Tra l’illusione del progresso e la denuncia del regresso una terza via

Michel Crozier nella socièté bloquée (Seuil, Paris 1997), un classico nella letteratura sociologica, traccia un’ipotesi intermedia tra le prospettive della modernizzazione galoppante e le resistenze delle tradizioni istituzionali. Allora era soprattutto l’apparato burocratico-amministrativo ad opporsi alle dinamiche di cambiamento, una variabile robusta e resistente altrettanto quanto la forza del capitalismo nel rivoluzionare l’assetto economico-produttivo influenzando la società nel suo insieme. Implicito baluardo a fronte delle spinte dei movimenti sociali intenzionati a capovolgere le culture politiche dominanti. Di società bloccata si è tornati a parlare, in tempi più recenti, in relazione al rallentamento della crescita, se non alla decrescita, e alla fallacia delle politiche incapaci di aggredire lo status quo.

Applicato alla scuola il paradigma del ‘blocco’ fotografa il permanere immobile al presente, senza un ritorno nostalgico al passato ma anche in assenza di significativi passi in avanti[1]. L’attenzione di molti analisti si è spesso concentrata sulla comprensione delle strategie efficaci dei sistemi più performanti o, per contrasto, i fattori di insuccesso dei sistemi scolastici lontani dai valori medi di grandi aree geografiche come l’Unione europea o i paesi OECD. Così si è fatto ricorso alle categorie del progresso e del regresso per comprendere le dinamiche dei sistemi scolastici che si dibattono tra fallimenti e innovazioni, tra delusioni e speranze[2]. In questa ottica le situazioni intermedie di mediocrità, le posizioni di stallo e le fluttuazioni senza avanzamenti permanenti sono rimaste inesplorate. Anche la rituale contrapposizione tra posizioni progressiste e orientamenti conservatori non risolve del tutto la comprensione dei sistemi scolastici; spesso, infatti, si è di fronte alla sovrapposizione di scelte, di strategie e di misure di segno opposto, in un miscuglio in cui ipotesi contrastanti convivono. Destra e sinistra non sono categorie risolutive per decifrare il mondo delle politiche scolastiche

Nonostante le retoriche generose per il futuro, gli annunci degli innovatori e i proclami dei policy maker, la scuola può rimanere paralizzata, incollata al suo passato o ad un presente di staticità, in mancanza di energie per progredire e in presenza di capacità di resistenza rispetto alla mera decadenza. In questo caso occorre una diversa chiave di lettura, rara se non mancante. L’abbondanza di dati disponibili e di analisi su evidenze empiriche permette oggi di identificare le oscillazioni nel corso degli anni senza una robusta tendenza al miglioramento e senza un sensibile declino.

Dai primi anni 2000 ad oggi la scuola italiana non ha fatto registrare miglioramenti sostanziali nelle misure di performance fornite dalle prove standardizzate dei programmi internazionali. La letteratura critica sulle riforme scolastiche fotografate con implacabile accuratezza è vasta[3], ma il tema di quali siano i fattori di freno e gli ostacoli che si frappongono è rimasto un campo aperto lasciando un po’ in penombra le scuole con performance mediocri, cioè senza significativi balzi in avanti o sensibili regressi. Occorre una prospettiva intermedia tra la denuncia delle catastrofi in educazione e la coltivazione illusoria di un miglioramento continuo dei sistemi di istruzione.

Il volume di Andrea Gavosto, La scuola bloccata, edito nel 2022 da Laterza (Roma-Bari) affronta l’esame della scuola italiana, un sistema in ritardo rispetto ai sistemi scolastici dei paesi occidentali e spesso lontano dagli standard OECD di riferimento. Mediocrità e inerzia sono lette non con la lente della contrapposizione politica, bensì con riferimento alle scelte compiute avendo a riferimento non modelli standard bensì il livello di apprendimento degli studenti coerentemente con le citazioni di Luigi Einaudi e Lee Eliot Major in esergo

Sguardo analitico e orientamento pragmatico: una lezione di metodo

Sociologi, psicologi, pedagogisti e storici si sono affollati attorno al capezzale della nostra scuola. Ricette sono state   avanzate incessantemente e anche di recente. I limiti dei processi di istruzione sono stati stigmatizzati[4] come parte di derive inarrestabili[5] e raramente con rilancio di pensieri positivi sulla scuola.[6]

In questo panorama l’intervento degli economisti dell’educazione negli ultimi anni si è andato affermando sull’onda di una tendenza a livello sovranazionale con riflessi anche nel nostro contesto nazionale[7] con un taglio originale: attenzione alle evidenze empiriche, richiamo alle valutazioni di impatto, analisi delle correlazioni tra fattori, capitalizzazione dei risultati delle ricerche condotte, ritrosia nei confronti della facile retorica, enfasi su argomentazioni esplicite e controllate.

In questa prospettiva il volume di Andrea Gavosto, economista (“come chi scrive” p.XIV), è accattivante a partire dal titolo. Estremamente attento alle evidenze, Gavosto scrive con una prosa rigorosa, senza sbavature, muovendosi all’interno di un perimetro esplicitamente definito. Risulta franco nelle valutazioni: è pronto, ad esempio, a riconoscere che “lascia sgomenti ‘il vuoto di competenze’ per due studenti meridionali su tre alla maturità” (p.25). Si rivela anche drastico nelle affermazioni supportate da dati empirici quali: “La scuola media non è in grado di accogliere la sfida educativa rappresentata dagli studenti in condizioni sociali svantaggiate” (p.27). Circostanziato nell’esame dell’andamento degli abbandoni scolastici (p.24-25) diversamente dalla retorica corrente, l’autore è pronto a evidenziare dati sorprendenti (le disuguaglianze tra le scuole sono superiori a quelle dei paesi anglosassoni dove esiste una riconosciuta stratificazione di qualità tra le scuole, p.27) e a sottolineare situazioni inattese (considerando “il peso del background l’Italia è uno dei paesi meno diseguali”, precisandone, tuttavia, il significato, p.27). Di fronte all’allarme mediatico non esita a scrivere che “porre il tema delle classi pollaio al centro del dibattito sulla scuola nel nostro paese appare … una mistificazione” (p.91) motivando l’affermazione con riferimento ai dati nazionali e comparativi[8]. Di fronte ai celebrati Its (117 con 5.200 studenti diplomati nel 2020-2019) nota con chiarezza che il “numero impallidisce rispetto a percorsi simili nell’Europa continentale”. Inconsueto è anche lo scrivere partecipato con il richiamo frequente alla “nostra scuola” (p.7) alternativo al più consueto “la scuola di questo paese” a cui siamo abituati. Evita indebite generalizzazioni sui risultati degli studenti che, in realtà, sono diversi per territorio e per livelli scolastici e non manca l’apprezzamento per l’immagine internazionale di Reggio Children e la buona reputazione della scuola primaria. Con una critica leggera ma puntuale richiama l’opposizione che viene da ‘sinistra’ sulla didattica delle competenze che porterebbe “all’asservimento della scuola alle esigenze delle aziende” (p.13): un modo per evitare, secondo l’autore, di ripensare il modo di insegnare. Libera il campo dalla narrazione delle brillanti carriere all’estero degli studenti italiani: campione insufficiente per verificare la qualità del sistema scolastico (p.13). Sagace è l’autore nel posizionarsi con equilibrio rispetto a ipotesi contrastanti o scuole di pensiero divergenti che si tratti dell’investimento in istruzione (p.3), di scuola “d’antan” (p.13), oltre differenziare la propria valutazione rispetto a tesi autorevolmente sostenute (p.4). Grazie a precisi indicatori di base sullo stato di salute della scuola il testo si presta anche ad efficaci sintesi giornalistiche.[9]

Senza mezzi termini Gavosto riporta al centro le esigenze oggi da soddisfare che richiedono una “capacità di padroneggiare un ampio corpo codificato di conoscenze e competenze” rispetto ai quali l’appello al “genius loci” e alla “forza delle tradizioni civiche” non sono più sufficienti (p.5). Il discorrere dell’autore ha il pregio della chiarezza espositiva che facilita il lettore unita alla forza delle argomentazioni che obbligano alla riflessione; per la verità la profondità delle analisi ne fanno un testo impegnativo, rivolto, tuttavia, anche a lettori attenti oltre che a specialisti del campo.

Dietro la formalità scientifica, comunque, si percepiscono segnali della passione per la qualità dell’istruzione. Gavosto non fa sconti nell’indicare le inadeguatezze della nostra scuola: “drammatica carenza di competenze” (p.XI), “rischio di fallimento senza appello della scuola italiana” (XII), “inadeguatezza del nostro sistema” (p.16),“colossale débâcle della nostra scuola” (p.18),“obsoleto armamentario dei voti e delle pagelle” (p.14). Il ritardo negli apprendimenti degli studenti del Meridione è stigmatizzato come “oramai un tratto endemico della nostra scuola” (p.22)[10]. Per la scuola del Sud denuncia, con franchezza, l’“ingiustizia che il sistema scolastico non è mai riuscito a correggere” (p.23) accompagnata dalla ‘minor equità delle scuole” (nota 47 p.134). Le procedure di assunzione sono “la vera anomalia nel quadro dei paesi avanzati”(p.59) come “il paradosso” dei posti autorizzati non coperti “per mancanza di candidati in possesso dei requisiti“(p.60). Senza dimenticare che “la vera anomalia italiana è però il minor impegno contrattuale richiesto per le numerose attività complementari all’insegnamento” (p.72). Pur prevalendo un approccio sincronico (p.9) non mancano parentesi diacroniche (“…da sempre la scuola italiana ha avuto, fra gli altri, l’obiettivo di aumentare la quantità di posti di lavoro a disposizione dei docenti…”, p.11).

Sarebbe un errore considerare il testo come un cahier de doléances, l’ennesimo, un’acritica riproposizione di temi politici non di rado stravolti dalla retorica o una narrazione confezionata all’ombra di ideologie politiche o di posizioni precostituite. Da questo punto di vista è un libro in qualche misura anomalo e inabituale. Motivo in più per non perdere l’occasione di leggerlo con attenzione, cogliendone il metodo, come antidoto al catastrofismo di maniera di volumi apparsi negli ultimi anni evitando denunce senza speranza anche perché, come scrive l’autore, “il destino della scuola è nelle mani di tutti noi”[11].

Le note e la bibliografia che chiude il testo occupano quasi un terzo dell’intero volume. Il ricco apparato traccia l’orizzonte, non comune, ampio, coerente e aggiornato, dello sguardo dell’autore e rappresenta per chi affronta le quasi 200 pagine una miniera da praticare sulla letteratura scientifica relativa ai temi trattati. I riferimenti agli autori nazionali e internazionali di ricerche sono puntuali e non rituali, con la presa da distanza da posizioni non completamente condivise e il riconoscimento, talora, della pluralità di ipotesi plausibili. Le ricerche di economisti, sociologi e psicologi “con pochi richiami alla letteratura pedagogica” (p.XIV) sono il background per un approccio non provocatorio né polemico.

Pur distinguendo le proprie posizioni da quelle della Fondazione di cui è direttore dal 2008 (p. XIV), Gavosto trae ispirazione, dati, suggestioni da un range ampio e articolato di ricerche condotte[12] nel corso di oltre un decennio. Caratterizzano il metodo anche le precisazioni rispetto a ipotesi generali: dopo aver richiamato l’attenzione sulle risorse per l’istruzione sottolinea che “non necessariamente un maggior esborso di risorse pubbliche o private conduce a migliori esiti scolastici” (p. X) perché tutto dipende da come si usano. Le informazioni sono precise: il divario italiano (3,8% del PIL rispetto al 4,5% della media dei paesi avanzati) “è più legato alla spesa universitaria che a quella scolastica” (p. X). Affiora un ottimismo ragionevole per le risorse e, soprattutto, per il modo di utilizzarle proficuamente (p. X). Riconosce che il tasso di abbandono “si sta rapidamente portando in linea con la media continentale, tranne che in alcune regioni meridionali” (p. XI). Non mancano precauzioni sul rapporto tra investimento in istruzione, crescita, innovazione e imprenditorialità (nota 6 p.130)[13].

Gavosto mette in luce, inoltre, le contraddizioni tollerate. Così la sovrapposizione tra l’articolazione in cicli (primo e secondo) e l’assetto per ordini e gradi (p.6) è “un esempio di come nella nostra scuola sia difficile portare a termine riforme organiche e si finisca spesso con il creare mostri che assemblano il vecchio e il nuovo del sistema scolastico” (p.7). Richiama consapevolezze ormai consolidate, come il diverso legame con la crescita economica dei risultati di test e rispetto ai titoli di studio raggiunti (p.5) o, a proposito delle prove standardizzate di massa, il loro “ruolo centrale nel cambiamento della percezione del funzionamento della scuola da parte dell’opinione pubblica” (p.15). Allo stesso tempo registra il tendenziale superamento della dispersione intesa come non abbandono della scuola, con lo spostamento dell’attenzione alla carenza di competenze[14]. Ammette esplicitamente la difficoltà di individuare la qualità di un insegnante (p.57) dopo anni di dibattito e iniziative sul campo.

In questa ottica il prammatismo delle proposte rende il volume attuale nel momento in cui si ha un massiccio ingresso di nuove risorse anche per la scuola. Una opportunità storica da non far cadere. Le valenze del PNRR come inversione di rotta per superare i vincoli del sistema politico (p. X) sono diverse, senza velleitarismi. In primo luogo per l’ammontare delle risorse (20 miliardi un decimo del totale, rivolto all’edilizia scolastica, alla fascia 0-6 anni, alla formazione e ai meccanismi di assunzione dei docenti); in secondo luogo per la focalizzazione su riforme di cui si discute da anni; in terzo luogo per il vincolo della realizzazione in un arco di tempo definito per l’erogazione dei finanziamenti. L’orientamento prammatico serpeggia in tutte le parti del volume, ma trova esplicitazione soprattutto nelle proposte elencate e illustrate nelle conclusioni.

Nell’itinerario tracciato l’economista Andrea Gavosto si rivela profondo analista di politiche pubbliche nel campo dell’educazione con contributo alla comprensione della nostra scuola attraverso sottolineature di rilievo come, ad esempio, l’importanza della comunicazione delle politiche e un programma di riforme per il futuro che rivisita criticamente anche misure già presenti nel dibattito.

Un indice da manuale

Fin dalle prime pagine la breve premessa, non di circostanza, rivela il taglio del saggio. Non affermazioni ideologiche o richiami a mappe valoriali, ma generalizzazioni emergenti dalla ricerca sono i benefici dell’istruzione (p. IX): “Studiare – è ormai assodato – ci rende più sani, più ricchi individualmente e come paese, più aperti al mondo: chi possiede un titolo di studio elevato in media vive più a lungo; trova lavoro più facilmente e guadagna di più; è più aperto al confronto con gli altri. È, insomma, un cittadino migliore” (p. IX). “In maniera analoga, i paesi che investono di più in istruzione crescono più degli altri e sperimentano una maggiore mobilità sociale». I benefici dell’educazione sono ribaditi nel primo capitolo in cui si precisa che il “tasso di rendimento di un anno di istruzione è … intorno al 10%, ben superiore a quanto potrebbe fruttare un investimento finanziario o immobiliare” (p.3).

L’obiettivo di Gavosto è “portare all’attenzione dei lettori le fragilità del nostro sistema educativo e le possibili misure per porvi rimedio”(pp.XII e XIII). L’argomentazione principale è chiaramente esplicitata fin dalle prime pagine: “alla luce del fallimento dei numerosi tentativi di riforma, solo se famiglie e opinione pubblica sono pienamente informati dei risultati della singola scuola e dell’intero sistema si può realizzare un miglioramento” (p. XIII). “Un processo virtuoso di cambiamento” può avvenire “grazie soprattutto al ruolo che la ‘voice’ delle famiglie e dell’opinione pubblica può esercitare” (p. XIV). Da questo punto di vista La scuola bloccata è un libro a tesi (espressione usata dall’autore, p. XIV) con il corollario che “le scelte di politica scolastica vanno fatte confrontando opzioni diverse sulla base di criteri di fattibilità reale, non semplicemente di un afflato ideale” (p.12).

Dopo questo incipit la presentazione del sistema scolastico (Capitolo 1) precede tre successivi capitoli (2,3,4) che affrontano con una successione che potremmo definire cartesiana, le politiche scolastiche con tre semplici domande di fondo: Che cosa si insegna? Chi insegna? Come si insegna? I fattori di sblocco della scuola italiana sono il tema del Capitolo 5 che precede le Conclusioni in cui sono riassunte le proposte avanzate dall’autore.

