rinnovato solo per necessità e trasformato nel Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione.

            Lo scippo dell’ENAM (p.269ss), l’ente di assistenza magistrale, alla professione docente e dirigente della scuola elementare cancella una forma ante litteram di welfare professionale auto-organizzato, calpestando una storia significativa nel panorama delle professioni educative[2]. Una saga quella dell’Enam che smonta un pezzo del sistema, quello della scuola primaria, di cui D’Errico richiama in più passi la qualità. In questa direzione seguirà il depotenziamento dell’associazionismo professionale, eroso anche dall’allineamento alle organizzazioni sindacali.

            Emergono posizioni, storicamente già presenti negli anni 1970, di critica nei confronti del ruolo del dirigente, di cui si denuncia l’autoritarismo e per il quale si opera per procedure elettive[3]. La presa di distanza dalla rivoluzione manageriale degli anni 1990 e successivi che ha investito la scuola dei paesi occidentali è netta. Pur se l’autore non vi fa cenno la dirigenza attribuita al preside e al direttore didattico, frutto della transizione liberista, rimane oggi, per la verità, una scelta di non ritorno pur in assenza di evidenze strutturate di miglioramento della qualità del servizio scolastico.

            D’Errico sottolinea la divaricazione tra scuola e università nell’evoluzione nel tempo in termini contrattuali (privatizzati in un caso e non nell’altro) e professionali. La privatizzazione procede nei contratti per il personale delle scuole mentre è assente per gli accademici. Nelle gerarchie interne il preside all’università è elettivo e si pone come primus inter pares, ben diversamente da quanto avviene nella scuola. Questo distanziamento, forse inevitabile date le dimensioni quantitative della docenza nelle scuole, si colloca nel processo di de-professionalizzazione dell’insegnamento.

            Gli anni attorno al 1968 sono importanti, secondo D’Errico, per la nascita della scuola dell’infanzia statale (1968) e l’inserimento del biennio dei professionali in un ciclo quinquennale (1969) con una rivalutazione di status. D’Errico arriva a porre Riccardo Misasi (“oggettivamente l’uomo politico che più ha fatto per la scuola”p.29) e Franca Falcucci (“il secondo miglior ministro dell’Istruzione in età repubblicana” p.31) in cima alla classifica dei migliori responsabili di Viale Trastevere.

            Nel volume non mancano annotazioni pertinenti di carattere generale come il contrasto tra le pari opportunità perseguite con le quote rosa con le retribuzioni ridicole della professione, l’insegnamento, più femminilizzata del paese (p. 23). Si sottolineano i 30 anni di sotto-investimento nella scuola senza nessun tentativo a favore degli insegnanti, accettati dai soggetti collettivi che avrebbero dovuto rappresentarne gli interessi.

            La rilettura di scelte politiche più recenti è puntuale e graffiante; sono passate al vaglio tutte le principali misure adottate negli ultimi due decenni.

.           Si precisa che la stabilizzazione dei precari da parte del Governo del premier Matteo Renzi avviene per timore della UE (p.23) e delle sue sanzioni dopo anni di utilizzazioni improprie del precariato (p.567) a conferma di decisioni, nella gestione del personale, determinate da ragioni estrinseche con l’invenzione di nuove formule (organico dell’autonomia, organico di ‘potenziamento’). Errata, secondo l’autore, è la scelta delle GAE, graduatorie chiuse da tempo, con il risultato di assumere per una buona metà soggetti che non lavoravano anche da 6 anni. La furbata renziana di non rinnovare oltre i 36 mesi gli incarichi (p.23) e, comunque, il groviglio del precariato che pur con la stabilizzazione del potenziato, lascia fuori una quota di precari per i quali non saranno disponibili posti nonostante l’uscita dal servizio di docenti per “quota 100”. L’esclusione del personale ATA dalle misure per rispettare le prescrizioni della Suprema Corte Europea (p.591) risulta, inoltre, immotivata.

