Uno schizzo per il restauro conservativo della nostra scuola? Questo sembra l’articolo di Galli della Loggia (“Cattedre più alte per i Prof. Lettera sulla scuola”) comparso sul Corriere della Sera martedì 5 giugno scorso. In realtà le dieci proposte dell’illustre editorialista hanno poco del brocante, al di là delle apparenze. Sanno di misure retro ma sono più serie di quanto sembrino. Provocatorie, forse, in parte cosmetiche in parte simboliche senza escludere qualche effetto placebo. Provo a commentarle, stando attento a non cadere nel benaltrismo di maniera o a pensare di smontarle come hanno già fatto altri osservatori.

La classe con la predella vista come fonte di autorevolezza, mi riporta alla mente le lezioni magiche di quei docenti che sapevano appassionare i propri studenti, catturare l’attenzione e l’emozione della classe, trasferire le loro interpretazioni degli autori o degli artisti, più che alludere a una metafora centimetrica di distinzione. Avere nelle scuole situazioni diverse, dalle aule digitali ai laboratori scientifici, dalle classi con cattedra agli spazi dedicati non è un’idea sbagliata. In fondo, sosteneva Postman, la scuola deve offrire agli studenti ambienti che non incontrano altrove. Il problema è chi calca quelle predelle: purtroppo non sempre gli studenti universitari più brillanti sono quelli che scelgono di insegnare. Quanti docenti sono ‘da predella’? Che cosa facciamo per prepararli?

Ho insegnato qualche anno in Gran Bretagna e quel coro di ‘good morning, mister Dutto’, ad ogni ingresso in classe era una prassi, un po’ decadente e ripetitiva, ma pur sempre istituzionale e rispettabile. In ogni ambiente i codici di comportamento, pur diversi, sono quanto mai utili. Quando lavoravo in Lombardia un preside venne multato dai vigili del comune perché non aveva esposto il cartello ‘vietato fumare’. Una dimenticanza? No… era una scuola dove non esistevano divieti e dove, ovviamente, nessuno fumava. Ci sono molti modi di costruire e gestire i codici di comportamento. Ignorarli è diffuso e le conseguenze si vedono.

Drastica la condanna dell’illustre editorialista delle occupazioni studentesche. L’appuntamento, non fissato in alcuna norma, ritorna puntuale: arriva l’autunno, si organizzano le autogestioni, le cronache dell’anno prima si ripetono. Il rituale stanca, ma può essere rivisitato. Dovremmo riflettere sulla rigidità dei percorsi scolastici e sull’assenza di vere opzioni una volta scelto l’istituto o l’indirizzo. Paradossalmente, l’unica scelta per lo studente è se avvalersi o meno dell’insegnamento della religione cattolica. Perfino Singapore e la Corea del Sud, ai vertici delle classifiche internazionali, hanno preso di petto il problema della flessibilità con la strategia del teach less and learn more o dei periodi senza valutazione con contenuti scelti dagli studenti. L’esigenza di progettare e di mettere in atto che ispira le autogestioni positive (gli eccessi sono altra cosa) può essere accolta con format diversi dall’ “occupazione”. Dirigenti avveduti e docenti professionali l’hanno capito da tempo.

Senza sfumature è il giudizio sulla partecipazione sociale, un apriori brandito, accettato, difeso, tollerato nel corso di qualche decennio. Giovanni Gozzer, una mente libera del passato, già negli anni 1970 aveva criticato la non distinzione tra la collegialità professionale e la partecipazione alla gestione. Mescolare i due piani è all’origine di molti mali di oggi. Si potrebbero mai pensare, in altri contesti, cose simili: una partecipazione collegiale nella gestione della giustizia aperta agli inquisiti o un collegio di pazienti per decidere di protocolli di intervento chirurgico o di trapianto di organi? Ma, come per tutti i tabu, si viene accusati di lesa maestà se si argomenta a sfavore di alcuni organi collegiali.

E’ difficile non condividere quanto l’opinionista e storico scrive sul mal uso del tempo degli insegnanti. Dobbiamo essere realisti e utilitaristi: riunioni “quanto basta”, il tempo necessario per i confronti lasciando discrezionalità ai docenti, sempre ricordando che a fare la differenza non è la somma di bravi docenti in cattedra, ma la forza di un lavoro comune, condiviso, rispettoso dell’autonomia professionale di ciascuno, convergente nelle finalità e coerente nello sviluppo.

Lo sguardo al Giappone, per prendere a prestito il modello dei lavori di pulizia degli studenti ricorre spesso e agita la fantasia. I servizi di pulizia delle scuole sono uno dei tanti specchi del malessere del nostro Paese: numerosità del personale, mansioni mal definite, privatizzazione dei servizi, impiego di lavoratori socialmente utili, dirottamento, qualche anno fa, del personale dai comuni al Miur con una catena di ricorsi non ancora estinta. Sul ruolo degli studenti, prima di arrivare in Giappone, consiglierei di visitare quelle scuole italiane dove non c’è un graffio alle pareti, dove i murales non le occupano abusivamente, dove la raccolta della carta è organizzata, dove la pulizia si vede. Come si fa e come si riesce a evitare le devastazioni altrove dominanti ? Intervistare il preside o passare una giornata all’interno di questi Istituti per capire, potrebbe essere utile.