La scuola italiana nel confronto internazionale

Per Andrea Gavosto il confronto internazionale (“il modo sincronico”, p.9) è la via per l’analisi del presente, come per guardare al futuro anche nell’ottica di una scuola europea[15]. La strada, sostiene Gavosto, è più agevole di una prospettiva diacronica. Permette, innanzitutto, di registrare gli scostamenti e di apprendere soluzioni applicate altrove. Risulta, inoltre, più convincente per l’opinione pubblica e per i policy maker mettendo a fuoco i ritardi del nostro Paese (pp.9-10). Tra gli esperti, peraltro, come sui mass-media, è ormai prevalente la descrizione dei sistemi scolastici facendo riferimento alle ricerche condotte a livello internazionale e nazionale sui livelli di apprendimento degli studenti. La categoria del “ritardo accumulato” fa pensare indirettamente ad un percorso tracciato da seguire. è estraneo alla cultura dell’autore, con studi alla London School of Economics and Political Science, ogni parocchialismo di maniera.

Lo stato del nostro sistema di istruzione è descritto con “alcune grandi pennellate” (p.9) nella sua struttura e analizzato nei suoi caratteri a partire dal dato demografico[16],“un vincolo stringente alle politiche scolastiche”(p.10) perché difficile da modificare nel breve periodo. Nei prossimi dieci anni, infatti, si porrà il problema di come utilizzare il surplus di docenti, in un contesto con ratio docenti-studenti già comparativamente favorevole (p.11): due sono le vie, da un lato dirottare le risorse (“… il risparmio in stipendi dei docenti sarebbe di oltre 2 miliardi di euro l’anno…”, p.11) verso altre politiche pubbliche, dall’altro migliorare la qualità dell’istruzione. La prima cozza contro la criticata autopropulsione della scuola[17], alla seconda si oppone la domanda se “la struttura e la qualità degli insegnanti lo consentono?”(p.10)[18]. Nel medio e lungo periodo le decisioni politiche potranno, comunque, mutare lo scenario attraverso “le politiche immigratorie, la disponibilità di servizi sociali rivolti ai più piccoli e ai loro genitori, gli sgravi fiscali”(p.10).

In un quadro comparativo lo scostamento del nostro Paese è più marcato dal punto vista delle risorse finanziarie assegnate alla scuola e dei risultati raggiunti dagli studenti, in un contesto di molteplici divari.

Evitando le generalizzazioni Gavosto adotta un accostamento analitico ai divari scolastici: infatti, scrive, “la situazione è molto articolata a seconda dei diversi livelli scolastici“(p.19). Mentre per la scuola dell’infanzia e la scuola primaria si registra “una buona reputazione a livello internazionale”(p.19), calano nella secondaria di primo grado i livelli di apprendimento anche in chiave comparativa, per via delle soluzioni didattiche adottate. Per gli studenti italiani quindicenni i punteggi nelle indagini PISA tendono ad essere inferiori ai valori medi dei paesi OECD, con l’eccezione della matematica dove si riscontrano performance positive. Nella scuola superiore le “enormi differenze nella qualità degli indirizzi” (p.22) caratterizzano l’intero settore.

Nessun paese dell’area OECD ha, secondo l’autore, fratture territoriali simili a quelle presenti nella nostra realtà, tenendo conto che “coesistono situazioni di eccellenza, paragonabili alle migliori realtà del Nord Europa, e di estremo ritardo che ci situano a livelli paragonabili a quelli di Grecia e Turchia” (p.22)[19]. Gavosto fa un cenno alle differenze strutturali soprattutto relative ai servizi per le prime fasi dell’educazione e alla distribuzione dei tempi per la scuola. Ipotizza, pur con la cautela di ulteriori approfondimenti necessari, il “diverso livello di capitale sociale” (p.23) come determinante dell’atteggiamento e della voce delle famiglie, unito ad altri indicatori di sistema quali il reddito familiare, il tasso di occupazione e il lavoro femminile. Il mercato del lavoro meridionale, peraltro, aggiunge Gavosto, può far emergere la valenza del titolo di studio più dello sviluppo di competenze reali, confermando il prevalere della “logica credenzialista” (p.24).

Oltre all’efficacia si chiede ad un sistema scolastico di essere equo, cioè di offrire a tutti la stessa scuola di qualità, colmando i divari sociali. In questa prospettiva “l’azione pubblica può contrastare il condizionamento” del contesto economico, sociale e culturale (p.25). Dopo aver affermato che “lo studio è uno dei principali fattori della mobilità sociale”, l’economista Gavosto cita due rapporti OECD che relativizzano per il nostro paese la mobilità sociale e l’apporto dell’istruzione scrivendo “sono ormai necessarie quattro generazioni e mezza, perché la progenie di una persona povera raggiunga il livello di reddito medio” (p.26), concludendo che “scuola e università finiscono spesso con il perpetuare le differenze legate all’origine socio-economica e culturale” (p.26).[20] Chiama in causa la composizione della popolazione degli istituti, marcata da una forte caratterizzazione sociale. Il peso del condizionamento socio-economico sui risultati di apprendimento appare più contenuto nel nostro sistema scolastico, ma, precisa correttamente Gavosto, si tratta di una “equità al ribasso”. Viene, comunque, spazzata via la posizione di chi associa l’espansione del sistema scolastico e il conseguente ampliamento della base sociale con un impoverimento complessivo: le competenze letterarie e scientifiche sono cresciute con il passare delle generazioni, pur non diminuendo la divaricazione.

I dati di base confermano un serio problema legato ai divari di genere, testimoniato dagli indicatori scolastici e occupazionali. Le ragioni non sono certo genetiche ma profondamente culturali. Gli stereotipi di genere sono tuttora determinanti e, in qualche misura, sono chiamati in causa anche i metodi didattici.

Che cosa si insegna

Il secondo interrogativo posto da Gavosto nella sua disanima della scuola italiana riguarda i contenuti dell’insegnamento. Bilanciata risulta la posizione che l’autore assume sulle competenze: una prospettiva con difficoltà di traduzione operativa rimasta ‘lettera morta’ (p.14) nella nostra scuola. Sul piano della misurazione delle competenze, l’indicatore più sintetico è la % di studenti che a termine di 13 anni di frequenza non arrivano ad un livello accettabile di preparazione (pp.16-17).

In tema di programmi scolastici Gavosto inizia, anche se può risultare sconvolgente, dicendo che “non esistono più da venti anni” (p.40) sostituiti dalla logica delle Indicazioni nazionali e delle Linee guida.  Il contrasto, comunque, tra l’ideale e la realtà è evidente. Se appare condivisibile la logica dell’autonomia delle scuole e delle traiettorie personali di apprendimento per ciascun studente, la carenza di formazione degli insegnanti e le prassi consolidate tradiscono le intenzioni. Avviene infatti, nella realtà, che gli insegnanti non ricorrano ai margini di flessibilità loro riconosciuti e che le Indicazioni o le Linee guida presentino, al limite del velleitarismo, lunghi elenchi di obiettivi mentre sono i libri di testo ad essere determinanti nelle scelte didattiche quotidiane in classe e nelle scansioni dell’insegnamento.

La frammentazione dell’insegnamento” presente nelle nostre scuole “non ha eguali in Europa” (p.41) e di essenzializzazione si parla sia come riduzione del numero di materie sia come concentrazione su argomenti fondamentali di ogni area disciplinare. Sulla “riduzione dei curricoli” Gavosto riferisce l’esempio francese de le socle commun de connaissance, compétences, et de culture, introdotto dal 2005, ripreso successivamente nel 2016 per il collège e, più recentemente, applicato alla riforma dei licei. Fa un cenno al movimento del common core standard affermatosi dal 2010 negli Stati Uniti citando, peraltro, le conclusioni di una rassegna di ricerca sulla mancata evidenza di un impatto migliorativo sui livelli di apprendimento degli studenti. L’autore riconosce che per la nostra scuola “avrebbe senso” probabilmente creare “un insieme ristretto di materie obbligatorie” e un’area di insegnamenti opzionali per i benefici che ne deriverebbero (personalizzazione, formazione alla scelta…), pur evidenziando il problema della “rigidità delle strutture curricolari” all’origine della “moltiplicazione di sotto-indirizzi” e delle “curvature” (p.43).

L’orientamento è “una delle aree critiche del nostro sistema di insegnamento”(p.43) ed è tutto da reimpostare. Nel primo ciclo come nel secondo, pur in mezzo ad ostacoli difficili da rimuovere, è da considerare l’offerta di un “vasto menu di scelta agli studenti” e, soprattutto, da risolvere il dibattito “in corso dai tempi delle dispute medievali su Trivio e Quadrivio” (p.45), su quali possano essere le materie obbligatorie, evitando un numero oltre misura delle discipline di base.

Sui gruppi di livello l’approccio è realistico e ragionato. L’adozione di un tronco comune e “rami percorsi individualmente” porterebbe alla ‘rottura della stabilità della classe (che è una caratteristica della nostra scuola)” e al “superamento degli indirizzi della scuola superiore”(p.45). Gavosto, di fronte a dati scientifici non definitivi, sospende la valutazione sull’“effetto pari” e sulle conseguenti ipotesi di gruppi di età e di abilità differenti. Non ritiene opportuno l’introduzione dell’ability tracking sia per “il contraccolpo psicologico negativo” sia per le conseguenze che induce nel percorso di studi. Senza forzare una cultura radicata di equi-eterogeneità qualche forma leggera di differenziazione potrebbe, tuttavia, essere introdotta.

In una cultura comparativa dominante tra esperti e sui media Gavosto non evita l’interrogativo esiste un modello migliore degli altri? L’indicazione di riferimenti con la categoria dei “paesi a elevata performance” è frequente come conseguenza della ormai consolidata ricerca sulle performance degli studenti attraverso prove strutturate. In questo contesto si manifesta la tendenza ad apprendere dagli altri e si va ben al di là dei tradizionali confini europei.[21] In merito al primo ciclo di istruzione Gavosto prende in esame il caso francese, quello tedesco[22] e quello scandinavo per concludere, tuttavia, che “non è mai stato possibile dimostrare la superiorità di un modello sugli altri” (p.49). Ammette, tuttavia, che, nella comparazione citata, “l’unica certezza è che il modello tedesco, basato sull’early tracking, è quello che più acuisce le differenze di ordine sociale“(p.49). Per una prossima agenda, inoltre, Gavosto trae qualche indicazione in chiave comparativa: “individuare un modello che abbia poche transizioni” adottando uno schema a due tappe e, sul modello francese, “definire pochi assi essenziali su cui costruire la progressione cognitiva dei ragazzi” eintrodurre una gamma crescente di materie opzionali[23] (p.50).

Sulla durata degli studi Gavosto, riprendendo posizioni già espresse in altri contesti, critica la vulgata di una pretesa penalizzazione degli studenti italiani, rispetto ai loro coetanei di altri paesi, per via della durata di 13 anni del percorso scolastico completo. Scrive a proposito dell’età di conclusione della scuola superiore: “19 anni è una età piuttosto frequente in Europa!” (p.29)[24] e, quindi, “non esiste penalizzazione per età”.[25] Sulla durata dell’arco della scolarità aggiunge che “una delle poche affermazioni su cui tutti gli studiosi concordano è che ogni anno di istruzione in più porta sensibili benefici individuali e collettivi” (p.51) introducendo una questione che è stata sollevata in relazione alle chiusure delle scuole nella recente epidemia. L’ipotesi di prolungare l’obbligo scolastico a 19 anni viene ritenuta da Gavosto poco efficace dal momento che “ormai quasi il 90% dei giovani italiani ottiene attualmente il diploma di maturità” (p.52)[26] e che “la tendenza della società è verso la frequenza della scuola superiore universale” (p.52)[27]; per il 10% residuo una soluzione coercitiva potrebbe rivelarsi problematica. Più funzionale è, invece, precisa l’autore, continuare nella lotta alla dispersione proseguendo il lavoro in corso negli ultimi anni.

Prevedere il futuro della vita e del lavoro è “spesso un esercizio futile” (p.53). Gavosto è cauto sulle previsioni sviluppate dagli economisti negli anni Cinquanta e Sessanta, pur riconoscendo che purtuttavia qualche esercizio va fatto. Anzitutto in rapporto a quello che è il cambiamento tecnologico, dall’automazione all’intelligenza artificiale, e alle “occupazioni maggiormente a riparo dal progresso tecnologico” (p.54). Sotto questa angolazione Gavosto annota che la nostra scuola non eccelle nell’area della creatività, delle interazioni sociali e della capacità di gestire l’incertezza (p.54).

Le ricerche di James Heckman e dei suoi collaboratori hanno reso le abilità non cognitive e le competenze trasversali temi di grande attualità e oggetto di accese discussioni. Gavosto ribadisce il compito ampio della scuola che va oltre la trasmissione di conoscenze, riconoscendo la difficoltà di identificare le competenze da sviluppare e di scegliere le strategie più efficaci. Purtroppo, riconosce, “la ricerca è ancora indietro” e al termine ‘competenze trasversali’ corrisponde “una molteplicità di concetti sconnessi tra di loro“(p.55) accomunate solo dal non riferirsi a capacità tipicamente intellettive. Di fronte ad alcune posizioni semplicistiche Gavosto fa notare che “i tratti caratteriali di una persona sono difficilmente modificabili (p.56) e che “agire   per migliorare dopo i primi anni non appare una strada facile da perseguire” (p.57) pur riconoscendo che “il dibattito è ancora aperto”(p.56). L’interrelazione tra diverse abilità che gli studi suggeriscono come fattore di impatto positivo, in parte “una conclusione ovvia“, rende indispensabile capire quale sia “la gamma vincente di competenze di base e trasversali“. Un’istanza, pare di intendere, ancora in attesa di compiuto sviluppo.

Chi insegna

I docenti sono la variabile determinante della qualità dell’istruzione. L’Italia ha la quota più bassa di insegnanti nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni nei paesi dell’OCSE e, allo stesso tempo,  la più alta incidenza di docenti ultra 50 enni (59%). Dovrà, quindi, rinnovare circa la metà del suo corpo docente nel prossimo decennio e, a causa anche del calo demografico, avvalersi dei docenti già oggi in servizio più dei nuovi ingressi nella professione. La situazione è complessa e Gavosto punta l’attenzione sul reclutamento, sulla formazione iniziale e sulle carriere.

L’aumento dei docenti assunti a tempo determinato ha raggiunto livelli molto elevati (oltre 200.000) (p.60). L’esperienza delle supplenze non ha il valore di un tirocinio per fare “una solida esperienza didattica” (p.59). Il mismatch territoriale o disciplinare è “un fenomeno strutturale” (p.62) nella nostra scuola con quote elevate di posti messi a concorso e non coperti.

La selezione e il reclutamento sono nodi irrisolti nella scuola italiana storicamente lacerata tra la ‘nobiltà’ delle procedure concorsuali, sancite dalla Costituzione e la ‘miseria’ delle sanatorie o del doppio canale che in qualche misura hanno riempito le cattedre nel tempo. In ogni caso, secondo Gavosto, il sistema risulta “obsoleto, iniquo e inefficace”(p.65) con il fallimento del doppio canale come soluzione stabile per assicurare il capitale professionale necessario. I meccanismi esistenti scoraggiano i più volenterosi e i più ambiziosi (pp.72-73). In particolare le lungaggini dei concorsi spingono i candidati con alternative (soprattutto di materie scientifiche) a imboccare altre strade. Così non si scelgono i migliori laureati, bensì quelli con voti di laurea inferiori (p.73). è il modello che Gavosto chiama della “selezione avversa” (p.71). La formazione iniziale dei docenti, peraltro, è “del tutto insoddisfacente” soprattutto per quanto riguarda la scuola secondaria a fronte di un positivo giudizio per l’infanzia e la primaria (p.66).

Sulle retribuzioni di chi insegna Gavosto scarta alcune posizioni semplicistiche. Non è vero infatti che gli insegnanti sono “pagati poco”, o almeno i confronti internazionali non dicono questo, sostiene. Sugli stipendi c’è “una storia più sfumata ” (p.72) rispetto all’opinione corrente. A livello di partenza, infatti, l’assenza di sostanziali differenze non penalizza il docente italiano. La situazione cambia, invece, nel prosieguo degli anni a causa della “struttura piatta” della loro carriera. L’assenza di incentivi e di progressione per le competenze, l’impegno profuso o l’assunzione di responsabilità oltre la docenza impedisce di distinguere la qualità delle prestazioni, peraltro irrigidite nella struttura della settimana lavorativa divisa tra le ore obbligatorie e l’altro tempo richiesto dall’insegnamento.

