Interpretare la società italiana fuori dalla retorica, senza stereotipi e schivando giudizi morali sembra essere una missione impossibile. Luca Ricolfi, sociologo torinese e scrittore fecondo, smentisce questo assunto con il suo lavoro edito nel 2019 per i tipi de La nave di Teseo di Milano. Poco più di 260 pagine organizzate, dopo l’Introduzione, in quattro capitoli corredati da note di approfondimento e di chiarimento e da una appropriata bibliografia.

Da tempo interessato all’analisi dellacomponente parassitaria della società italiana (p.22) Luca Ricolfi[1] con la categoria della società signorile di massa, espressione che ha qualcosa di antico (“signorile”) e di contemporaneo a un tempo (“di massa”), intende interpretare la fisionomia profonda, fino ad ora mai adeguatamente sondata, del nostro Paese. Una configurazione, quella dell’Italia contemporanea, che sembra unire i tratti di società capitalistica con quelli di un passato “feudale e precapitalistico”.[2]

Il saggio è un testo impegnativo da leggere e anche le argomentazioni, al di là del linguaggio accessibile, obbligano ad una concentrazione a tratti faticosa. Testimonianze sulla base di esperienze, indizi raccolti in vari luoghi di qualità diversa (“alcuni sono impressionistici, altri solidamente poggiati sulla pietrosa realtà dei dati” p.154), analisi storiche apparentemente sommarie ma complesse, dati statistici ed economici che invadono quasi tutti i capitoli, elaborazioni sottese e esplicitate nelle note, soluzioni tecniche di dettaglio arricchiscono la narrazione, pagina dopo pagina, rendendola anche avvincente per la varietà di spunti e vivace quando scossa qui e là da posizioni spiazzanti,  alleggerita, purtuttavia, da una prosa lineare[3]. Il libro si muove all’interno dello scenario erudito di una varia letteratura di riferimento[4], aggiornato e attento a contributi di diversa matrice (filosofi, economisti, sociologi, giornalisti, psicologi…), suffragato da un apparato di grafici, elaborazioni e dati citati, con lo sguardo lungo della storia e con un orizzonte geo-politico esteso ai paesi avanzati, pur con qualche eccesso linguistico[5].

Nell’impostazione Luca Ricolfi adotta l’approccio dello ‘stile dell’anatra’ già sperimentato in altri testi precedenti[6] tracciando tra il contributo accademico e il saggio divulgativo, una via intermedia editorialmente fortunata e sottolineata dai lettori[7] che si propone la piena leggibilità del testo e l’accurata plausibilità per i palati accademici. Per quanto riguarda i contenuti l’autore si muove su due diversi registri, sovrapposti e interconnessi. Il primo, quello della narrazione scorrevole e diretta, rende le pagine leggibili e avvincenti, il secondo, proprio dell’argomentazione sulla base di una giungla di dati catturati e analizzati, obbliga al procedere riflessivo proprio dei sentieri della scienza. Il risultato sembra confluire verso un’analisi, si direbbe, antropologica della società italiana da cui non sono esenti lo studio dei comportamenti e le sfumature valoriali[8], equilibrati dalle evidenze che i dati, robusti salvo eccezioni[9], forniscono. Il connubio tra l’ésprit de géometrie dell’analista dei dati, questa è la disciplina accademica del professor Ricolfi, e l’ésprit de finesse dell’acuto e perspicace osservatore delle cose italiane si rivela una formula di successo, apprezzata anche da chi non condivide le posizioni espresse. Caratteristica comune a tutti i capitoli del volume è una visione d’insieme che fa interagire processi strutturali e comportamenti individuali, intreccia mutamenti pesanti con tendenze soft, reinterpreta andamenti degli indicatori a livello di paese con le tendenze di scelte di vita quotidiana[10], coordinando statistiche fattuali e percezioni soggettive.

A distanza di tre anni dalla sua comparsa nelle librerie il lavoro conserva numerosi atouts.