Nel decalogo non poteva mancare la questione dei cellulari e degli smartphone. Le cose sono cambiate nella vita degli studenti, nella società e anche nella scuola: la novità ha sorpreso ministri e burocrati che hanno oscillato tra proibizione e tolleranza. Non è forse meglio identificare le buone pratiche là dove ci sono e imparare dalle esperienze migliori? Le cose si sono trasformate anche nella scuola ed è difficile tornare indietro, anche se ‘digiuni tecnologici volontari’ possono essere messi in cantiere. In Francia  Macron sta affrontando il problema che nel nostro Paese molte scuole hanno risolto con intelligenza.

Biblioteca e cineforum sono stati ingredienti apprezzati nelle stagioni del passato: forse oggi c’è qualcosa di diverso, se non di più, nella costruzione di quella knowledge home in cui le giovani generazioni stivano i propri saperi e gli strumenti per la conoscenza. La scuola è affollata di esperienze, di progetti, di collaborazioni e, probabilmente, l’alfabetizzazione della gente di domani segue percorsi da cui non sono escluse le biblioteche e i cineforum. Qualche riflessione sul canone degli autori da conoscere e sulla lettura dei classici può essere benefica.

Sulle gite scolastiche la proibizione proposta dal professore Galli della Loggia merita qualche riflessione. a Roma mi capita spesso di vedere classi caracollare stancamente lungo i viali di villa Borghese per arrivare al Bioparco o per raggiungere la Galleria Borghese, oppure trascinarsi sotto il sole per via dei Fori Imperiali per avvicinarsi al Colosseo. I giornali documentano comportamenti impropri nelle visite di istruzione. Ritornare a identificare le tappe del gran tour dell’Italia e ripercorrere gli itinerari imperdibili, senza esclusioni apriori o barriere sovraniste è una scelta che le scuole potrebbero intelligentemente adottare e che già praticano.

Quando si girovaga nella periferia londinese si trovano scuole con cartelli pubblicitari con i nomi del dirigente. A Parigi, in alcuni arrondissements, le scuole sono edifici imponenti. In Italia abbiamo un po’ di tutto. Come sostiene Galli della Loggia creare una propria identità è importante per ogni scuola e l’intitolazione può far parte di una strategia in questa direzione. Con qualche caveat: intestare a Ungaretti una scuola insicura potrebbe far venir in mente l’allegria di naufraghi, come sarebbe improprio intitolare a Enrico Fermi una scuola i cui studenti sono in coda nei test sulla matematica o sulle scienze o collegare ad un liceo il nome di Marco Pantani (come è avvenuto). Per non dire del nome di Maria Montessori tradotto in un brand nel marketing dell’istruzione. Per chi conosce le scuole nel nostro Paese non è difficile tracciare una mappa di scuole con forte identità, dall’Ariosto a Ferrara con una storia di eccellenza al tecnico Malignani in Friuli l’aeronautico a Udine, dall’Enrico Tosi a Busto Arsizio con i suoi studenti disseminati nel mondo al Maiorana di Brindisi, fucina di innovazioni. Non sarebbe male aggiungere nelle targhe di ingresso alle scuole il nome del preside (come nei reparti ospedalieri campeggia il nome del chirurgo).

Se fa riflettere, l’editoriale sulle “cattedre più alte” non evita critiche pertinenti. In una composizione d’arredo pregiato pezzi del nobile antiquariato o del polveroso modernariato si sposano bene con tracce di design contemporaneo: si rigenera il passato evitando l’effetto museo e si articola il presente valorizzando le radici. Per la scuola, che è la somma di tante piccole cose da prendere in cura, è un po’ la stessa cosa: una ragionevole composizione di misure di ieri e di soluzioni di oggi, senza presuntuosi miraggi o ingannevoli panacee. Il nirvana pedagogico non esiste e l’età dell’oro è una chimera letteraria. Naturalmente l’upcycling del passato, come le pratiche nuove, non saranno mai casuali. I metri di riferimento sono implacabili. Alla fine, quello che importa è il livello di preparazione degli studenti, il loro accesso alla cultura e al sapere. Il resto è strumentale, riguarda le condizioni, gli stimoli o i possibili incentivi.

200.000 predelle che la laboriosa Brianza e i poli marchigiani o pugliesi del mobile potrebbero sapientemente disegnare e produrre, sarebbero un investimento da considerare se solo si avesse qualche ragionevole evidenza sul contributo che ne potrebbe derivare: se in Sardegna gli studenti quindicenni senza una preparazione adeguata diminuissero drasticamente; o se in Calabria i tassi di dispersione si abbassassero sotto la soglia di riferimento. Le predelle rischiano il destino di quei pulpiti nelle nostre cattedrali apprezzati dai cultori dell’arte, ma da tempo senza parola.

Il Ministro Marco Bussetti potrà fare buon uso di quanto Galli della Loggia suggerisce, pur sapendo che i segnali stradali servono ma non determinano i percorsi, che vanno scelti sulla base di ben altre mappe. Purtroppo, quello che nella scuola si può cambiare, raramente è anche quello che importa veramente. Tanti sono i cambiamenti, ma pochi quelli che colpiscono. “Cambia la scuola, la scuola cambia”: è uno slogan ingannevole già usato qualche anno fa.

Per questa ragione – scegliere i cambiamenti autentici – l’educazione è un’arte, a tutti i livelli di responsabilità.