Nel nostro Paese il tema della carriera degli insegnanti è molto dibattuto e oggetto di iniziative abortite o erose nel tempo[28]; ritorna periodicamente al centro del dibattito. Anche il PNRR prevedere un intervento in merito. Gavosto considera l’istituzione di meccanismi di carriera fattore importante per attrarre e motivare persone capaci e ambiziose. La direzione scolastica è vista come l’apice della progressione professionale del docente; tale progressione viene agganciata all’assunzione di funzioni organizzative o all’occupazione di posizioni di responsabilità gestionali lungo una traiettoria a tre stadi, “insegnante, funzioni intermedie e funzioni apicali come i vicari del dirigente scolastico” (p.76). Gavosto motiva questo legame per evitare i problemi emersi in Inghilterra dove i docenti “compiono scatti di carriera indipendentemente dal ruolo organizzativo”. In attesa di un cambiamento in questa direzione Gavosto suggerisce una differenziazione retributiva, ad esempio, per i docenti di STEM o per chi opera in zone particolarmente disagiate citando l’esempio francese delle ZEP (p.76) che, in realtà, dal 2015 sono diventate REP-Réseaux d’éducation prioritaire.

Come insegnare

Le scelte di approccio e di metodo sono cruciali nell’insegnamento perché influiscono direttamente sulla qualità della didattica e, di conseguenza, sui risultati di apprendimento degli studenti. Tuttavia è un terreno minato, esposto alle contrapposizioni dialettiche tra i sostenitori del progressismo e gli affezionati alle soluzioni della tradizione. Inoltre è attraversato dal continuo emergere di nuove proposte e dal permanere dei riferimenti ai maestri della tradizione pedagogica non solo nazionale. Peraltro nei singoli settori disciplinari esistono specifiche scuole di metodo. In un campo afferente ad altre competenze disciplinari l’economista Andrea Gavosto si muove con intelligenza e agilità senza avventurarsi nelle diatribe metodologiche o nel sostegno di un orientamento invece di un altro. Sulle strategie didattiche

in primo luogo, coerentemente con l’impostazione dell’intero volume, fa appello agli strumenti della ricerca educativa a favore dell’evidence-based education (p.79). Prende atto della svolta in corso con la possibilità di superare le prassi precedenti basate su aneddoti o osservazioni non generalizzabili e della presenza di una “guida più precisa alle strategie dei docenti” (p.79). A questo riguardo cita John Hattie[29] e il suo lavoro Visible learning, la più ampia base di evidenze sui fattori che incidono a scuola sull’apprendimentio degli studenti, con la misura dell’effect size (1850 meta-analisi e 108.000 studi). Il movimento della evidence-based education ha investito la cultura professionale dell’insegnamento con un impatto esteso e “un salto di qualità” rispetto al modo di procedere precedente con la disponibilità per singole pratiche didattiche di informazioni di impatto sui risultati scolastici rendendo possibile conoscere i fattori più influenti sulla base delle evidenze scientifiche. In alternativa alla consueta contrapposizione tra costruttivisti e conservatori, lo scenario della gamma di strategie didattiche presenta caratteri diversi. Gli oltre 250 fattori esaminati indicano il peso di impatto delle varie soluzioni adottabili e possono orientare l’insegnamento, o per lo meno aiutare a capire l’efficacia delle soluzioni che sono in uso.

Gavosto richiama il fattore di maggior peso in termini di efficacia cioè l’azione collettiva dei docenti “ovvero il loro operare come una squadra anzichè individualmente”(p.79)[30]. In questo contesto evita di demonizzare la lezione cattedratica tout court riconoscendo che “la lezione trasmissiva può avere una funzione fondamentale” (p.81) e precisando che il limite risiede nell’utilizzo nella pratica didattica e nella non integrazione nel modo di procedere di una docente in classe. Contrariamente alle sottolineature progressiste, il nostro paese è quello in cui la “strategia didattica trasmissiva” è più diffusa. L’alternativa, presente ‘altrove’, è “la panoplia di strategie didattiche adottate dai docenti ” (p.78).

Gavosto amplia poi l’orizzonte citando una proposta di sistematizzazione delle pratiche didattiche lungo un continuum dal coinvolgimento minimo dell’allievo alla sua massima responsabilizzazione. In questa ottica si valorizza la discrezionalità della docente o del gruppo di docenti che nel singolo contesto e in relazione agli obiettivi di apprendimento e alla classe compongono la propria strategia. Nella faretra del docente non c’è un’unica freccia. Lo spazio professionale per chi insegna si apre nella ponderazione della varietà di metodi, con riferimento alla specifica materia e in rapporto alla motivazione e al livello raggiunto dai singoli studenti.

Come si insegna nelle nostre scuole è un terreno difficile da sondare, dati i limiti dei questionari di rilevazione e la gravosità dell’osservazione in classe. D’altra parte l’efficacia delle diverse strategie dipende dalle competenze didattiche degli insegnanti. Gavosto richiama una ricerca in cui si sono analizzati gli effetti delle pratiche nella loro messa in opera (p.81). Per questa ragione la pratica diffusa di spiegare in modo strutturato risulta molto varia nella sua esecuzione, come la personalizzazione degli interventi o l’interazione di feedback con gli studenti. Dal punto di vista dell’efficacia delle pratiche didattiche, sottolinea l’autore, non tutti gli insegnanti sono uguali. Dalla ricerca citata trova conferma una visione del corpo docente come un insieme di operatori con diversa capacità didattica, che le procedure di selezione e le graduatorie per il reclutamento non riescono a catturare. L’assunto che tutti gli insegnanti siano uguali è “una premessa fallace” (p.83) che richiederebbe altre ricerche di approfondimento.[31]

Non può mancare una sezione sulle tecnologie in educazione e sulla didattica digitale. In sintesi Gavosto si rivela equilibrato rifuggendo da giudizi polarizzati del disastro nazionale[32] o dell’innovazione diffusa, notando il profondo cambiamento indotto dalla pandemia nei confronti delle tecnologie. Registra un recupero della nostra scuola di parte del ritardo sulla disponibilità di tecnologie, riferisce l’orientamento tecnologico degli studenti come i coetanei di altri paesi. Dal Covid sono stati messi, tuttavia, in evidenza “i limiti della nostra scuola digitale” (p.84) con l’uso ad esempio del 90% della Dad per didattica frontale. Rimane l’interrogativo sul miglioramento degli apprendimenti come dimostrano le analisi OECD perchè le tecnologie non migliorano automaticamente i risultati scolastici. é, comunque, un terreno di investimento con le risorse del PNRR.

Il tempo nell’insegnamento è un fattore determinante. Per coglierne l’importanza occorrono alcune precisazioni. Leggermente sotto i valori OECD il monte ore per la scuola dell’obbligo ha subito una contrazione rispetto al passato (2014). Criticità persistono sulla distribuzione dei giorni di vacanza nel calendario scolastico mentre si riconoscono i benefici di tempi distesi per gli studenti provenienti da ambienti svantaggiati e l’opportunità di considerare con attenzione l’organizzazione della giornata scolastica. La determinazione del tempo di insegnamento ha riflessi anche sul contratto di lavoro degli insegnanti. Da questo punto di vista Gavosto auspica il superamento del regime attuale a favore della scelta di 40 ore settimanali onnicomprensive.

I luoghi dell’insegnamento sono un problema a più dimensioni: entrano in gioco ipotesi didattiche, misure di sicurezza degli edifici, criteri di sostenibilità ambientale e strategie di inclusione. Gavosto richiama la distanza ormai abissale tra il fabbisogno per il recupero dell’edilizia scolastica, stimato in 200 miliardi di euro, e gli stanziamenti dedicati, anche con le risorse fornite dal PNRR.

Un cantiere di proposte (per i prossimi dieci anni)

I contenuti delle policies da perseguire sono il tema delle Conclusioni (p.118ss) in cui si danno anche suggerimenti sulle modalità di intervento unendo policies e politics. L’autore riconosce che alcune misure sono state dibattute per anni senza esito (p.121) e rinuncia alla strada non praticabile della ‘grande riforma’ a favore di un approccio incrementale.

La riforma dei cicli

Pragmaticamente Gavosto riconosce che in tema di cicli scolastici “la situazione attuale è lungi dall’essere soddisfacente” (p.47), registrando che è un “argomento che periodicamente affiora nel dibattito italiano (p.47) e che “richiede prima o poi, una modifica” (p.47). Assieme al ritenere che “la discussione non ha … portato ad alcun cambiamento” (p.47) l’autore non ha remore nel considerare apertamente impraticabili a breve termine alcune ipotesi di modifica di ordinamento considerando, invece, l’apporto di misure intermedie, senza, tuttavia, apprezzare altre ipotesi in campo.

Così la creazione di un percorso unico dai 6 ai 13 anni, con un ciclo che superi l’articolazione in scuola primaria e scuola secondaria di primo rado, è “difficilmente percorribile sul piano politico“(p.118). La prospettiva di questa riforma dei cicli inevitabilmente svanisce nel momento in cui viene ricondotta realisticamente ad un “obiettivo a cui tendere nell’arco di un paio di decenni” (p.118) e quasi fatalisticamente alla forza del destino (“prima o poi succederà… il dibattito su questo tema tornerà a ravvivarsi“, p.50). Nel confronto comparativo (“come in molti altri paesi europei”) va ricordato, peraltro, che paesi come la Francia e la Germania mantengono la distinzione tra scuola primaria e secondaria inferiore nel percorso di base. I sistemi scolastici tendono ad essere stabili nel tempo con fluttuazioni minori senza tendenze stabili e lineari. Gavosto riferisce quanto la ricerca scientifica ha messo in evidenza: l’early tracking con la differenziazione precoce ha effetti negativi pregiudicando lo sviluppo del capitale potenziale di quote di studenti.

In alternativa al ridisegno con riforma dei cicli si può lavorare con misure intermedie e a medio raggio. Tra queste l’autore include il rendere “meno brusco il passaggio tra primaria e secondaria” (p.118) e tendere alla “continuità nell’approccio didattico (soprattutto tra primarie e secondarie” (p.119), prevedendo “un insieme di discipline comuni a tutti gli studenti lungo l’intero percorso scolastico” (p.118)[33] e “introducendo materie opzionali in modo crescente a partire dalla scuola media” (p.119).[34]

In relazione all’innalzamento dell’obbligo Gavosto riconosce che sono maturi i tempi per considerare la conclusione della scuola secondaria superiore come una condizione normale per gli studenti nel nostro Paese cioè oggi a 19 anni (p.119). L’autore sembra ignorare il necessario coordinamento con i percorsi di IEPF che hanno durata triennale e con il diploma quadriennale.

L’autore non considera positivamente l’ipotesi della scuola secondaria in quatto anni[35], una linea quantitativamente marginale ma che ha ormai alle spalle più di 10 anni di esperienze.[36] Denunciando la mancata previsione di una affidabile valutazione cancella la possibilità di una decisione informata anche se l’iniziativa sembra proseguire. L’intera questione presenta problemi spesso ignorati di fattibilità, legati soprattutto ai costi di iniziative di massa di sviluppo professionale[37], unitamente alla capacità di fornire per una platea decisamente molto numerosa proposte formative di qualità in un arco di tempo non molto esteso[38].

La fissazione della durata massima dell’abilitazione per l’insegnamento è una possibile strategia che presenta due scogli. Il primo è l’attivazione di una struttura di implementazione, il secondo deriva dagli elementi di incertezza che l’accompagnano. Le strategie di ricertificazione degli insegnanti presuppongono, infatti, la messa in opera di procedure di valutazione su grandi numeri e con un tasso adeguato di credibilità e di affidabilità. In un paese in sofferenza nella selezione e nel reclutamento dei candidati all’insegnamento potrebbe essere del tutto problematico. Peraltro si dovrebbe assicurare la continuità di questa verifica nel tempo, senza dimenticare di sviluppare ipotesi in caso di mancata riqualificazione e di utilizzo dei docenti esclusi.[39]

Il calo demografico in più occasioni messo in evidenza da rapporti della Fondazione Agnelli potrebbe favorire la liberazione di ore per la formazione continua degli insegnanti, facendo rientrare nell’orario di servizio il tempo dedicato allo sviluppo professionale rendendolo componente strutturale.

L’assunzione dei docenti

La distinzione tra abilitazione e assunzione appare ragionevole; potrebbe semplificare il percorso di ingresso nella professione. Presupporrebbe l’attivazione di modalità di controllo, diretto e indiretto, da parte del sistema scolastico del lavoro delle università impegnate nella formazione iniziale dei candidati. Potrebbe, inoltre, creare una condizione più favorevole per un regime di scelta dell’insegnante da parte di ogni singola scuola.

Allungamento del tempo di scuola

Il tempo scuola è una variabile cruciale per l’apprendimento ma la sua organizzazione è una sfida complessa. Gavosto propone l’allungamento nelle scuole primarie e nelle medie con estensione al pomeriggio. I benefici, secondo l’autore, sono diversi e qualificanti: “sviluppare le competenze di base in modo più disteso”, “sostenere gli studenti più fragili”, “valorizzare quelli di maggio talento”, “sperimentare nuove materie opzionali, laboratori e attività che favoriscono le competenze disciplinari e trasversali e aiutano l’orientamento”(p.121).

Il contesto della proposta va precisato. Il sistema scolastico italiano è stato tradizionalmente basato su tempi lunghi, fino a qualche anno fa il monte ore della scuola primaria e secondaria di primo grado ponevano gli studenti italiani dai 7 ai 14 anni in posizione prioritaria in termini di monte ore settimanale in un confronto comparativo.

La praticabilità va esaminata con riferimento al passato, alle successive agende politiche, alle condizioni di fattibilità. Già in passato si è osservato che a parità di dotazioni di organico la diffusione del tempo pieno era variabile in relazione alle singole regioni. Di fronte alle promesse, ricorrenti nelle agende politiche, di ampliamento del tempo pieno le realizzazioni sono state del tutto parziali e ai fini di facilitazione della mobilità geografica. L’estensione al pomeriggio del tempo di scuola implica l’attivazione di servizi collaterali (mensa, trasporto…), presuppone spazi edilizi, dotazioni adeguate per attività di laboratorio e diversificazione didattica, condizioni non sempre presenti.

L’impatto del tempo sui livelli di apprendimento è oggetto, da tempo, di discussione e di ricerca. Esistono evidenze che possono orientare le scelte politiche. Gavosto scrive che “Più tempo sui banchi e nello studio produce risultati migliori”. Va ricordato in merito che in realtà il rapporto tra il monte ore di insegnamento e i livelli di apprendimento degli studenti non è del tutto lineare se Schleicher pone tra i miti che offuscano le decisioni in campo educativo la convinzione che “Più tempo sui banchi e nello studio produce risultati migliori” p.63ss).[40]

Altri, sulla base dell’esperienza, fanno osservare che in assenza di sostanziali modifiche metodologiche nelle attività pomeridiane è improbabile che migliorino gli studenti con difficoltà, mentre potrebbero trarre vantaggio da un prolungamento degli orari di scuola gli studenti con performance già positive e particolarmente recettivi nel lavoro scolastico.

Per una svolta rispetto al passato

Coerente con le pagine di analisi e le propose avanzate Gavosto non si nasconde le difficoltà di una svolta rispetto al passato e in funzione del futuro di fronte ai forti venti contrari (p.127). Per questa ragione il testo include alcune indicazioni che riguardano l’area di politics.

In primo luogo Gavosto avanza la proposta di un organismo autorevole e indipendente che fornisca dati attendibili ai policy maker e svolga accurate analisi sullo stato del sistema scolastico e sulle proposte di politiche scolastiche“(p.121). Indirettamente l’autore non ritiene sufficienti gli apporti dell’INVALSI (con un finanziamento di 7 miliardi di euro l’anno), dell’INVPP e dell’INDIRE (una struttura di ricerca con 170 ricercatori a tempo indeterminato) che pur producono rapporti di ricerca. Così l’INVALSI, dall’ipotesi di soggetto indipendente diventato agenzia ministeriale[41], potrebbe analizzare i percorsi degli studenti per sondare l’impatto dei punteggi rispetto all’inserimento lavorativo o agli esiti della formazione universitaria. I dati dovrebbero essere pubblici per ogni singola scuola, il valore aggiunto dovrebbe essere diversamente reso disponibile.