            L’aumento del finanziamento alle scuole paritarie accettate dai 5 stelle che ne prevedevano l’abolizione (p. 21) con violazione della Costituzione, riconoscimento del punteggio ottenuto con scambio per lavoro senza stipendio e contributi (p.21; p.28).

            Illusorio risulta il rilancio del tempo pieno, un gesto poco più simbolico per promuovere il tempo pieno al sud (2000 posti sui 40. 000 necessari, p.580) alcuni non attivati per mancanza dei servizi collaterali, lanciato con lo scopo di riportate al Sud gli insegnanti arruolati al Nord dall’algoritmo renziano (senza tener conto che il tempo pieno riguarda solo la scuola primaria e non la secondaria, p.580).

            Le oscillazioni sul mantenimento o sull’eliminazione dei test Invalsi sono nel programma dei 5 Stelle. Le ingenuità dei 5 Stelle (p.605) e le incertezze di alcune sigle sindacali sulla regionalizzazione della scuola sono puntualmente indicate, mentre il non superamento del numero chiuso per l’accesso a medicina e gli interventi per educazione motoria nella scuola primaria rientrano negli impegni proclamanti ma non mantenuti.

            Non è difficile trovare patologie, incoerenze, contraddizioni nei meandri delle politiche scolastiche. Sono numerose le annotazioni. La circolare sui compiti a casa (p.608) appare come pedagogia di Stato, la definizione del codice deontologico non affidato alla professione docente è inaccettabile. La presenza di più scuole private che statali a livello dell’infanzia è un dato storico. Il liceo a quattro anni o liceo breve (p.22) appare un’ardita e fallimentare impresa (p.608).. L’errore della ‘chiamata diretta’ è confermato dalla sua relativa condivisione tra gli stessi dirigenti scolastici (“Neppure la maggioranza dei dirigenti ha mai amato la chiamata diretta. Non vogliono dover fare inutili ‘colloqui’ ad agosto per poi assegnare ridicoli contratti triennali” p.570). L’aumento sistematico del numero di studenti per classe, anche con l’accorpamento (p.19) delle sedi operato dal ministro Iervolino in poi, giustificato dal calo demografico, pur se in termini comparativi le scuole italiane non sono sottodimensionate. La saga degli esami di riparazione, aboliti e poi ripristinati in altra forma (p.19), conferma l’incapacità di autentica innovazione.

            L’andamento erratico delle politiche scolastiche permette una sorta di lettura alternativa in termini di carenze, di incoerenze, di inerzie e di non implementazione, di fallimenti. Nelle oltre 600 pagine le annotazioni rischiano di disperdersi, senza una chiara ottica analitica. In alcuni casi, peraltro, si risente della non percezione del nuovo, come avviene per il ciclo 0-6 non riducibile a servizi di cura e custodia. In altri la mancanza di realismo è evidente: la presenza delle scuole non statali a livello di scuola dell’infanzia è un dato di realtà difficilmente rimovibile (in alcune province raggiunge il 60-65% delle sezioni), anzi è la condizione per l’esistenza stessa del servizio.

2. Chi ha distrutto la scuola?

D’Errico non si pone la domanda in termini espliciti, ma non si sottrae all’interrogativo su chi abbia distrutto la scuola. Dalla lettura del testo due sembrano essere le cause determinanti. La restaurazione liberista (“La restaurazione liberista sferra l’attacco alla scuola”, p.57), in primo luogo, che corrompe l’impianto della scuola e, in secondo luogo, i mestieranti sindacali e la casta sindacale (“la dittatura sindacale” p.71) con le scelte compiute per la professione docente. Queste sono due possibili chiavi di lettura dell’imponente volume del leader del sindacalismo di base.