Pur non essendo centrato sull’istruzione[11], il volume ne parla in più parti e soprattutto, considera le vicende della scuola intrinsecamente connesse al costituirsi della formazione sociale, tema del saggio. Per questa ragione può essere d’interesse, dopo una breve sintesi del volume (1), soffermarsi su quello che Luca Ricolfi considera uno dei tre pilastri della società signorile di massa, cioè la distruzione della scuola (2), una metafora drammatica entrata ormai nel dibattito politico e culturale[12].

1. Una nuova categoria sociologica

Apparentemente leggero, quasi dialogico, il volume si scorre veloce e solo qualche pausa di riflessione, alimentata dai riferimenti puntuali e di cultura, unitamente alle note, permette di coglierne densità di contenuti e ricchezza di esplorazione. La rigorosità dell’argomentazione scientifica è resa leggera dal linguaggio che modula concetti complessi in espressioni lineari, leggibili e sostenibili lasciando all’appendice statistica le note tecniche di metodo. Scandagliando in profondità e da più angolazioni la realtà del nostro paese Ricolfi coglie i tratti di una configurazione che traduce in una nuova categoria sociologica per interpretare la società italiana e, più in generale, processi, convergenti e divergenti, in atto nelle società avanzate. Che il saggio non sia meramente riconducibile al felice nominalismo dei sociologi di pasoliniana memoria lo dimostrano l’architettura del lavoro, le argomentazioni sviluppate e la base di dati messi in gioco.

La definizione della società signorile di massa

Il Capitolo 1 è dedicato alla definizione analitica della inedita espressione. In premessa Ricolfi prova a tracciare un itinerario tra le immagini dicotomiche, tra Scilla e Cariddi si potrebbe dire, della narrazione televisiva e massmediatica e, in contrasto, dell’osservazione sul campo. Il dualismo di fronte al quale si troverebbe l’audace marziano approdato sul nostro pianeta, è nell’apparente inconciliabilità tra la visione di un paese ormai povero, senza equità, con esclusione dei giovani dal mercato del lavoro e occupazione irregolare degli stranieri e lo stile di vita dei suoi cittadini come appare facendo “un giretto nella penisola”. L’enigma italiano permane nel tempo e anche le rappresentazioni della società offerte dagli scienziati sociali, puntigliosamente elencate in una tabella di sintesi[13], non sono sufficienti, secondo l’autore, a farci comprendere il presente che stiamo vivendo.[14]

La tesi del volume, ambiziosa perché alternativa allo spettro delle metafore sociologiche costruite nel tempo,  è che il nostro Paese “non è una società del benessere afflitta da alcune imperfezioni, in via di un più o meno rapido riassorbimento, ma è un tipo nuovo, forse unico, di configurazione sociale (p.20). Continua Ricolfi: “La chiamerò ‘società signorile di massa’ perché essa è il prodotto dell’innesto, sul suo corpo principale, che resta capitalistico, di elementi tipici delle società signorili del passato, feudale e precapitalistico” precisando che: “Per società signorile di massa intendo una società opulenta in cui l’economia non cresce più e i cittadini che accedono al surplus senza lavorare sono più numerosi dei cittadini che lavorano” (p.20). Tre, quindi, sono le condizioni.

La prima si realizza quando il numero dei cittadini che lavorano è inferiore a quelli che non lavorano, più precisamente quando più del 50% dei cittadini residenti, da 14 anni in poi, non lavorano (i dati del 2018 citati da Ricolfi sono: 52% non lavorano, 39,9% lavorano e 7% sono stranieri)[15]. L’andamento del tasso di occupazione riferito alla popolazione con età superiore ai 14 anni cambia la configurazione della società come è avvenuto nel nostro Paese negli anni. Più precisamente è a partire dalla metà degli anni 1960[16] che ha origine il movimento verso il “non lavoro dei più” in cui, precisa l’autore, tra cittadini italiani ultraquattordicenni la percentuale di quanti non svolgono alcun lavoro supera il 50%(p.31)[17]. Questo indicatore, per il quale sarebbero necessarie alcune precisazioni[18] segna la svolta storica della società italiana rispetto al passato[19] e rimane un criterio per ragionare di futuro.[20]

Il consumo signorile, la seconda condizione del format sociale che Ricolfi si propone di mettere a fuoco, raggiunge la massa quando un’ampia parte della popolazione ha accesso ai consumi ”opulenti”. Con la seconda ‘transizione consumistica’ il consumo che eccede i bisogni essenziali supera il triplo del livello di sussistenza secondo la definizione statistica del sociologo Ricolfi (p.38) che elenca in dettaglio le nuove voci dell’opulenza.