In secondo luogo, la leva della comunicazione va azionata efficacemente per creare un fronte comune, convincere gli attori in campo e condividere le scelte.  Il livello di apprendimento potrebbe essere il connettivo di una base comune. Da questo punto di vista occorre far convergere l’orientamento degli attori in campo verso la centralità delle conoscenze e delle competenze degli studenti attraverso “le misure degli apprendimenti“(p.15). Anzitutto spiegare alle famiglie la rilevanza dei risultati, accrescendo il livello di informazioni disponibili e pubblicizzando i risultati scolastici in forme intelligenti e accessibili e in modo sistematico e ricorrente così da fugare ogni preoccupazione di una polarizzazione delle scuole secondo uno schema gerarchico. Una comunicazione aperta capace di costruire l’adesione dell’opinione pubblica e delle famiglie alle riforme potrebbe risolversi in un segnale, forte e unico, per i decisori politici. Gavosto può citare la lezione di Eduscopio il cui impatto sembra più nella direzione di fuga dalle scuole con risultati scadenti che non nell’aumento delle iscrizioni alle scuole in cima alle classifiche.

Il perseguimento di obiettivi di cambiamento presuppongono misure adeguate di stimolo. Così il ricorso a strumenti quali gli incentivi fanno parte di una strategia di riforma. Per esempio gli insegnanti migliori potrebbero essere collocati nelle scuole più difficili attraverso incentivi al cambiamento relativi alla retribuzione, ai passaggi di carriera, alla formazione continua e al riconoscimento sociale delle professioni dell’educazione.

Il PNRR può rivelarsi un possibile fattore di svolta. La presenza di un esplicito vincolo esterno (“il podestà straniero”) che subordina i flussi finanziari alle realizzazioni dei programmi costringe il paese a adottare politiche o varare riforme che altrimenti non decollerebbero. Così in passato il limite alla reiterazione senza fine dei contratti a tempo determinato imposto dall’Unione ha forzato l’adozione di misure urgenti a lungo procrastinate. Ora la previsione della carriera per gli insegnanti, inclusa nelle condizioni del PNRR, dovrebbe portare alla tradizione operativa di una questione a lungo discussa.

A livello europeo, Gavosto chiude ricordando l’errore di una Unione che non ha nella scuola un obiettivo comune. L’educazione, infatti, non è materia di pertinenza comunitaria bensì dei singoli stati, pur registrando, come commenteremo in seguito, le tendenze alla convergenza verso soluzioni europee ai diversi problemi della scuola.

Alcune spigolature

Troppo stimolante il saggio di Gavosto per frenare nel lettore qualche esercizio di lettura critica. In un testo denso e ricco non mancano, infatti, spunti per annotazioni a margine a conferma di un sistema, la scuola, a comprensione complessa, avendo presenti i criteri di praticabilità, di plausibilità e di supporto scientifico su cui l’autore ha impostato l’intero volume.

Processi politici fuori controllo e policies non appropriate

Per capire il Capitolo 5 (“Come sbloccare la scuola”) occorre esaminare, anzitutto, i fattori che hanno paralizzato la scuola frenando le spinte all’innovazione. Gavosto punta l’attenzione sulle riforme tentate e sul loro fallimento esemplificate nel ‘concorsone’ di Luigi Berlinguer e nella ‘Buona Scuola’ di Matteo Renzi. In entrambi i tentativi si è assistito all’insuccesso di ipotesi innovative, in un caso in tema di professione docente, nell’altro in un programma ampio di ridisegno di vari aspetti del sistema di istruzione. Nelle due esperienze Gavosto rintraccia gli ostacoli nella fragilità dell’agire pubblico e nella debolezza dei contenuti.

Sul primo aspetto i fattori comuni sono state le posizioni contrarie dei docenti e la forza di mobilitazione dei sindacati della scuola[42]. Nella ricostruzione della fallita riforma di Luigi Berlinguer Gavosto mette in evidenza l’assenza di una condivisione tra gli attori della policy community e la loro volatilità. Per la ‘Buona Scuola’ di Matteo Renzi, al di là del riconoscere le pregevoli intenzioni, per Gavosto i limiti sono nell’analisi iniziale, soprattutto sulla questione dei precari, nelle carenze della comunicazione pubblica e nell’approccio antagonistico adottato.

Dal punto di vista dei contenuti, della loro plausibilità e delle evidenze scientifiche di riferimento, Gavosto scrive che “il principale motivo del fallimento del Concorsone fu probabilmente il legame diretto tra valutazione e premio in denaro che presenta diverse controindicazioni” (p.98). Infatti, precisa, “il merito individuale è obiettivamente difficile da misurare” e “il premio è divisivo, perché non stimola comportamenti virtuosi di tutto il gruppo docente, ma anzi crea concorrenza al suo interno ed è effimero, perché a differenza dei passaggi di carriera, non fornisce incentivi duraturi al miglioramento” (p.98). La debolezza del legame tra incentivi finanziari e prestazioni professionali nella scuola, peraltro, era già al tempo conosciuta e ampiamente discussa.[43] Negli anni della proposta di Berlinguer esistevano seri dubbi sull’impatto della differenziazione stipendiale degli insegnanti. D’altra parte intere aree del Paese disponevano di scuole ad elevata performance (si pensi ai licei friulani e lombardi o agli istituti tecnici nel Nord Italia) senza alcuna misura di merit pay. Successive analisi avrebbero messo in discussione la probabilità di impatto positivo sui livelli di apprendimento degli studenti al netto degli effetti secondari indiretti di demotivazione e di fratture nelle comunità professionali.

Nel caso della “Buona Scuola” alcune ipotesi erano improvvisate, ragionevoli ma senza il vaglio della realtà, cioè senza esperienze anticipatrici, movimenti di innovazione come banco di prova, o realizzazioni parziali di prototipi al fine di verifica di impatto e di efficienza. Per l’organico di territorio[44], per esempio, non erano previste realizzazioni pilota su piccola scala per verificarne la praticabilità definendo, successivamente, strategie operative collaudate da esperienze su scala ridotta.

I “due esempi più clamorosi di riforme fallite” (p.96) rimandano per Gavosto ad una situazione più generale nella storia della nostra scuola. Pur senza un carattere “così omnicomprensivo” (p.97) l’autore riconosce, tuttavia, alcune realizzazioni: dalla creazione dell’INVALSI (2006) e del Sistema nazionale di valutazione nel 2013 ai vari tentativi di impostare e reimpostare la formazione inziale degli insegnanti (p.97), dalla catena ininterrotta di provvedimenti per l’assunzione degli insegnanti «precari» al rifiuto di massa di meccanismi premiali affidati ai dirigenti scolastici, dalla partecipazione corrente al Programma PISA ai piani di sistematica e ricorrente somministrazione di prove standardizzate.

Ai margini la fascia 0-6 anni e in ombra la Iefp

Nonostante la descrizione del sistema scolastico nazionale sia sintetica e complessiva (pp.5-7), nel testo alcune componenti rimangono sorprendentemente ai margini nonostante il loro rilievo nel quadro generale dell’istruzione e della formazione nel nostro come in altri paesi.

Nel delimitare l’area di riferimento l’autore precisa che “nel libro non si parlerà… se non occasionalmente, di asili nido (0-3a anni) né di scuola dell’infanzia (3-6) (nota 1. p.129). Apprezzabile la esplicita tracciatura dei confini, ma sorprende la marginalizzazione, se non l’esclusione, della fascia 0-6 anni. Prescindendo da concetto old-fashion di scuola improponibile oggi, non mancano ragioni per considerare l’area dei servizi per l’infanzia come componente integrante dei sistemi di istruzione e di formazione. Oltre venti anni di lavoro di ricerca e di elaborazione in sede OECD in tema di Early Childhood Education and Care – ECEC[45] offrono un ricco background di conoscenze scientifiche, di esperienze analizzate, di strategie politiche e di confronti internazionali a testimonianza della salienza del tema ripreso anche dall’Unione europea[46]. Più che in altri settori dei sistemi di istruzione, i risultati di ricchi filoni di indagine scientifica[47] sul ruolo dell’educazione in quella fascia di età per il contrasto alle disuguaglianze, oltre che sui ritorni degli investimenti economici, rendono le politiche di ECEC un’insopprimibile necessità. é un terreno di attenzione e di intervento[48] e una delle priorità del PNRR, per cui esistono ormai rapporti nazionali dell’ISTAT.[49] é una delle priorità europee rispetto alla quale alcune regioni italiane arrancano a fronte di altre già su posizioni avanzate.

La disattenzione verso l’area 0-6 rispecchia, si può ipotizzare, un generale tendenza nel contesto italiano a privilegiare gli interventi a quel livello di età in funzione di welfare familiare o di occupazione femminile mantenendo in penombra la valenza educativa dei servizi per l’infanzia che non a caso vedono da qualche anno la piena responsabilità del ministero dell’istruzione. A questo cambiamento di prospettiva che vede i servizi 0-6 sotto la sfera educativa e non più pertinenti al solo ambito assistenziale si può forse aggiungere un ritardo di cultura politica che probabilmente ha impedito in passato di capitalizzare le eccellenze italiane per una generalizzazione dei servizi. Lo iato è, infatti, evidente tra l’esperienza di Reggio Children diventato un trademark globale, come viene riconosciuto nel testo, e il livello di diffusione di servizi per la prima infanzia distante dai valori medi europei.

Meno chiara, anche perché non esplicitata, è l’incerta collocazione della formazione e istruzione professionale (Iefp) di competenza regionale (p.8) a partire dalla descrizione del sistema e in particolare nella numerosità dei docenti e degli studenti (p.7). Questa delimitazione contrasta con una prassi ormai generalizzata di adozione di un perimetro complessivo dell’area dell’educazione e della formazione. Nell’Annuario statistico dell’ISTAT, ad esempio, si trova una visione integrata[50] che include l’Istruzione e formazione professionale di competenza regionale permettendo, peraltro, uno sguardo integrato e più affidabile delle strategie contro la dispersione scolastica[51]. Si tratta di un’area di rilievo, in cui peraltro trova realizzazione il sistema duale. Crispolti e Carlini [52]presentano il significativo sviluppo dei corsi regionali dalla formazione professionale ai percorsi triennali dal 2003, dall’inserimento nel 2011 nell’ordinamento complessivo alla integrazione nel 2016.

Queste potature sono difficili da interpretare. Sorge la domanda se non derivino, la prima, da una visione centralistica del comparto dell’istruzione e, la seconda da una considerazione riduttiva e marginale della formazione professionale, non giustificata dalla precarietà e dalle inadeguatezze strutturali.

I dilemmi dell’agire razionale

Nel processo di formazione delle decisioni, scrive Gavosto, “sono spesso mancate la disponibilità di informazioni adeguate e l’indipendenza di giudizio” (p.103). L’approccio metodologico è chiaro e rigoroso nelle intenzioni: “Nella discussione cercheremo di soffermarci su politiche che abbiano ricevuto qualche forma di vaglio empirico” (p.38). Non è possibile dissentire. Ogni politica non può prescindere dal paradigma razionale: informazioni e conoscenze come basi di partenza, ipotesi di lavoro suffragate dalla ricerca, verifiche empiriche sui risultati come criteri di qualità di un’azione pubblica. La scelta si rivela, tuttavia, impegnativa per i dilemmi di fronte a cui ci si può trovare. Come riconosce lo stesso autore, si può essere costretti a ponderare (“non sempre questo sarà possibile”) e a essere realistici (“… dovremo quindi accontentarci di giudicare sulla base di plausibilità e di coerenza”, p.38).

La prospettiva pedagogica fin dall’incipit è ridimensionata (“…saranno pochi i richiami alla letteratura pedagogica” (p.XIV). Un rigoroso approccio da economista, quale quello scelto, non permette intrusioni laterali o contaminazioni disciplinari. La pedagogia è messa al vaglio. Pur riconoscendo che “in passato, i pedagogisti hanno fornito grandi intuizioni sui processi di apprendimento”(p.14), i concetti pedagogici e didattici sono riferiti, scrive l’autore, “solo quando sono suffragati da una evidenza empirica rigorosa e su ampia scala” (p.XIV). Ad una lettura superficiale si potrebbe intravvedere una sorta di ponderata rimozione della riflessione pedagogica e dei pedagogisti rispetto agli economisti, ai sociologi e agli psicologi. La scelta rischia di sottodimensionare il peso e la funzione delle idee educative, delle cornici ideali di riferimento e dello stesso linguaggio educativo. I processi di insegnamento e di apprendimento sono mediati da culture educative, visioni che ispirano l’agire professionale nelle classi e l’esperienza degli studenti. Le motivazioni degli insegnanti e le spinte all’adozione di nuove soluzioni non rispondono solamente a considerazioni economiche o all’efficacia di incentivi di stipendio o di carriera. Le stesse strategie politiche o amministrative sono intrise di quadri concettuali impliciti e di ipotesi tacite. Questi contenuti immateriali sono dati di realtà che incidono nelle dinamiche di policy making e di implementazione.

Non a caso Gavosto, attento analista delle cose di scuole, non riesce ad essere del tutto apodittico e ultimativo. Pur citando i lavori di Hattie ne riconosce, infatti, i limiti, non tanto di metodo o di tecnica di indagine, quanto di praticabilità nell’insegnamento. Nell’agire in classe non sono eliminabili la discrezionalità e la ponderazione da parte del docente rispetto ai propri compiti in cui entrano in gioco le proprie culture, le capacità tecniche e l’interazione con gli studenti. Nella pratica l’insegnamento non è la risultante di scelte tra misure disponibili sulla base di correlazioni: posizioni verificate sono in campo, ma convivono accanto a intuizioni in progress e routine consolidate. La ricorrente analisi dei miti che caratterizzano l’insegnamento dimostra quanto il rapporto tra scelte operative, culture professionali ed evidenze scientifiche non sia del tutto lineare, ma profondamente dialettico ed evolutivo nel tempo. Il riferimento alla pedagogia e alla didattica si rivela, comunque, insopprimibile anche in un testo compilato da un economista. Sviluppando alcune ipotesi sulle ragioni della buona reputazione della scuola primaria italiana Gavosto fa appello, accanto all’abitudine a lavorare in gruppo, agli studi di pedagogia e alle esperienze pratiche dei docenti ricordando che l’insegnamento ai bambini più piccoli è sempre stato un fiore all’occhiello della pedagogia italiana (p.20).

In termini di basi conoscitive delle decisioni nel corso del testo si trova uno slalom tra la vulgata, le opinioni correnti, i punti di accordo tra studiosi, le ricerche psico-pedagogiche e “il buon senso prima ancora della dottrina” (p.55): “la letteratura … mostra come…” (p.143), “non esiste una sola abilità in grado di spiegare il successo a lungo termine nell’istruzione e nel lavoro”p.143). Talora ci si può trovare di fronte a discussioni senza esito (p.47) o alla necessità di precisare: “a giudizio di chi scrive” (p.112), di prendere atto: “gli studi suggeriscono” (p.56) o anche di sospendere il giudizio: “anche se sul tema il dibattito è ancora aperto” (p.56). Qualche volta si tratta di “una conclusione ovvia” (p.56) o ci si trova di fronte a posizioni più chiare: “un’ampia letteratura psico-pedagogica sottolinea che il rendimento degli alunni sia negativamente influenzato dal numero dei passaggi fra livelli di scuola a cui i ragazzi sono sottoposti nel proprio percorso educativo” (p.49).[53]  Infine nello sviluppo del testo si precisa che il corpus di evidenza scientifica (p.38) deve fare i conti con gli “interessi di parte”, “le pressioni corporative” e le “convinzioni in buona fede” (p.38).

La ricerca si evolve nel tempo e le posizioni prima considerate vengono rivisitate e, qualche volta, rimosse. Anche il citato lavoro di John Hattie è in evoluzione e viene progressivamente aggiornato con successive pubblicazioni. Si veda, ad esempio, la ben nota teoria delle ‘intelligenze multiple” di Howard Gardner (citata anche in relazione al modello di Reggio Children p.19) finita sotto scrutinio critico tra i neuroscienziati[54]. Oppure la recente ripresa del tema dell’effetto della class size, introduce posizioni più articolate rispetto al passato sull’impatto della numerosità delle classi scolastiche sui livelli di apprendimento degli studenti[55].

Non raramente, peraltro, la ricerca non raggiunge conclusioni univoche, ma risulta ambivalente. Il campo della investigazione scientifica è, inoltre, un’area complessa che include singole iniziative locali, da un estremo, e metanalisi dei risultati di una tradizione di ricerca. Fare sintesi significa anche tener conto della valenza, dell’affidabilità e della possibile generalizzazione di ipotesi. Non è semplice tener sotto controllo l’evoluzione delle ricerche su una gamma di questioni molto ampie. L’immagine di una sorta di ‘oggettività’ o la pretesa di razionalità ne escono un po’ sfumate, se non parzialmente sgretolate. Le conoscenze, peraltro, sono in divenire e questo movimento può non essere coerente con i tempi delle decisioni politiche e della loro messa in opera.