La restaurazione liberista

D’Errico segue le tracce di una penetrazione sottile e latente di un’ideologia, quella liberista, che ha dominato a livello mondiale con realizzazioni incisive in alcuni paesi (Nuova Zelanda, Svezia) ma che nel contesto italiano non ha portato a scelte istituzionali comparabilli. Nel panorama comparativo l’autonomia delle scuole in Italia non ha se non in minima parte ragione nell’ideologia del mercato, della competizione, del buono scuola, come le politiche adottate in altri Paesi, dalla Nuova Zelanda alla Svezia, e i modelli nuovi, dalla Academies nel Regno Unito alle Charter Schools statunitensi. Purtuttavia, se in realtà il movimento in Italia non ha portato a decisioni dirompenti, ha alimentato, tuttavia, direttamente e indirettamente, orientamenti e posizioni che hanno ispirato elaborazioni politiche o iniziative legislative, quasi sempre abortite.

            In quest’ottica l’introduzione della carta dei servizi con una parabola di breve periodo, la nozione di cliente (p.19), il riconoscimento del settore privato e la stessa autonomia scolastica tradiscono tracce di una concezione aziendalistica confermate dal ruolo potenziato del dirigente scolastico; peraltro la definizione del preside come datore di lavoro si è rivelata ambigua con profonde conseguenze sul piano gestionale (conflitti di lavoro, responsabilità per la sicurezza…).

La dittatura sindacale

La vis polemica nei confronti delle organizzazioni sindacali attraversa tutto il volume. Al di là degli episodi e dei casi specifici di contrasto, l’argomento principale di D’Errico riguarda la valutazione su una questione, a parere dell’autore, di grande impatto, cioè l’inserimento del settore scuola nel comparto pubblico impiego: una scelta che ha condannato la professione docente nei decenni successivi e che ha condizionato la vita della nostra scuola. L’impiegatizzazione del mestiere di insegnante ha segnato una svolta profonda collocando i docenti nel settore più povero dell’intero contingente (p.609), nonostante il peso quantitativo. Come avviene che il paese con il più elevato tasso di sindacalizzazione degli insegnanti sia anche quello con i livelli stipendiali più carenti rimane una questione aperta.

3. Spunti di riflessione

La massa del volume rende difficile ogni tentativo di sintesi senza dimenticare spunti e suggestione come ogni sforzo per riassumerne i contenuti. Alcune riflessioni sono, tuttavia, possibili.

Gli accidenti e la sostanza

Tanti episodi e qualche elemento strutturale si intrecciano nelle pagine di D’Errico. Gli episodi esprimono posizioni, ma danno un’idea di volatilità del mondo della scuola. La lettura critica rischia di essere superficiale anche per la disponibilità di episodi incredibili, dai livelli di istruzione dei ministri alle gaffe storiche di alcuni di essi (il tunnel dal Gran Sasso a Ginevra è emblematico). Tanti episodi riflettono un procedere frammentato e volatile, spesso senza continuità. C’è una struttura profonda dietro il caleidoscopio delle misure e delle iniziative? Mi pare che nella professione insegnante si possa trovare un denominatore comune, pur al di fuori di uno sguardo europeo o cosmopolita.

I dilemmi di una semi-professione

La professione insegnante è in ogni sistema scolastico la grande questione. L’autonomia e la dimensione professionale sono aspetti cruciali. D’Errico affronta la natura istituzionale della scuola, distinguendola da un’organizzazione erogatrice di servizi, ritrova le radici culturali della professione docente e le sue peculiarità. Riporta anche il lavoro di elaborazione sviluppato dalla sua organizzazione sindacale attorno alla professione, con le proposte di organismi di autogoverno, sull’esempio di quanto avviene in altri paesi.

            Se apre uno scorcio convincente sui principi, le ipotesi di lavoro sono molto distanti dalle vicende reali delle politiche per gli insegnanti. Stimolano l’interesse a capire. Soprattutto si apre la necessità di un’analisi del perché si è assistito ad una così forte erosione delle dimensioni professionali, del perché abbia avuto origine, si sia sviluppato e consolidato il precariato oltre i livelli fisiologici che conoscono anche altri sistemi scolastici.