Quando la stagnazione domina l’economia con la produttività del lavoro non più in crescita[21] si crea la frattura tra produttori e non produttori [22] Dal 2008 al 2018 sono dieci gli anni di stagnazione che però, a differenza del passato, non impedisce che “ruoli e istituzioni” cambino rapidamente generando una competizione “più feroce che mai” (p.45). Le ragioni della stagnazione sono riconducibili all’impatto delle altre due condizioni e, come spiega Ricolfi in seguito, ai pilastri della nuova configurazione[23].

Lo schema è quasi cartesiano: il superamento degli inoccupati sugli occupati, l’accesso di massa a consumi opulenti e il regime di stagnazione economica sono le condizioni della “società signorile di massa” convergenti ma con cronologie asincrone. Il “non lavoro dei più” prende l’avvio alla metà degli anni 1960. La transizione verso la società opulenta (“… nella popolazione nativa … il consumo che eccede i bisogni essenziali, supera il triplo del livello di sussistenza”, p.38) avviene tra gli anni 1980 e il 2000 e la stagnazione risale alla fine del primo decennio del secolo attuale (pp.204-212) in cui non si hanno aumenti della produttività. Del nuovo tipo di organizzazione sociale – la società signorile di massa – la vicenda italiana è una sorta di archetipo e diventa un’ipotesi anche per guardare altrove.

Le tre condizioni che ne sorreggono la costruzione metaforica, sono considerate dal sociologo Ricolfi come tratti primari a cui si aggiungono “importanti elementi collaterali” cometratti secondari” (p.183) quali:” la scelta dei giovani di non cercare attivamente lavoro, l’allocazione ineguale del lavoro, il primato del tempo libero, l’invecchiamento della popolazione, la tendenza delle donne a non fare figli” (p.183). Nella narrazione il collegamento tra i diversi processi può risultare logicamente plausibile: l’inoccupazione è, in vario modo, indotta o determinata dalla non ricerca del lavoro, come l’invecchiamento delle fasce anziane della popolazione è aggravato dal deserto demografico giovanile e il consumo opulento ha come precondizione la disponibilità di tempo non vincolato dal lavoro. La forza dei legami potrebbe essere più convincente a fronte di un lavoro analitico di cui si ha solo indirettamente qualche cenno in alcune note tecniche.

I pilastri economici e sociali

Le condizioni per il cambiamento non sono tuttavia sufficienti senza il sostegno dei pilastri del vivere in opulenza di cui si occupa il Capitolo 2. La società signorile affonda le proprie radici nell’enorme ricchezza accumulata dalla generazione che ha “fatto la guerra”, nella distruzione sistematica della scuola da cui deriva la disoccupazione volontaria e nel costituirsi di un’”infrastruttura schiavistica” che attraverso lo sfruttamento estremo assicura il benessere signorile.

Dal 1945 al 1992 attraverso il lavoro e il risparmio il nostro Paese, povero e fondamentalmente agricolo, è diventato una delle “prime potenze industriali del pianeta” (p.52), con una crescita dal 1964 al 1992 dovuta anche all’ “imponente espansione del debito pubblico” e alle “bolle speculative sui mercati finanziari e immobiliari” (p.52). Con gli anni la spinta al lavoro, variabile chiave del miracolo economico, si allenta a fronte di un aumento della riserva di valore su cui può contare ogni famiglia e che supera il reddito[24] e sii comincia a vivere al di sopra dei propri mezzi (nota n.156 p.218).