C’è un qualcosa di ovvio nel ritenere che decisioni a livello micro e macro, guidate da evidenze empiricamente vagliate, possano migliorare i risultati degli studenti, così come avviene in molti altri settori in cui l’uso di dati nel prendere le decisioni ne accresce la produttività. Operando sulle variabili che hanno dimostrato di influire positivamente sui processi di apprendimento accresce la probabilità di un esito migliorativo. In realtà, tuttavia, la questione si rivela più complessa. Nelle riforme fallite si possono, senza dubbio, trovare la povertà di analisi e la mancanza di conoscenze specifiche, come fattori di insuccesso, ma la non padronanza dei processi di creazione del consenso e la poca familiarità con le dinamiche di implementazione possono essere altrettanto determinanti.

Ci sono situazioni in cui si decide senza conoscere a fondo il problema (si veda il caso dell’ingresso di studenti di lingua non italiana), in altre la disponibilità del conoscere non genera necessariamente decisioni conseguenti e coerenti (come dimostra il caso delle risultanze del Programma PISA), in altri ancora la decisione può essere apertamente contraria alle evidenze disponibili (si vedano i vari tentativi di incidere sulla valutazione degli studenti modificandone il format).

Non sempre l’evidenza empirica è disponibile e la sua ricerca non è compatibile con i tempi e le necessità di intervento. Così, ad esempio, di fronte all’urgenza di misure da varare, si possono non avere evidenze metodologicamente costruite sull’impatto dei diversi modelli di formazione iniziale dei docenti come non si dispone di conoscenze adeguate, non solo plausibili, ma scaturite da ricerche empiriche sull’impatto delle diverse formule utilizzate nei concorsi.

A livello di classe di scuola, la ricerca della base di evidenza e l’attenzione ad essa (data-driven instruction) sembrano fornire un profilo dell’insegnare meno soggettivo, più oggettivo, meno intuitivo e basato sull’esperienza e più scientifico. Anche la riuscita di ipotesi verificate e collaudate dipende dalla loro praticabilità, in particolare dalla capacità di gestire processi complessi ed estesi di implementazione ben sapendo che la messa in opera, in campo educativo più che in altri settori, non un mero processo esecutivo o applicativo.

Negli ultimi anni si sono create banche dati con informazioni sulle performance degli studenti, risultati di test, andamenti del dropout, quote di studenti non italiani. Rimane l’interrogativo su come queste informazioni vengano effettivamente utilizzate dai docenti, dai dirigenti, dagli amministratoti e dai policy makers. L’assunto che la presenza di informazioni migliori gli studenti è un assunto, non necessariamente un fatto.

Recuperando una distinzione propria degli analisti delle politiche pubbliche, nel testo di Gavosto pare quasi emergere un contrasto tra un approccio descrittivo e un approccio prescrittivo,[56] due piani che si intersecano ma che sono distinti. Nelle parti centrali del saggio con il focus su che cosa si insegna, chi insegna e come insegnare si mescolano l’osservazione di quanto avviene assieme all’indicazione di che cosa dovrebbe avvenire. Nel capitolo sul come insegnare l’orientamento normativo è più chiaramente evidente: come si dovrebbe insegnare prevale sul come realmente si insegna. Ma anche la implicita tendenza a fissare criteri di qualità e di efficacia dell’azione pubblica nel campo dell’istruzione individuando gli errori commessi e i relativi fattori determinanti scaturisce dalla preoccupazione di fornire indicazioni. Mentre, d’altro canto, là dove si osservano i reali processi di policy e le dinamiche politiche in atto, non in raffronto ad un modello ideal-tipico ma nel loro realizzarsi, prevale una preoccupazione di analisi. Le due angolazioni divergono: nel primo caso si è alla ricerca di scelte data-driven, nel secondo si registrano dinamiche di muddling through, razionalità limitata, approcci incrementali e deficit di implementazione. Qualche elemento di disorganicità emerge: le evidenze citate sono prevalenti in relazione alle policies da perseguire e meno abbondanti in relazione ai processi di decisione politica.

Gli insegnanti pedine o attori?

L’economista Gavosto, come abbiamo già detto, richiama l’importanza del gruppo di docenti come fattore di grande rilievo nell’impatto sugli apprendimenti degli studenti, superando l’ottica riduttiva del singolo docente bravo.  Trattando della qualità dei docenti denuncia, tuttavia, la mancanza di ricerche sul tema: “un’area in cui la ricerca non si è ancora avventurata è quella della misurazione del contributo non del singolo docente ma di tutto il gruppo dei docenti” (p.58). In realtà il tema della collective teacher efficacy è un florido filone di ricerca[57]. L’affermazione, probabilmente imprecisa, contrasta peraltro con quanto lo stesso autore afferma successivamente nel testo là dove cita le ricerche di Hattie che pongono, con un elevato indice di impatto, il fattore collettivo. La collective teacher efficacy, comunque, è da prendere sul serio per la rivoluzione culturale necessaria, soprattutto, nella scuola secondaria, dove prevalgono modelli individualistici di insegnamento. Da questo punto di vista sono da valorizzare la logica dei dipartimenti disciplinari e il ruolo delle associazioni professionali prevedendo le indispensabili condizioni organizzative, quali, ad esempio, i tempi settimanali dedicati all’interno dell’impegno di servizio degli insegnanti, come è avvenuto in passato nelle scuole primarie con i benefici riconosciuti dall’autore (p.11).

Affrontando il tema dello sviluppo professionale dei docenti il valore dell’esperienza è richiamato. in particolare si fa riferimento anche alle ricerche che concludono che “la fase cruciale sono i primi tre anni di insegnamento, dopo di che non si registrano significativi progressi” (p.59) [58]. L’affermazione è riportata da Gavosto senza essere adeguatamente vagliata attraverso le successive indagini e meta-analisi di settore che hanno approfondito e rivisitato la questione, evidenziando i miti correnti sullo sviluppo professionale[59] ma anche rovesciando sostanzialmente l’ipotesi di un’assenza di crescita dopo la fase cruciali dei primi anni di insegnamento. Inerte, peraltro, appare anche la contrapposizione tra il richiamo rituale alle valenze della formazione in servizio dei docenti e la delusione per le esperienze fino ad oggi realizzate[60] che sembra essere, tuttavia, in parte almeno, contraddetta in seguito, quanto si parla dello sviluppo professionale del docente presupponendo la possibilità di un miglioramento di competenze lungo tutto l’arco del ciclo di lavoro. L’enfasi posta sulla riqualificazione dei docenti richiederebbe l’indicazione di ipotesi plausibili di intervento efficace.

Il tema della carriera dell’insegnante, senza dubbio inflazionato, pur in assenza, peraltro, di soluzioni messe in atto, è affrontato da Gavosto in vari passaggi, descrivendo anzitutto la carriera informale dell’insegnante oggi possibile nel nostro Paese e sostenendone la indispensabilità per la qualità della scuola. Gavosto pone l’apice della carriera del docente nella direzione di scuola. Pensare, tuttavia, alla progressione professionale unicamente come un avanzamento sulla scala gerarchica e organizzativa non risponde alle esigenze propria di una professione del tutto particolare quale quella dell’insegnante. In altri sistemi scolastici esistono schemi più articolati di mobilità sia orizzontale che verticale in cui convivono percorsi diversi: sia nell’insegnamento, sia nella gestione delle scuole, sia nell’amministrazione scolastica[61]. Un primo sentiero è quello che promuove il raggiungimento di livelli avanzati di competenze nel campo dell’insegnamento, il secondo mira a creare un management radicato nella scuola o nell’amministrazione nei sistemi in cui l’amministrazione cattura i propri quadri dal mondo della scuola. Un terzo settore riguarda percorsi per chi fa ricerca in campi specialistici dell’istruzione.

Nella scuola le soluzioni retro fanno parte del dibattito e ritornano periodicamente le pratiche didattiche della tradizione, in parte abbandonate, spesso rimpiante, talvolta riprese in chiave nuova. Esperienza del passato il “merito distinto[62] una forma di differenziazione stipendiale anticipato nel 1923, modificato nel 1958 e abolito nel 1974 dai Decreti delegati è stata una realizzazione ante-litteram di merit pay, praticata nel nostro sistema scolastico e parte di quelle tradizioni di rilievo comunque presenti nel bagaglio storico della nostra scuola. L’afflato egualitario degli anni e la considerazione dei costi per una estensione anche alla scuola secondaria hanno spinto a spazzar via qualcosa che oggi potrebbe essere di grande significato. C’è quindi un antenato del ‘concorsone’ del ministro Luigi Berlinguer che non può essere considerato il primo tentativo. La consapevolezza di un capitolo dimenticato della cultura del merito con radici anche nella tradizione della nostra scuola potrebbe aiutare a capire le radici dei fallimenti più recenti alla luce di quanto avvenuto negli anni 1970.

Nelle analisi del blocco e, soprattutto, nelle prospettive di sblocco è interessante sondare quale posto venga riconosciuto e assegnato agli insegnanti. Il tema degli insegnanti entra con evidenza nel discorrere di Gavosto che rimuove l’immagine romantica dell’insegnante che i media hanno talvolta sfruttato ed evita anche di ricondurre la questione docente all’annoso problema, pur decisivo, dell’occupazione precaria nel campo dell’istruzione. L’angolazione scelta è piuttosto relativa al cambiamento di rotta auspicato. Forse non intenzionalmente sembra, tuttavia, essere privilegiata la visione degli insegnanti come attori della resistenza al cambiamento. La massa dei docenti viene vista prevalentemente come forza retrograda di opposizione all’innovazione, quasi una forza che si mobilita per frenare, che non si lascia convincere, fatta di attori al traino, esercitando quell’attrito che smorza la forza innovativa. Nella vasta letteratura su come le politiche, soprattutto nella fase di uso, vengano ridefinite, erose, rivisitate, accolte e stravolte dagli insegnanti, i comportamenti degli insegnanti non sono riconducili semplicemente alla contrapposizione tra favorevoli e contrari. L’implementazione comporta una serie di processi di cui la resistenza di fronte a proposte innovative non è che una delle modalità nella messa in opera.

Coerente con questa impostazione è la preoccupazione di “convincere gli insegnanti ad accettare le riforme”. L’ottica può rivelarsi fuorviante oltre una certa misura, come lo strumento degli incentivi pare adombrare un’immagine offuscata della professione docente, quasi pavloviana. è plausibile ritenere che ogni programma di riforma presupponga una convergenza di interessi all’interno di una robusta policy community. Da questo punto di vista gli insegnanti non risultano essere solo fattori da “catturare alla causa della riforma“: c’è una possibile posizione attiva nell’innovazione da parte di chi lavora in classe e ci sono numerose forme di teacher leadership che documentano lo spazio non secondario dei docenti nei processi di riforma.[63] Sembra mancare nel procedere dell’economista una visione attiva di chi lavora nelle classi, con la sottovalutazione della passione, della motivazione e delle capacità di azione collettiva degli insegnanti.

Dal punto di vista del ruolo dei docenti particolarmente significativo è il Capitolo 4 (Politiche scolastiche: come insegnare). Accanto ad una sezione dedicata a quanto avviene nelle classi della scuola italiana, l’autore passa al vaglio strategie didattiche e condizioni di insegnamento sulla base delle evidenze scientifiche disponibili. In coerenza con il movimento della evidence based education è implicita l’indicazione che chi insegna deve basare le proprie scelte sulle risultanze della ricerca. Quanto scrive Gavosto, soprattutto il metodo che adotta, dovrebbe rappresentare un punto fermo e un cambiamento di rotta nel discutere sui modi dell’insegnare. Per evitare di svilire la discrezionalità professionale sarebbe necessario, tuttavia, precisare, anzitutto, che ci sono livelli diversi di supporto scientifico per le scelte metodologiche e didattiche: dalle ipotesi sorrette da precisi schemi di verifica empirica a quelle che appaiono logiche e ragionevoli ma che non sono ancora state oggetto di valutazione scientifica, lo spettro lascia spazio alla ponderazione di chi insegna in classe. Inoltre è opportuno tener conto dell’evoluzione delle riflessioni in merito all’ evidence based education[64] dagli anni 1990 in poi e alle posizioni recenti più equilibrate.[65]

L’azione pubblica, debole, remissiva e inefficace, vs opinione pubblica consapevole e voice delle famiglie

Con le proposte anticipate a p.96 (“riforma dei cicli, orientamento, formazione, selezione e carriera dei docenti, allungamento del tempo di scuola”) e sviluppate nelle Conclusioni Gavosto compone un’agenda focalizzata su temi apparentemente tradizionali o da anni presenti nel dibattito politico, ma discusse ed esaminate con cura, un elenco non sterminato, ma molto impegnativo. Emergono, tuttavia, i nodi da sciogliere di quali siano le vie praticabili alternative a quelle tentate e fallite in passato e di chi possa realizzare tale agenda. Per la verità Gavosto sottolinea in più occasioni l’inadeguatezza del regime di policy makingle stigmatizza la fallacia delle strategie politiche adottate con n vari esempi. Sugli ‘anticipatari‘ l’autore scrive che “anche questo fu un compromesso”, raggiunto sotto la ministra Letizia Moratti, fra istanze diverse (nota n. 11 p.130). Così “il valzer” di quattro diversi modelli di formazione iniziale dei docenti dal 2009 ad oggi (p.66) è stato il “frutto di esigenze politiche, per cui ciascun governo ha voluto negare le scelte fatte dal predecessori senza una valutazione rigorosa della loro efficacia” p.66) con il ritorno finale all’antico con l’abolizione del tirocinio pratico con il ministro Marco Bussetti. Senza successo si è rivelata la lotta al precariato nonostante “l’intenzione dichiarata da molti governi di eliminare una volta per tutte il fenomeno del precariato nella scuola” (p.60).[66] Potente fattore interveniente sui sistemi di istruzione, capace di condizionare o suscitare la reazione dei politici, l’andamento demografico è subito più che colto come opportunità.

Le manifestazioni di inadeguatezza del sistema di policy-making rivelano la sostanziale inerzia dei policy maker di sistema. L’autore annota la mancata scelta di obiettivi importanti e l’incapacità di concentrare su di essi l’azione pubblica. Sono le “mille schermaglie tra i partiti su temi spesso secondari” (p.122), scrive, a inceppare il cambiamento. Non meno rilevante è la “tradizionale incapacità del nostro sistema politico di assumersi impegni che travalichino la (breve) esistenza dei governi “(p. X). Mentre i cambiamenti nella scuola richiedono tempi lunghi, con lenti processi di miglioramento, l’instabilità politica e i molti “punto a capo” indeboliscono strutturalmente il governo dell’istruzione. Fattore, di intralcio se non ostativo, è la discrasia presente nel mondo della scuola tra i tempi lunghi di realizzazione e di impatto delle riforme e la preoccupazione per risultati immediati o quasi da parte dei politici (p.104). Questo disallineamento è alla base degli interventi ricorrenti di stabilizzazione di docenti precari accentuata nel nostro contesto caratterizzato da forte turnover politico e l’assenza di strategie di lungo corso per assicurare le risorse professionali alle scuole. Un nodo difficile da sciogliere.[67]

Gli errori di comunicazione sono alla base del fallimento delle riforme. Le carenze riflettono l’interazione tra politica, media e cittadini con la tendenza a politicizzare la discussione sulle politiche privilegiando la messa in evidenza delle posizioni degli attori e il loro contrasto, portando alla mediatizzazione delle politiche adottate fatte oggetto di comunicazioni semplici e ricorrendo all’atteggiamento conflittuale e aggressive per far breccia nell’opinione pubblica (p.106). Non solo la presa di decisioni ma anche le “conseguenze di lungo periodo delle policy” (p.106). In ogni caso, tuttavia, annota l’autore, gli addetti ai lavori e le amministrazioni non sembrano privilegiare lo “sforzo di raggiungere tutti i cittadini” adottando “un linguaggio chiaro e accessibile” (p.106). Gavosto richiama la necessità di giornalisti specializzati sui temi della scuola più superando la comunicazione delle politiche scolastiche da parte di cronisti politici.