            Forse anche troppo lineare e chiaro per essere tradotto in soluzioni praticabili e digeribili in un contesto complicato e consolidato. In linea generale, peraltro, alcuni esperti hanno parlato di una semi-professione a proposito dell’insegnamento, proprio perché sono assenti alcune requisiti propri dei gruppi professionali.

            Che il Codice deontologico non possa essere il prodotto di una commissione in maggioranza estranea alla professione è una ragionevole posizione; tuttavia non è solo questione di una diversa composizione, è questione storica, culturale e politica che tocca come il mestiere di insegnante si è socialmente costruito nel tempo.

La protezione degli insegnanti, una questione nuova

In questo contesto due aspetti, richiamati nel testo, sono di forte attualità e di grande preoccupazione oggi. Anzitutto è pertinente è il richiamo alla protezione degli insegnanti in casi di violenza, in un contesto non solo di svalutazione del mestiere, ma anche di rifiuto di autorità e di reazioni. Non è solo indifferenza o perdita di status e di autorevolezza. D’Errico denuncia il “laissez-faire sulle aggressioni fisiche contro gli insegnanti” (p.165).

            In questo contesti l’autore richiama la seria considerazione necessaria delle condizioni di stress delle professioni educative e l’attenzione alle misure di prevenzione del burn out denunciando il disinteresse del MIUR per le malattie professionali (p.609), ignorando preoccupazioni presenti in tutti i sistemi scolastici. D’Errico insegue le diverse stagioni della politica e, soprattutto, dei ministri. Su alcuni temi come il disinvestimento per la scuola c’è uno sforzo di individuazione di dissipazione di risorse pubbliche in varie direzioni che potrebbero aver avuto miglior destino se dedicate all’istruzione, ma è chiaramente l’assenza di una chiara priorità all’origine della situazione. In questo quadro, tuttavia, manca nel testo un qualche cenno alla inadeguatezza degli insegnanti in alcuni contesti specifici.

4. Che fare?

Le indicazioni non sono strettamente operative, ma le linee di lavoro sono leggibili e chiare. La lucidità è da apprezzare, anche per fornire spunti insoliti di riflessione, di analisi e di ricerca. Forse per la posizione critica, forse per il contatto diretto con il campo, nel libro trovano riferimento molte patologie dei sistemi di istruzione, alcune condivise, altre rimosse, altre ancora del tutto ignorate. Per questo la fatica di leggere le oltre 600 pagine può trovare giustificazione, al di là della condivisione di giudizi e di scelte. La diagnosi presenta un lungo elenco di nodi da sciogliere (“La Scuola è stata rovesciata e distrutta, occorrerebbe ricostruirla da cima a fondo”).

Portare i docenti fuori dalla sfera impiegatizia”  (p.493ss; p.613)

I capisaldi di questa svolta sono indicati da D’Errico nell’istituzione del Consiglio Superiore della Docenza, del preside elettivo e di varie altre misure (p.494ss).

            Nel riconoscere l’impatto delle scelte compiute in passato, rimane, tuttavia, l’interrogativo se la ragione non debba essere cercata nell’erosione avvenuta della dimensione professionale di cui la collocazione nel comparto contrattuale è solo la manifestazione, non la causa prima. Non essere riusciti a costruire un profilo professionale robusto, in un campo complesso come quello dell’insegnamento, ha probabilmente altre cause che dovrebbero essere sondate. Entrano in gioco i caratteri della nostra società, il posto della cultura, dello studio e della ricerca, il livello dell’intelligenza collettiva. Le pratiche amministrative si sono rivelate incapaci di perseguire criteri di qualità nel momento dell’esplosione della scolarità di massa con la perdita di controllo degli ingressi nell’insegnamento e la tolleranza condivisa del precariato duraturo.