Per incidere efficacemente sul sistema scolastico Gavosto invoca “una vera e propria inversione di rotta” (p. X).

indicando due fattori di sblocco della scuola: un’opinione pubblica informata, attenta e attiva e le famiglie avvertite e capaci di voice nell’arena politica. Entrambi possono offrire ai politici la spinta verso le priorità su cui impegnare l’azione del governo sebbene l’impatto non segua sempre una traiettoria diretta, ma avvenga nel tempo e in modo mediato. Possono contribuire, inoltre, alla condivisione ampia di visioni e di obiettivi, senza, tuttavia, essere determinanti per il decollo, il varo e la messa in opera delle misure indicate [68]. A prescindere dalla necessità di disporre di evidenze sistematiche sul possibile ruolo dei due fattori considerati, il criterio di riferimento dell’autore (politiche basate su dati di realtà e su evidenze scientifiche…) impone alcune riflessioni. In entrambe le direzioni, anzitutto, non è plausibile pensare ad un andamento spontaneo. Un’opinione pubblica e una spinta dalle famiglie in direzione convergente può essere l’esito di iniziative coerenti. Per rendere pubblici gli risultati delle scuole e accrescere le informazioni sul destino di lungo periodo delle competenze costruite a scuola, fattori importanti per orientare e motivare i genitori, sono indispensabili interventi specifici di soggetti interni o esterni al sistema[69]. Così per attivare un’agenzia di ricerca capace di fornire ai policy maker e all’opinione pubblica le informazioni pertinenti per le decisioni da prendere occorre che scendano in campo attori di sistema in grado di imprimere una svolta[70].

  La comprensione pubblica dell’istruzione è spesso approssimativa, fuori dalla realtà e non sempre in relazione alle informazioni disponibili. Peraltro contraddizioni possono emergere in una opinione pubblica divisa con opposizioni al suo interno e forti contrapposizioni tra gli attori in campo. Le divaricazioni dell’opinione pubblica possono spingere i politici a “selezionare gli interventi più in linea con i desideri della propria parte politica” (p.117). Allargando lo sguardo Gavosto non può evitare di fare due annotazioni quasi opposte. da un lato scrive che i test standardizzati hanno “strappato il velo sul sistema scolastico e smosso un’opinione pubblica costretta a fare i conti con risultati assai distanti dalla percezione prevalente”(p.18)[71], dall’altro lato ricorda la diversa reazione in paesi come la Germania del “Pisa shock”) e “le scuse flebili” per anni addotte nel nostro Paese per sminuire le valenze degli esiti dei test standardizzati (p.18-19). In conclusione, quindi, scrive che “il miglioramento della nostra scuola richiede che l’opinione pubblica acquisisca, attraverso la misurazione degli apprendimenti, la consapevolezza dei limiti che esistono al progresso degli studenti e dei divari che caratterizzano il nostro sistema scolastico” (p.19). é questa la via  per “convincere i policy maker” (p.9).

Per quanto sia auspicabile un ruolo delle famiglie come attori nell’arena di politica, non è facile da mettere in campo.  A livello generale, come riconosce peraltro l’autore, le famiglie “non costituiscono un gruppo di interesse organizzato capace di incidere sulle politiche scolastiche” (p.107). Di qui la necessità di fornire informazioni pertinenti sulla scuola, sulle politiche scolastiche, sulla qualità della scuola e favorire la convergenza di posizioni. A livello micro le modalità di coinvolgimento dei genitori sono diverse, ma il legame tra scuola e famiglia ha un impatto positivo, soprattutto quando i genitori diventano partner della scuola nei processi di apprendimento degli studenti. La tradizione di partecipazione sociale avviata negli anni 1970, mai compiutamente rivisitata e lasciata alla deriva, non appare da questo punto di vista efficace.

Gavosto cita l’azione dei genitori per ribaltare la decisione di ridurre il ciclo del Gymnasium da 9 a 8 anni nel in un Land tedesco. Il caso, per la verità, documenta la forza di resistenza esercitata dalle famiglie rispetto ad un programma politico già messo in atto: la presa di posizione dei genitori e le conseguenti azioni sono interventi di reazione, non di proposta innovativa, di fronte ad un cambiamento costruito semplicemente ridistribuendo in quatto anni il monte ore e i programmi di un percorso quinquennale, peraltro privando gli studenti del tempo pomeridiano tradizionalmente dedicata ad attività personali nel campo delle sport, della cultura e della vita sociale.

L’esercizio della voice, alternativa all’exit, può essere rafforzato da “una maggior trasparenza tra scuola e famiglia relativamente agli esiti del lavoro in classe” (p.111). Gavosto richiama un effetto secondario del Covid per il “contato ravvicinato” (p.112) che ha generato e generalizzato: la scuola è entrata in casa e i genitori hanno visto da vicino che cosa fa la scuola, al contempo gli insegnanti sono entrati in casa[72]

La scelta della scuola è un indicatore importante della cultura pubblica dell’istruzione. Gavosto coglie con i dati OECD una peculiarità del nostro Paese: tra i criteri di scelta entrano in campo da parte delle famiglie, considerazioni sulla sicurezza, sulla reputazione e sul clima scolastico e meno sui risultati degli studenti e sulla specializzazione didattica della scuola. Solo il 67% cita livelli elevati di apprendimento contro l’80% dei paesi OECD considerati.[73] Un’anomalia che Gavosto riconduce al fatto che “fino a oggi i dati sugli esiti scolastici non sono mai stati facilmente reperibili” (p.112). Di qui la necessità secondo l’autore di “rendere trasparenti quante più informazioni possibili sul funzionamento e gli esiti delle scuole” con la prospettiva “a lungo andare” di “un maggior interesse da parte delle famiglie” e “una maggior pressione diretta a cambiamenti dentro la scuola” (p.112). Controbilanciando il rischio di un rigetto da parte del corpo docente con il varo di una serie di incentivi loro rivolti, tenendo conto che “è sufficiente che una quota significativa” (p.113) si mobiliti.

Le valenze e le ambiguità dell’opinione pubblica e delle famiglie come fattori di sblocco riportano l’attenzione sulle debolezze del sistema di policy making. Le potenzialità dei due fattori sono legate ad un’azione efficace da parte dei diversi attori, anzitutto, di sistema nel creare le condizioni perchè esse possano realizzarsi. La contrapposizione tra un sistema di decisione, debole, inadeguato e le valenze delle due leve indicate rischia di risolversi in un ulteriore fattore di blocco del rinnovamento. La diagnosi e la terapia proposte da Gavosto non sembrano risolutive perché non si saldano in una visione delle possibili policy communities all’origine dell’innovazione in cui le strategie dei vari attori convergano più che contrapporsi.

Data l’impronta pragmatica adottata sarebbe improprio cercare nelle pagine di Gavosto le fila di un esplicito approccio neoliberale che sarebbe, peraltro, in contrasto con la presa di distanza dell’autore da una concezione aziendalistica delle competenze[74] e con l’attenzione alle risorse per l’istruzione da incrementare. Tuttavia l’attenzione al confronto e alla competizione tra scuole con la riduzione darwiniana delle scuole ‘peggiori’ e la rilevanza implicita della “school choice” sembrano mettere in ombra il concetto dell’istruzione come bene comune, sostituito dalla responsabilità individuale delle famiglie invitate a sollecitare soluzioni innovative nelle scuole. In ombra altresì la nozione di azione pubblica come intervento rivolto a garantire l’equità (qualunque scuola venga scelta) sostituita dalla pressione dell’opinione pubblica e dei genitori sui responsabili politici per ottenere una risposta ai bisogni educativi.

I rebus delle risorse finanziarie per la scuola

La spesa per l’istruzione non è tema al centro del saggio, tuttavia, viene affrontato in diversi passi. Dopo aver indicato tra i ritardi del paese anzitutto il sotto-investimento in istruzione (p.X)[75] e richiamato i benefici degli investimenti in capitale umano (pp.4-5), alla mera riproposizione di opinioni correnti Gavosto oppone un’annotazione specifica: “il nostro paese non spende poco nella scuola in assoluto, ma lo fa in modo sbilanciato” (p.40). Vari indicatori, infatti, confermano, ad esempio, che alcuni comparti, come le scuole primarie, dispongono di maggiori risorse rispetto ad altri, quali le scuole secondarie e che la scarto è maggiore rispetto al settore terziario[76]. Questa constatazione, tuttavia, non annulla quanto scritto nelle prime pagine circa la percentuale del Pil destinato all’istruzione che nel suo complesso ha avuto quasi costantemente valori inferiori ai quelli medi dell’area OECD e dei paesi europei, come è avvenuto, peraltro, anche per la spesa per studente e per la percentuale di spesa pubblica per l’istruzione[77].

L’andamento decrescente della spesa pubblica per l’istruzione ha subito una forte accelerazione con il taglio di 9 miliardi di euro con il ministro dell’istruzione Maria Stella Gelmini e il ministro dell’economia Giulio Tremonti. Con la “Buona Scuola” del premier Matteo Renzi si sono recuperati 3 miliardi di risorse per la scuola che, secondo Gavosto, avrebbero consentito il ripristino dello “status quo precedente la ministra Gelmini” (p.99). In realtà osservando la variazione della spesa pubblica in istruzione dal 2008 al 2017, dopo il crollo del 2009 si osservano solo leggere oscillazioni nel periodo del governo di Matteo Renzi, senza il ritorno ai livelli di spesa precedenti.[78]

                  Sull’impiego delle risorse finanziarie per l’istruzione, “Oltre il 90% delle risorse è destinato al monte salari” scrive Gavosto, p.40). Prendendo a riferimento i dati contenuti in Education at a glance (OECD, 2021, p.309), la realtà sembra essere diversa. Le spese per l’istruzione nel nostro Paese risultano essere distribuite per il 99% in spese correnti e per l’1% in conto capitale contro valori medi rispettivamente del 92% e dell’8% nei paesi dell’area OECD. Nelle spese correnti solo il 77% riguarda gli stipendi del personale.[79] Quanto scrive Gavosto probabilmente si riferisce unicamente al bilancio del Ministero dell’Istruzione, senza considerare, quindi, gli oneri che fanno capo agli enti territoriali. L’imprecisione, se i riferimenti sono corretti, stupisce in un testo compilato da un economista anche se la quasi monopolizzazione della spesa per l’istruzione da parte dei salari del personale è diffusa opinione comune. [80]

Procedendo pragmaticamente Gavosto calcola la quantità delle risorse necessarie per cambiamenti annunciati come nel caso dei finanziamenti occorrenti per affrontare la questione dell’edilizia scolastica e da l’indicazione per una ripresa dello “sforzo finanziario” vincolandolo al ricorso agli strumenti disponibili di valutazioni per indentificare le aree di destinazione dei fondi (p. X).

L’incerta convergenza dei sistemi di istruzione europei

In vari passi del volume Gavosto accenna al movimento verso una scuola europea, sia come aspirazione sempre più diffusa sia come tendenze e processi in corso. L’autore prende atto dei passi compiuti in tale direzione con un significativo avvicinamento dell’Italia alle prassi prevalenti nel resto d’Europa (p.50). Ad un “mercato del lavoro sempre più transnazionale” si aggiunge la “coscienza della comune cittadinanza europea” che non può che “formarsi all’interno di un unica scuola continentale” (p.50). Per queste ragioni, a parere di Gavosto, occorre operare “in vista della convergenza dei sistemi di istruzione europei che appare inevitabile nell’arco di alcuni decenni” (p.50)[81].

Le annotazioni, per la verità, sono di carattere generale e non aiutano a capire quali possano essere le strategie da mettere in campo e da perseguire nel tempo o quali processi possano innescare meccanismi di spillover per una convergenza delle politiche dell’istruzione. Rimane così da approfondire perché decenni ormai di “mercato comune” abbiano avuto così poco impatto per l’avvicinamento dei sistemi scolastici dei paesi dell’Unione. Il ricorso alla categoria del ‘ritardo’ accumulato per confrontare il nostro Paese con altri, potrebbe far pensare ad un percorso ad inseguimento. Così come è lasciato inesplorato il permanere di peculiarità nazionali nei sistemi di istruzione dei vari paesi dell’Unione, pur in presenza di dinamiche di policy borrowing e di policy imitation, di forte internazionalizzazione di parti rilevanti dei curricoli scolastici e di nuove generazioni di studenti con esperienze europee. Disomogenei tra i paesi europei, peraltro, sono anche i livelli di apprendimento degli studenti, oltre ai regimi di certificazione (Esame di stato italiano, Baccalauréat francese, Abitur tedesco…) radicati nelle singole tradizioni nazionali che le contenute esperienze di diplomi binazionali[82] non alterano sostanzialmente.

Assenze felici e inattese

Scrivere un libro sulla scuola comporta decisioni cruciali su che cosa includere e, soprattutto, su che cosa escludere. Entrambe le scelte sono rilevanti, la seconda forse ancora più della prima perché implica opzioni più pronunciate. Leggendo le pagine del direttore della Fondazione Agnelli non si può fare a meno di notare l’assenza di contenuti spesso attesi nei volumi recenti scritti sulla scuola, anche da economisti. Assenze che si rivelano un pregio alla chiarezza espositiva, alla linearità delle argomentazioni e alla rigorosità di approccio, senza dare adito a facili discussioni.

Diversamente da altre ricostruzioni Gavosto non muove dallo sguardo storico con i connessi rischi di valutazioni approssimative e sommarie, di richiamo all’età dell’oro o di sguardi nostalgici. Assente il riferimento, ad esempio, alla presunta età dell’oro della nostra scuola a cui la letteratura critica degli ultimi anni ha fatto riferimento. L’autore non manca, peraltro, una frecciata allusiva al laudator temporis acti. Non ricorrono i richiami nostalgici per la scuola in cui ci siamo formati e mancano anche cenni biografici alla nonna maestra[83] o alla zia preside[84] sacerdotessa del santo graal della scuola. Sul ritorno alla scuola d’antan la posizione è articolata. Oltre a respingere, come abbiamo già detto, le citazioni delle carriere brillanti all’estero degli studenti italiani riconosce, “un maggior fondamento” alla posizione di chi pensa al ritorno alla “scuola storica” per il rischio che “certe derive dell’insegnamento moderno possano ridurre lo sviluppo delle capacità mnemoniche in tenera età“(p.13). Soprattutto dal testo emergono le coordinate della situazione attuale diversa dagli anni 70 e 80, dall’Italia del miracolo economico (p.5), dalla trasformazione epocale tra gli anni 1950 e 1980 (p.16), dalla spinta sociale del secondo dopoguerra (p.16) nonchè dalle intuizioni dei pedagogisti (p.XIV).

La cautela verso il terreno pedagogico non impedisce la riflessione sull’educazione; evita, tuttavia, sbandamenti o scivolamenti verso formule fantasiose quali “la scuola affettuosa” del ministro Patrizio Bianchi, economista di scuola diversa, come appare evidente dal confronto con il saggio pubblicato nel 2020.[85]

Marginali, e critici, i cenni all’autonomia scolastica tema oggetto di analisi da parte della Fondazione Agnelli. Parlando delle differenze territoriali (p.23) Gavosto considera “modeste” le “variazioni portate dall’autonomia scolastica” mentre registra “la fragilità del ruolo del dirigente scolastico”, “quello che doveva essere il perno dell’autonomia organizzativa e didattica delle scuole, secondo l’impostazione delle riforma del ministro Berlinguer” (p.59). é affrontato con cautela anche il tema della valutazione dei docenti su cui la stessa Fondazione ha sviluppato un proprio progetto d’intesa con il Ministero. L’impatto dell’origine sociale sui risultati scolastici, riconosciuto puntualmente, non sfocia nei richiami rituali per il suo superamento.

L’assenza di temi consunti e controversi e di luoghi comuni è, senza dubbio, uno dei pregi maggiori del volume.  Sorprende, al contrario, l’assenza di un capitolo dedicato agli studenti, il termine di riferimento delle risposte fornite agli interrogativi impliciti nei titoli dei Capitoli 2, 3 e 4, ancor più se si rileggono le citazioni in esergo. Non si può dimenticare che gli studenti con i loro sentimenti (emozioni, motivazioni, sensibilità…), energie e capacità in fieri sono le prime risorse per l’intera impresa dell’istruzione. Chissà che in una riedizione del saggio non compaia uno spazio destinato a chi apprende.

Riesce difficile non percepire una qualche frattura tra le policies passate al vaglio e i processi di politics descritti: sulle prime c’è un vasto spettro di evidenze scientifiche, sui secondi i riferimenti sono più essenziali, aneddotici talora (i casi dell’impatto dell’opinione pubblica…), generici talaltra (il richiamo alla nozione di policy community…), limitati a esperienze circoscritte (l’impatto dell’informare i genitori…). La letteratura sulla policy analysis, un florido e consolidato filone di indagine, avrebbe potuto offrire una ricca gamma di evidenze empiriche sui processi di decisione e di implementazione delle strategie per la scuola, rafforzando le ipotesi di “sblocco” contenute nel saggio.

Dal punto di vista dell’analisi delle politiche pubbliche l’approccio di Gavosto appare tradire una debole visione a tutto campo. Rimossa la politica per debolezze strutturali (non focalizzazione su obiettivi, sguardo a breve termine, forte instabilità…) gli attori istituzionali, dai governi all’amministrazione, sono ignorati a favore di attori non di sistema, come le famiglie e l’opinione pubblica, come leve di “sblocco” della scuola. Lo sviluppo di un’analisi, appena accennata, delle policy communities avrebbe portato ad una visione più integrata e articolata dell’azione pubblica. L’affermarsi di un’opinione pubblica capace di incidere e di una voice pressante delle famiglie è raramente un processo spontaneo; più spesso nasce nel contesto di una pluralità di interventi convergenti capaci di creare l’humus fertile per il risveglio di percezioni collettive e di mobilitazioni mirate. Così ad esempio, ci si può chiedere se sia possibile un’informazione aperta sulle scuole, sugli esiti dei percorsi e sulla qualità degli studenti, senza un’azione pubblica mirata da parte di altri attori, istituzionali o no, presenti sul campo.

Un libro di insolito pregio per comprendere e discutere informati

L’autore non è un ricercatore accademico nel senso classico del termine, ma con i ricorrenti interventi sulla stampa nazionale si rivela un influencer con un impatto sul dibattito nonchè sui processi di agenda setting e di policy change, anche attraverso l’autorevole fondazione di cui è responsabile.

Senza la copertina cartonata dei bestsellers, senza la carta patinata dell’editoria di gamma, senza il marketing redazionale della sovra-copertina, il volume di Andrea Gavosto inserito nei Saggi Tascabili si rivela un libro di grande pregio. Esprime una scuola di pensiero che deve costituire uno, non l’unico certamente, dei pilastri di quella cultura della scuola di chi abbiamo bisogno e che è la garanzia per uscire dalla mediocrità che paralizza, e si traduce, in un’epoca di trasformazioni, in una silenziosa ma implacabile retromarcia.

Il titolo, come spesso accade quando si scrive di scuola, contiene una vena di pessimismo. Non rispecchia, tuttavia, il contenuto e, probabilmente, lo spirito di chi scrive. Un intero capitolo, il 5 e ultimo, è dedicato al problema di come sbloccare la scuola. L’intenzione dell’autore è condurre il lettore a leggere le fragilità della nostra scuola e a prendere in considerazione le misure praticabili e affidabili che possono porvi rimedio. è un repertorio dei temi, delle misure e delle soluzioni, con pochi paralleli, quasi non manca alcun tema del dibattito politico con annotazioni pertinenti a vari livelli di evidenze scientifiche di supporto.

Si spiega così perché inutilmente si possono cercare proclami, né tanto meno slogan in un procedere serio e sobrio ad un tempo. Se esiste un rischio nell’affidare agli economisti un ruolo di supervisione della scuola, con l’invasione impropria nel mondo dell’istruzione[86] l’apporto degli economisti ancorché periodicamente messo sotto accusa[87], è ormai un punto di vista corrente. Il volume ha avuto risonanza a partire dalla critica del leader della CGIL Sinopoli ai prestigiosi confronti pubblici[88], dagli articoli su varie riviste[89] alla pubblicazione di estratti sulla stampa nazionale[90]. Se si escludono le esclusioni aprioristiche e il richiamo alle presunte posizioni neoliberiste dell’autore, poche le critiche al saggio, forse perché richiederebbero una conoscenza approfondita del terreno che non è diffusa.

Il volume di Gavosto, che fin dal titolo – La scuola bloccata, Editori Laterza, 2022 – si riconnette al corposo filone delle analisi sul difficile cambiamento della scuola italiana, da La non-decisione politica di Luciano Benadusi (La Nuova Italia 1991) a La scuola sospesa di Giulio Ferroni (Einaudi 1997) a Da Berlinguer a Gelmini. La scuola che (non) cambia di Orazio Niceforo (Tuttoscuola, 2010) fino ai più recenti La società signorile di massa di Luca Ricolfi (La nave di Teseo 2019) e Molto rumore per nulla. La parabola dell’Italia, tra riforme abortite e ristagno economico di Paolo Sestito (già presidente dell’INVALSI) e Roberto Torrini (Kindle 2020).

Ci sono specificità nell’analisi e nelle proposte di Andrea Gavosto e soprattutto temi, quali il riordino dei cicli che attendono di trovare ospitalità in un’agenda. Non c’è la rincorsa ad una scuola che non c’è[91], o un facile richiamo alla ricreazione terminata o del punto a capo[92]. Bensì un messaggio di serietà, di metodo e di pragmatismo, per costruire policies ragionevoli e robuste e per interrogarci sui processi di formazione delle decisioni, sulla loro comunicazione e sulla loro messa in opera. Questo è l’augurio per il valore aggiunto dell’intelligente e generosa fatica del direttore della Fondazione Agnelli.

 

 

 

 

 

[1] Un esempio classico di questa dinamica di cambiamenti annunciati, promossi, discussi e mai messi in opera è la riforma della scuola secondaria superiore (Cfr. L. Benadusi (a cura di), La non-decisione politica, La Nuova Italia, Firenze 1991).

[2] Cfr. L. Cuban e D.Tyack, Tinkering towards utopia A Century of Public School Reform, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1997.

[3] Si veda, tra gli altri, P. Sestito e R. Torrini, Molto rumore per nulla. La parabola dell’Italia tra riforme fallite e ristagno economico, 2019.

[4] Cfr. E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019.

[5] Cfr. P. Mastrocola e L. Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, Milano 2021; S. D’Errico, La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica, Mimesis, Milano-Udine 2019.

[6] Si vedano, ad esempio, D. Maraini, La scuola ci salverà, Solferino, Milano 2021; M.P. Veladiano, Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, costruire, cambiare, Solferino, Milano 2021; S. Carrera, Ora o mai più. Le storie di chi ha il coraggio di costruire il futuro, Chiarelettere, Milano 2022.

[7] Di scuola Banca d’Italia sono stati due presidenti dell’INVALSI (Pietro Cipollone e Paolo Sestito) con un contributo decisivo nella fase di decollo dell’analisi con prove standardizzate di massa. Dopo accademici dell’area umanistica, manager di alta gamma, rettori tecnologi, politici di rango, si è arrivati anche ad un ministro economista con Patrizio Bianchi.

[8] In sintesi: si tratta di un fenomeno marginale che riguarda, scegliendo come riferimento le norme in vigore, lo 0,5% delle classi, collocato soprattutto nelle grandi città e nelle prime classi delle superiori in un contesto, peraltro, in cui la numerosità media delle classi è inferiore rispetto ad altri paesi e in cui l’andamento demografico porterà a una drastica contrazione della popolazione scolastica.

[9] Si veda la recensione al volume da parte di Sabino Cassese, “Se tra i banchi si perpetuano i divari sociali“, Il Sole 24 ore, 11 settembre 2022.

[10] Coerentemente con l’accuratezza delle analisi Gavosto specifica i progressi registrati dalle regioni adriatiche e dalla Basilicata (nota 46 p.133-134).

[11] Cfr. A. Gavosto su La repubblica, 21 aprile 2022.

[12]I rapporti e i Working Papers della Fondazione citati nel testo sono inclusi nella bibliografia.

[13] Per una discussione del rapporto tra risultati del testing di massa e l’imprenditività cfr. Y. Zhao, World Class Learners: Educating Creative and Entrepreneurial Students, Corvin, Thousand Oaks (CA), 2012.

[14] L’INVALSI ha recentemente introdotto la categoria della dispersione implicita per un’analisi più proficua della classica patologia della nostra scuola.

[15] Gavosto nel paragrafo conclusivo del volume si rammarica per la posizione dell’educazione esterna alle competenze dell’Unione, “una lacuna a cui è tempo di porre rimedio con una scuola moderna ed europea in un quadro di regole comunitarie (p.128).

[16] Su questo tema Andrea Gavosto è intervenuto in più occasioni. Cfr. “Scuole, il calo demografico è un’opportunità per migliorare la qualità dell’istruzione”, La Stampa 3 settembre 2019.

[17] Cfr. l’analisi di G. De Rita in Una disperata confusione: la scuola italiana al 2021, CENSIS, Roma 2021.

[18] Si può ricordare che la pratica di pianificare assieme le attività da svolgere nel corso della settimana, indicato come fattore di pregio delle primarie (p.20), assente nella scuola secondaria, ha avuto una piena istituzionalizzazione con la legge di riforma n.148/90 che ha previsto due ore settimanali di programmazione comune tra le docenti delle primarie, nel quadro di una manovra che ha sfruttato il surplus di docenti generato dal calo demografico per una ristrutturazione del modello organizzativo (aumento del tempo scolastico, team teaching in tutte le classi e riduzione del tempo di insegnamento per i docenti).

[19] Stupisce che in questo lavoro, come in altri, non ci si interroghi su quali siano i fattori per rendere ragione delle performance degli studenti lombardi o friulani, prima di andare a ragionare sulle condizioni di risultati rimarchevoli di altri paesi. Meriterebbe un’analisi in profondità il successo in alcuni contesti territoriali, peraltro con un quadro normativo comune e in presenza delle stesse modalità di formazione e selezione dei docenti, di curricoli sostanzialmente uguali, di procedure comuni di valutazione, di modeste variazioni portate dall’autonomia e dell’origine meridionale di una parte consistente dei docenti che operano nelle scuole del Nord (p.23).

[20] Sul rapporto tra educazione e mobilità cfr. E. Bukodi e J.H.Goldthorpe, Social Mobility and Education in Britain. Research, Politics and Policy, Cambridge University Press. Nel volume viene denunciata per l’Inghilterra la dissonanza tra le posizioni politiche sulla mobilità sociale e i risultati delle ricerche condotte sul campo.

[21]  Superando i convenzionali confini occidentali A. Schleicher nella sua analisi comparativa prende a riferimento come sistemi scolastici di alto livello, le scuole di Singapore, dell’Estonia, del Canada e della Finlandia (Una scuola di prima classe. Come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo. Il Mulino, Bologna, 2020, pp.160ss).

[22] Forse non del tutto lineare la corrispondenza, di cui alla nota n.22 a pag.141, tra la Realschule e la Hauptchule del sistema scolastico della Germania e gli istituti tecnici e professionali del nostro Paese. Realschule e Hauptschule, infatti, accolgono studenti dagli 11 ai 16 anni (cfr. European Commission/EACEA/Eurydice, Compulsory Education in Europe 2021-2022, Eurydice, Luxembourg: Publications Office of the European, 2021, p.34.

[23] Gavosto fa riferimento alla riforma francese del collège risalente al 2016 come esempio di socle commun e di differenziazione attraverso gli insegnamenti opzionali. In realtà tale intervento di riforma mirava a superare gli effetti negativi dell’aumento delle scelte opzionali, responsabili di una accentuata stratificazione tra i collèges. In alternativa all’esplodere delle opzioni veniva proposta la generalizzazione degli insegnamenti prima a scelta, in modo da riaffermare un criterio di equità tra gli studenti. In altra parte del saggio Gavosto sembra esprimere critiche sul socle commun francese parlando della “sensazione di un’operazione gattopardesca” indotta dall'”inclusione di un numero eccessivo di soggetti” (p.45).

[24] Per un panorama europeo cfr. European Commission / EACEA / Eurydice, 2022. The Organisation of school time in Europe. Primary and general secondary education – 2022/2023. Eurydice Facts and Figures. Luxembourg: Publications Office of the European Union. Va comunque tenuto presente che i confronti tra ordinamenti diversi non sono mai semplici. Il numero di paesi con un obbligo di 13 anni è diffuso, ma talvolta questo prevede un inizio del percorso scolastico a 5 anni. Avviene, inoltre, che non sempre si tiene presente la gamma degli itinerari previsti considerando solamente la scuola secondaria generalista (vedi il rapporto Eurydice sopramenzionato) o non distinguendo tra i percorsi generalisti e quelli professionali spesso con diverse articolazioni degli anni di studio (cfr. European Commission / EACEA / Eurydice, 2022. The structure of the European education
systems 2022/2023: schematic diagrams. Eurydice Facts and Figures
. Luxembourg: Publications, Office of the European Union). L’obbligo a 19 anni è molto raro: in Germania solo in 4 Länder il Gymnasium ha la durata di 9 anni.

[25] La discussione sulla, reale o presunta, penalizzazione degli studenti italiani sul mercato del lavoro, delle professioni e della ricerca dovrebbe tener conto non solo del numero dei Paesi che adottano singoli schemi di durata ma anche delle dimensioni delle rispettive popolazioni interessate. Per ragionare in termini di tale consistenza si dovrebbe mettere a confronto, in valori assoluti, il numero di studenti con un percorso di 12 anni con il numero di quelli che seguono un itinerario di 13 anni. Inoltre, tenendo conto della segmentazione del mercato del lavoro sarebbe opportuno individuare i settori (ricerca avanzata, alte professioni, aree a rapido sviluppo tecnologico…) dove la penalizzazione potrebbe rivelarsi reale.

[26] Dal confronto tra i dati ISTAT del 2011 e del 2021 la % di giovani senza diploma tra i 20 ei 24 anni è passata in dieci anni dal 23 al 17% (Cfr. “Qual è il livello di istruzione delle ultime generazioni di italiani? Ecco cosa sappiamo”, Il sole 24 ore Infodata, 14 maggio 2022).

[27] é da tener presente che la partecipazione alla scuola secondaria (quadriennale o quinquennale) non raggiunge il 100% delle rispettive classi di età. In Francia tale indicatore si aggira attorno all’80%, nel Regno Unito l’obiettivo politico perseguito negli ultimi anni è stato il 70% degli studenti delle rispettive classi di età.

[28] Puntualmente Gavosto (nota 49 p.150) cita il disegno di legge dell’on Aprea e la “Buona Scuola” del premier Matteo Renzi. Ritiene che le esperienze di meccanismi premiali sperimentati con il Ministro Gelmini non abbiano dato risultati soddisfacenti. Le ragioni, scrive Gavosto, sono nelle difficoltà di individuazione del contributo del singolo docente e nel fatto che la qualità della scuola è frutto di un lavoro collettivo. Ricorda anche il tentativo fatto di riconoscimento economico per docenti che operano in contesti particolari, il cui fallimento fu dovuto all’esiguità della maggiorazione salariale (nota 50 p.151).

[29] Varie le critiche che sono state sollevate nei confronti del lavoro di John Hattie. La principale sottolinea che l’analisi si basa sulla misurazione della valutazione di impatto, ma non dice molto sulla natura dell’educazione e dell’apprendimento.

[30] Su questa base Gavosto non si dichiara d’accordo con la valutazione del singolo insegnante. La Fondazione Agnelli aveva partecipato negli anni ad una sperimentazione promossa dal ministro Gelmini nel 2010-201 e successivo progetto VSA legato alla “Buona Scuola”.

[31] Anche la ricerca citata registra un “effetto statisticamente significativo, seppur piccolo della qualità dell’insegnamento sul rendimento in italiano, ma non in matematica” (p.83).

[32] Si veda S. d’Errico, La scuola rapita. Il covid e la dad. Il disastro educativo italiano, Armando Editore, Roma 2021; V. Strambi e C. Zunino “Scuola il disastro della Dad a metà” La repubblica, 12 gennaio 2022.

[33] Si veda l’esperienza francese del socle commun e il suo abbandono. Per il contesto italiano è da tener presente che nel biennio delle superiori l’area comune raggiunge valori elevati come riconosce anche l’autore.

[34] La riforma del collège francese è stata varate per contenere la differenziazione tra le proposte con effetti di stratificazione delle scuole.

[35] In più occasioni e in tempi diversi Andrea Gavosto ha espresso perplessità e critiche rispetto a questa ipotesi.

[36] Cfr. www.mariogiacomodutto.it/Diplomarsi a 18 anni. Dieci scuole superiori inventano i percorsi quadriennali.

[37] La % di spesa per la formazione è ben lontana dallo standard dell’1% della massa salariale (OECD, Staying ahead: In-service Training and Teacher Professional Develoment. OECD, Paris 1998).

[38] L’unico esempio di un piano di formazione di massa per insegnanti per un arco definito di tempo è stata l’esperienza del Piano pluriennale di aggiornamento avviato dopo i programmi del 1985 rivolto a tutti i docenti della scuola primaria con un obbligo di 30 ore annuali per cinque anni di formazione in servizio su un programma comune e con il coinvolgimento diretto della rete degli IRRSAE allora esistenti.