            Solo una professione matura può affermarsi senza richiedere protezioni, sottraendosi a strumentalizzazioni. Non è una questione di mera logica contrattuale pur se il sistema consolidato non risulta di facile rimozione.

Fornire al sistema scolastico programmi e ordinamenti degni di questo nome e validi per tutto il territorio nazionale invece di pensare alla regionalizzazione” (p.613)

I sistemi scolastici migliori tendono ad avere programmi di insegnamento di qualità e rinnovati periodicamente, con adeguate strutture di monitoraggio e di implementazione. In alcuni casi la definizione dei programmi d’insegnamento impegna un ampio numero di soggetti interni ed esterni alla scuola in una impresa di carattere nazionale. Sfumata nei format delle indicazioni nazionali e delle linee guida la questione nel nostro sistema scolastico è passata un po’ in second’ordine, diversamente da quanto avviene in altri paesi europei.

            Nelle proposte per una profonda riforma del sistema scolastico italiano c’è un elenco di misure da mettere in campo; alcune riprendono soluzioni già in discussione, altre ripristinano forme e strumenti di tradizione.

            Per la scuola dell’infanzia non c’è richiamo alla politiche di educazione e cura per la fascia 0-6 anni. Richiamo a Maria Montessori, alle sorelle Agazzi e a Froebel (p.495). L’estensione dell’obbligo a 5 anni è già stato parte della discussione in passato.

            Per la scuola primaria (p.495) un’agenda che riprende il passato. i principi pedagogici sono ricondotti a Mario Lodi, Lamberto Borghi. Andrea Canevaro e Célestin Freinet, il patrimonio culturale e professionale delle nostre scuole elementari. Il ripristino del programma di Storia precedente alla Moratti e un ritorno ai programmi del 1985. La co-gestione dell’ultimo anno delle elementari con i docenti di scuola media. ripristino dell’esame di licenza di scuola primaria e dei giudizi analitici. Attuazione del tempo pieno coerente. Del tutto ignorato il lavoro realizzato attorno alle Indicazioni per la scuola dell’infanzia e primaria.

            Per la scuola secondaria di primo grado (p.496) il ripristino dello studio del latino e l’introduzione di un’area tecnico-pratica e artistico-musicale che si avvalga di specifici laboratori artigianali ed artistici e che miri allo sviluppo delle competenze e capacità manuali e creative dei ragazzi (p.496).

            Per la scuola secondaria di secondo grado l’innalzamento dell’obbligo fino al diploma o a una qualifica professionale, aumento delle ore di italiano, latino e tre ore di filosofia obbligatorie per tutti i licei, attività laboratoriali, ricorso alla formula dello stage per i percorsi strutturati di alternanza scuola e lavoro. Non si parla di Istruzione tecnica superiore.

            Nell’insieme l’agenda proposta è moderata nei toni, articolata nelle misure previste con alcuni aspetti significativi, radicata nelle cose positive delle nostre scuole prima della distruzione. Seppur senza le visioni attese per il futuro. La logica è ricostruire quanto distrutto nel tempo più che ridisegnare formule nuove. Rimane da discutere se il ripristino sia ragionevole e se sia praticabile. Il rischio è di ignorare altre istanze oggi cruciali, quali la fascia 0-6 anni, la formazione tecnica-superiore, o di rimuovere il nodo della disomogeneità territoriale nella qualità del servizio e nei livelli di preparazione degli studenti.

            L’incertezza riguarda la possibilità di azione perché “per l’operazione non c’è alcuna volontà politica” (p.613) anche se, conclude il volume D’Errico, “non è detta l’ultima parola”(p.213): nuove opportunità si presentano come il rinnovo nel 2020 del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione un appuntamento significativo anche per dare più forza al sindacalismo libertario e di base (p.214).