[39] Vedi l’esperienza di rinnovamento dell’abilitazione all’insegnamento in molti Stati degli Stati Uniti

[40] Per un’analisi in profondità dell’utilizzo della estensione del tempo scuola in funzione dell’equità cfr. Saunders, M, de Velasco, J. R., Oakes, J. (a cura di), Learning Time: In Pursuit of Educational Equity, Harvard Education Press, Cambridge Mass. 2017.

[41] Gavosto richiama l’ipotesi a metà degli anni Duemila di fare dell’INVALSI un’autorità indipendente, tramontata successivamente con la transizione dell’istituto ad agenzia ministeriale (Nota n.20 p.158).

[42] Altre riforme potevano essere oggetto di attenzione per uno sguardo oltre il paradigma del blocco. La 148/90 come ricorda Sinopoli, ma anche l’autonomia delle scuole, la parità scolastica, il sistema di IEFP, il varo dell’INVALSI, gli IFTs avrebbero contribuito a chiarire percorsi non bloccati, ma realizzati con revisioni, smottamenti, erosioni e rivisitazioni successive a dimostrazione di un mondo, quello della scuola che è bloccato, ma non si ferma.

[43] La discussione e la ricerca scientifica sul tema hanno ormai una tradizione alle spalle. Tra gli altri si veda il contributo della storica e policy analyst Susan Moore Johnson, Merit Pay for Teachers. A Poor Prescription for Reform, Harvard Educational Review, 54, 2 (1984): pp.175-185.

[44] L’ipotesi di un organico assegnato ad un territorio era già presente nel Quaderno bianco sulla scuola del 2008 (F. Barca, Quaderno bianco sulla scuola, MEF-MIUR, Roma 2007), ma non aveva mai dato origine ad iniziative di messa in opera.

[45] Fin dai primi anni del secolo presente l’OECD (Starting strong, 2001) ha sviluppato un articolato complesso di analisi focalizzate, di studi comparativi, di elaborazioni politiche, di messa a punto di indicatori di qualità e di database dedicati sul tema dell’ECEC.

[46] Cfr. Council Recommendation of 22 May 2019 on High-Quality Early Childhood Education and Care Systems ST/9014/2019/INIT Document 32019H0605(01); Eurydice, Key Data on Early Childhood Education and Care in Europe 2019, 2019.

[47] Di riferimento sono degli studi di James J, Heckman, premio Nobel per l’economia nel 2000, sull’efficacia dei programmi educativi per la prima infanzia.

[48] Cfr. Il decreto ministeriale 22 novembre 2021, n. 334 di adozione delle Linee pedagogiche per il sistema integrato zerosei.

[49] Questi cambiamenti, iniziati con la Legge 107 del 2015, il successivo Decreto legislativo 65 del 2017 e la progressiva istituzione del sistema integrato di educazione e di istruzione (Sistema “ZEROSEI”), riconoscono ai servizi educativi per la prima infanzia sia il ruolo importante di supporto ai genitori nella cura, sia quello di servizi fondamentali per lo sviluppo cognitivo, emotivo e relazionale dei bambini e delle bambine. In questa cornice si colloca il Rapporto “Nidi e servizi educativi per l’infanzia, stato dell’arte, criticità e sviluppi del sistema educativo integrato”, realizzato in collaborazione tra il Dipartimento delle Politiche per la famiglia, l’Istituto Nazionale di Statistica e l’Università Ca’ Foscari Venezia e pubblicato a giugno 2020.

[50] Nel secondo ciclo di istruzione alla scuola secondaria di secondo grado si affianca l’istruzione e formazione professionale, ormai considerata a pieno titolo componente dell’istruzione e formazione nel nostro paese (Cfr. Istat, Annuario statistico 2021 cap.7 istruzione e formazione, Roma 2021, p.7). Per quanto dimensioni quantitative ridotte (230.811 partecipanti nel 2019/2020) il comparto IePF rappresenta oggi il punto di arrivo di un’evoluzione della formazione professionale regionale e si rivela una risorsa importante nella lotta alla dispersione scolastica. Si veda nel contributo di Emmanuele Crispolti e Andrea Carlini (2020, pp.116ss), citato in nota (n 8 p.130) la collocazione attuale dell’Iepf e dell’Ip nel quadro dell’ordinamento italiano.

[51] Patrizio Bianchi, ministro dell’istruzione e già assessore regionale alla scuola e formazione per un decennio nella Regione Emilia Romagna, riconosce che i risultati ottenuti nella lotta alla dispersione scolastica sono stati possibili grazie alla presenza, nella regione, di un robusto sistema di formazione professionale scrivendo che “è soprattutto grazie a una FP diffusa e capillare… che in Emilia Romagna la dispersione scolastica si è ridotta ai livelli europei, passando dal 16,5% del 2010 al 9,9% del 2018” (Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, Il Mulino, Bologna 2021, p.134).

[52] Cfr. E. Crispolti e A. Carlini, Il quadro del sistema italiano di istruzione e formazione, Sinapsi, X, n.3 (2020).

[53] Nella fonte indicata non sembra esserci traccia.

[54] L. Rousseau, “Neuromyths” and Multiple Intelligences (MI) Theory: A Comment on Gardner, Educational Psychology, 12 (2021) https://doi.org/10.3389/fpsyg.2021.720706.

[55] Cfr. P. Blatchford e A. Russell, Rethinking Class Size. The complex story of impact on teaching and learning. UCL Press, London 2020.

[56] Cfr. B.W.Hogwood e L.A. Gunn, Policy Analysis for the Real World, Oxford University Pres, Oxford 1984.

[57] Per un’introduzione alla letteratura sul tema cfr. Hoogsteen, T.J. Collective efficacy: toward a new narrative of its development and role in achievement. Palgrave Commun 6, 2 (2020). https://doi.org/10.1057/s41599-019-0381-z.

[58] Bill Gates:”Once somebody has taught for three years, their teaching quality does not change thereafter” TRF 2009 February.

[59] Sulla questione del rilievo delle azioni di sviluppo professionale dei docenti e dell’efficacia delle diverse modalità operative si vedano due studi condotti a distanza di oltre un decennio: cfr. L. Darling-Hammond, R.C Wei, A. Adree, N. Richardson e S. Orphanos, A Status Report on Teacher Development in the United States and Abroad, School Redesign Network at Standford University, National Staff Development Council, 2009 e H.C. Hill, J.P. Papay e N. Schwartz, Dispelling the myths: What the Research Says About Teacher Professional Learning, Annenberg Institute at Brown University, February. 15, 2022.

[60] Si sono pronunciati criticamente sulla formazione in servizio numerosi esperti mettendo in evidenza i limiti di molte iniziative. Cfr. Stein, M. K., Smith, M.S. e E.A. Silver, “The development of professional developers: Learning to assist teachers in new settings in new ways”, Harvard
Educational Review
, 69(3) (1999), 237-269.

[61] Nei sistemi più strutturati la progressione di carriera prevede sia la mobilità orizzontale sia quella verticale, ed è generalmente definita come percorso di carriera. Il modello più comunemente citato è quello di Singapore, in cui gli insegnanti possono scegliere fra tre linee di progressione:1) il percorso didattico; 2) il percorso dirigenziale, con funzioni collegate alla gestione e alla leadership delle scuole; 3) il percorso specialistico senior, per chi fa ricerca in campi avanzati dell’istruzione, dove sono essenziali conoscenze e competenze particolarmente approfondite. Cfr. B. Tournie, C. Chimier, D, Childress e I. Raudonyte, Teacher career reforms: Learning from experience, International Institute for Educational Planning, 2019, www.iiep.unesco.org.

[62] Il riconoscimento delle competenze culturali e professionali prevedeva anche  un’accelerazione di carriera. Era un concorso per titoli ed esami (uno scritto e una lezione) o per soli titoli a seconda della fascia stipendiale. Permetteva all’insegnante di progredire con anticipazione della classe stipendiale. Esistevano inoltre le note di qualifica, un’insufficienza impediva lo scatto biennale, un ottimo ripetuto per tre anni determinava l’anticipazione della classe di stipendio (nato con la riforma Gentile arrt. 9 e 10 del Regio Decreto 6 maggio 1923 n.1054 modificato sotto il ministro Aldo Moro della pubblica istruzione nel 1958 con la legge 13 marzo 1958, n.165).

[63] Da questo punto di vista Andreas Schleicher tra le caratteristiche dei sistemi scolastici ad elevate prestazioni individua il fatto che “Considerano i docenti come professionisti autonomi e responsabili” (Una scuola di prima classe. Come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo. Il Mulino, Bologna, 2020, pp.117ss) e tra le soluzioni per una riforma di successo inserisce “Chiedere l’aiuto degli insegnanti nella progettazione delle riforme” (pp.276ss).

[64] Rispetto l’evidence based education, originata dalla fine degli anni 1990 (David H. Hargreaves, “Teaching as a research-based profession”, 1996) ricerche successive hanno approfondito il tema facendo emergere nuove posizioni. Mentre da un lato appare indispensabile tener conto delle evidenze scientifiche, dall’altro occorre riconoscere che la sfida maggiore è il livello di capacità e di impegno per metterle in pratica (Cfr. il rapporto di ricerca Evidence-informed teaching: an evaluation of progress in England, Research report, luglio 2017, Department for Education, UK).

[65] Cfr. la sintesi formulata Dylan Wiliam, professore emerito all’University College London (UCL): “Educational research will never tell teachers what to do; their classrooms are too complex for this ever to be possible”; gli insegnanti devono, invece, diventare utilizzatori critici delle ricerche educative consapevoli che anche i risultati di consolidate ricerche possono fallire nell’applicazione in un contesto particolare (“How is educational research supposed to improve education?“, Researched.org., 27 aprile 2020). Per le classiche considerazioni pertinenti sull’incertezza che caratterizza il lavoro degli insegnanti (assenza di modelli da emulare, linee di influenza non chiare, pluralità di criteri spesso controversi, ambiguità nei regimi di valutazione e instabilità dei risultati…) cfr. D.C Lortie, School teacher: A Sociological Study, University of Chicago Press, Chicago 1975, p. 136.

[66] Spesso è fuorviante l’indicazione dei posti messi a concorso, invece di indicare il numero esatto di candidati realmente reclutati con contratto a tempo indeterminato.

[67] Sotto questo profilo Gavosto considera “un caso di studi interessante” il PNRR in cui l’assegnazione di risorse è vincolata alla realizzazione di riforme in un arco medio lungo di tempo, dal 2022 al 2026 (nota n.25 p.159).

[68] Pur tenendo conto che come scrive l’autore nella premessa “le tesi e le proposte enunciate nel volume sono …solo dell’autore” (p.XIV) non sfugge che una qualche sottovalutazione dell’azione pubblica sembra, peraltro, in contrasto con il fatto che nel consiglio di amministrazione della Fondazione Agnelli siedano, su nove componenti, Francesco Profumo e Valeria Fedeli entrambi ex ministri dell’istruzione, rispettivamente,  dal 16 novembre 2011 al 28 aprile 2013 e 12 dicembre 2016 e 1 giugno 2018 (Cfr. il sito della Fondazione Agnelli consultato il 16 agosto 2022).

[69] Non è un caso che l’esperienza di Eduscopio dimostri allo stesso tempo come sia possibile arricchire le informazioni dedicate sulla base dei dati esistenti e come occorra l’intervento di agenzie esterne al ministero di settore.

[70] Esiste un sistema di ricerca che riguarda l’educazione comprendente i settori di competenza delle università e le agenzie funzionali del ministero dell’istruzione (INDIRE, INVALSI) e di altri ministeri (INAPP).

[71] Raramente si mette in evidenza come la partecipazione ai programmi internazionali di prove standardizzate abbia messo in evidenza la qualità delle scuole lombarde e friulane, per lo più ignorata in passato.

[72] Annotazioni simili sono sviluppate in Veladiano, 2021.

[73] Occorre tener conto che il rapporto OECD,2019 vol.III (p.149) presenta di dati di soli 17 paesi di cui 7 appartenenti all’Unione europea.

[74] A questo proposito Gavosto nota che “l’approccio tipico del mondo aziendale” “porta a moltiplicare liste di etichette generiche dietro cui è difficile discernere contenuti operativi” (p.14).

[75] Il sotto-investimento è confermato dai dati Eurostat “Despite a slight increase in 2018, Italy’s education expenditure remains among the lowest in the EU. General government expenditure on education in 2018 increased in real terms by 1% on the previous year, but remains well below the EU average, both as a proportion of GDP (4% v 4.6%) and as a proportion of total general government expenditure, which at 8.2% is the lowest in the EU (9.9%)”

[76] Eurostat riconosce che “the share of GDP allocated to pre-primary, primary and secondary education is broadly in line with EU standards”.

[77] Secondo i dati OECD la % del Pil destinata al sistema scolastico è pari al 2,7% (3,5% nei Paesi area OECD e 3,2% nell’Unione europea a 23) mentre solo lo 0,9% è dedicato al settore terziario di istruzione (1,3% è il valore medio OECD e 1,2% quello relativo alla EU23) (OECD, Education at a glance 2022, OECD, Paris 2022, p.286).

[78] Si veda il grafico riportato in Bianchi, 2020 p.95.

[79] La situazione trova conferma in Eurostat (“Teachers’ salaries make up the largest share of education expenditure. Over three-quarters of the education budget (76%) was spent on employee compensation in 2018, (EU average 65%)”(https://op.europa.eu/webpub/eac/education-and-training-monitor-2020/countries/italy.html).

[80] Su questo tema è facile trovare riscontri nell’opinione corrente, anche di esperti. Cfr. ad esempio, www.pietroichino.it “La spesa per la scuola tutto stipendi e niente investimenti” 16 aprile 2015.

[81] Cfr. Nota n. 14.

[82] Cfr. le esperienze nel nostro paese dell’Esabac (Esame di Stato e Baccalaureato francese) che interessa qualche decina di migliaia di studenti ogni anno (nel 2021 erano 25.000 gli studenti che seguivano il programma bilingue triennale e 8.000 quelli che hanno conseguito il doppio diploma) e le varie forme di integrazione avviate in Francia (oltre all’Esabac, Abibac – Abitur e Baccalaureato -, Bachibac – Baccellierato spagnolo e Baccalaureato-.

[83] Non manca di stupire il richiamo ad una fonte biografica di informazione da parte di uno storico acclamato (“So di che cosa parlo perché ho avuto una nonna che faceva la maestra”, p.10) in E. Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019.

[84] Si veda il ruolo della zia Ebe “austera preside di una scuola media…” (p.43) nelle scelte scolastiche in P. Mastrocola e L. Ricolfi, Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, La nave di Teseo, Milano 2021, p.43.

[85] P. Bianchi, Nello specchio della scuola, Il Mulino, Bologna 2020.

[86] Cfr.“Le mani dell’economia sulla scuola“, Roars, 11 ottobre 2021; G. Carosotti e R. Latempa, “Privatizzazione e frammentazione: gli obiettivi del PNRR sulla scuola” Roars, 1 giugno 2021; T. Boeri, R, Perotti, “Premiare il merito. il voto agli insegnanti non è un tabù“, La Repubblica 14 febbraio 2021 A. Angelucci, “Perchè gli economisti sbagliano sulla scuola“, micromega.net, 4 gennaio 2022.

[87] Cfr. B. Scognamiglio, “La scuola bloccata”, Matmedia, 30 maggio 2022.

[88]  Cfr. Festival dell’economia 2022 di Trento e Festival Internazionale dell’economia 2022 di Torino,

[89] Cfr. La voce info (16 settembre 2022), Indice dei libri (2 novembre 2022), Tuttoscuola (9 maggio 2022). Si veda anche A. Calvani, La vecchia scuola e il disastro attuale. Una riflessione trasversale tra ideologismi, responsabilità pedagogiche, evidenze e buon senso, luglio 2022, SAPIE https://sapie.it/wp/wp-content/uploads/2022/07/La-vecchia-scuola-e-il-disastro-attuale.pdf. Cfr. M. Cerulo, “La fragilità del sistema educativo italiano”, Huffpost, 23 giugno 2022.

[90] La repubblica, 21 aprile 2022.

[91] Cfr. V. Aprea, La scuola che non c’è. Testimonianze di un’occasione perduta. Liberal Libri, Milano 2000; G. Biondi, La scuola che ancora non c’è. Dalla crisi del modello tayloristico alla scuola del futuro, Carocci Roma 2021.

[92] A distanza di anni il titolo ricorre in N. Bottani, La ricreazione è finita: dibattito sulla qualità dell’istruzione, Il Mulino Bologna 1986 e in R. Abravanel e L. D’Agnese, La ricreazione è finita. Scegliere la scuola, trovare il lavoro, Rizzoli, Milano 2015.