L’autogestione

L’ “operare in autogestione e per autogestione” (p.614) forse non è distante dalla filosofia dell’auto-organizzazione di cui alcune scuole hanno offerto ed offrono testimonianza, proprio perché in un contesto di legami deboli, gli spazi interstiziali possono lasciare spazio all’iniziativa indipendente. Il divario di risultati tra le scuole non è nel tempo diminuito

Lo scenario demografico e le sue opportunità

Lo scenario demografico, inoltre, permette per i prossimi anni fino al 2030 di dedicare risorse risparmiate (un milione e centomila alunni in meno e sessantaseimila cattedre in meno, pari a due miliardi di euro, p.612) per una maggior presenza sul territorio: ipotesi che scrive D’Errico, suggerita persino da Andrea Gavosto della Fondazione Agnelli.

L’esempio finlandese e la tentazione dell’imitazione

L’autore è giustamente cauto e critico sull’innamoramento per la scuola finlandese e le relative ipotesi d’imitazione. “Molto di moda dal 2000 al 2012” la scuola finlandese ha conosciuto una battuta d’arresto con l‘edizione del 2015 del Programma PISA dell’OECD. Il richiamo al Bluff della matematica finlandese (2011) di Giorgio Israel è pertinente (p.611) come l’auspicio che anche il nostro Paese riscopra la lezione di Montessori (p.611). La contrazione del tempo scolastico, di cui l’esempio finlandese offre un riferimento, è un nodo critico. Se è vero che il successo dei sistemi scolastici non è direttamente legato alle quantità del tempo scuola è pur tuttavia condivisa la posizione che maggior tempo scolastico può essere una leva strategica per gli studenti in situazione di svantaggio. Peraltro la priorità assegnata all’autonomia dello studente non è estranea alla nostra tradizione pedagogica e Montessori

5. Tinte forti e riflessioni pertinenti

La narrazione di Stefano D’Errico è a tinte forti (lo sfascio, i ‘saperi falcidiati dalle riforme (p.612) la crocifissione “scientifica” dell’istruzione pubblica (p.616), le scelte demenziali (p.583) che richiamano i codici del catastrofismo ricorrente nella letteratura critica della scuola. Può, tuttavia, urtare la sensibilità di chi per la scuola ha lavorato e lavora, ha speso e spende le proprie energie, pur errando, imboccando strade senza uscita o mancando gli obiettivi perseguiti.

            Soprattutto può rendere meno afferrabili i numerosi spunti di riflessione che giustificano la fatica di una lettura attenta del volume stesso e forse anche meno evidente l’incredibile testimonianza, attiva, partecipata e schierata, di chi ha interpretato, e interpreta, con il sindacato di base, istanze reali della scuola del nostro Paese.

            Il volume, comunque, presenta un punto di vista insolito negli scritti sulla scuola e per questo si rivela di indubbio interesse. Siamo tutti consapevoli che il contrasto di posizioni e la divergenza di valutazioni non si comporranno mai in campo educativo in un’idilliaca passeggiata. Allo stesso tempo sappiamo che, soprattutto per l’ideazione e la messa in opera di intenzioni e proposte, le testimonianze ideali sono insostituibili, pur coscienti che esse possono rivelarsi non sufficienti per creare le condizioni necessarie per decisioni conseguenti. 

 

[1] Si veda la ricostruzione di oltre 50 anni di politiche scolastiche dal punto di vista della CGIL in Guarnieri, R., Le radici e le ali, La CGIL nella scuola, nell’università e nella ricerca dal 1944 al 2010, FLCCGIL, Edizioni Conoscenza, Roma 2010.

[2] L’introduzione delle pensioni integrative segna una svolta.

[3] Per il clima di interazione tra docenti e presidi nelle scuole italiane nei primi anni 1970 cfr. G.Calabria e G.Monti, La pelle dei professori. Per una tipologia della repressione nella scuola, Feltrinelli, Milano 1972.