Dagli anni sessanta inizia il tramonto della scuola e dell’università come istituzioni in grado di assicurare, con lo sforzo e l’impegno, il raggiungimento di livelli di competenza verificati. I diplomi e le lauree diventano accessibili ai più con un abbassamento dell’asticella dei traguardi da raggiungere. Si è così scavato un profondo iato tra le aspirazioni dei giovani e il loro livello di reale preparazione, con la inevitabile conseguenza di una diffusa frustrazione a cui corrisponde il rallentamento della produttività del sistema scolastico e la riduzione della mobilità sociale.

Il terzo pilastro è il risultato della segmentazione del mercato del lavoro. Progressivamente “ruoli servili e di ipersfruttamento” svolti soprattutto da stranieri diventano componente strutturale della società: Ricolfi include in quella che chiama, con qualche approssimazione[25], infrastruttura para-schiavistica (p.192), quattro tipi di figure (lavoratori stagionali, prostitute di strada, personale di servizio e dipendenti in nero) a cui vanno aggiunti gli attori del mercato della droga, della gig economy e dei servizi esternalizzati per un totale di quasi tre milioni di persone anche se la precisa consistenza quantitativa è in qualche caso difficile da determinare[26].

Il consumo opulento

Il tratto più visibile della condizione signorile parassitaria si manifesta nelle tipologie e nell’andamento dei consumi, oggetto di analisi nel Capitolo 3. Diversamente dalle attese in un’ottica keynesiana, la riduzione del tempo di lavoro, scaturita dall’elevato aumento della produttività, non si è tanto tradotta in una contrazione di orari e tempi quanto piuttosto in una diversa articolazione biografica del lavoro con l’aumento di coloro che non lavorano e, soprattutto, nell’ “attrezzare” il tempo libero in funzione dei consumi. La fenomenologia del consumo signorile presenta categorie, nuove rispetto al passato, in grado di convogliare scelte diffuse e accomunare gli orientamenti di quote estese della popolazione.

La casa, l’automobile e le vacanze lunghe sono, anche per i cittadini non occupati, i consumi base (p.39) a cui si aggiungono, analizza Ricolfi, citando fonti specifiche e riportando dati pertinenti, uno per uno altri tipi di consumo, dal food al fitness e cura di sé, dai servizi alle famiglie al consumo di droga (“… il fatturato globale delle sostanze illegali è dell’ordine di 15 miliardi un po’ meno di un punto del Pil (il triplo di quanto spendiamo in istruzione”, p.118)[27], dai dispositivi tecnologici al gioco d’azzardo (107,3 miliardi di euro nel 2018 una somma quanto mai rilevante tenendo conto che “il servizio sanitario nazionale …costa allo Stato e alle Regioni più o meno la stessa cifra” p.125). Questa esplorazione permette al sociologo di compilare una tabella riassuntiva per proporre un bilancio (pp.126-127), si direbbe sorprendente, delle voci del consumo opulento con il nostro Paese su parecchi indicatori ai primi posti (numero di auto per famiglia, numero di cellulari, iscrizione a palestre, giovani NEET, spesa per gioco d’azzardo) nel confronto con i paesi avanzati mentre altri sono riferiti a una minoranza o comunque non alla maggioranza della popolazione (2% per chirurgia estetica pari a 930 mila persone; 30% per fitness secondo i dati 2018 corrispondenti a 18 milioni di persone).[28]

L’ingente disponibilità di monte ore liberato dall’aumento della produttività del lavoro “non è stata usata per innalzare il livello culturale delle persone, la loro sensibilità artistica, la loro capacità di vivere in modo saggio, piacevole e salutare” (p.93) come dimostra il permanere di livelli di istruzione formale comparativamente molto bassi. Anzi l’esplosione dei consumi si è accompagnata al drammatico abbassamento della qualità dell’istruzione nella scuola e nell’università (p.94).

Non evita l’autore i due nodi problematici, quali la povertà e la disuguaglianza, impossibili da ignorare parlando di opulenza e di signorilità. Considerando i dati ISTAT e l’accesso al reddito di cittadinanza (nei primi mesi dell’avvio) Luca Ricolfi circoscrive il perimetro della povertà delle famiglie italiane (una minoranza che oscilla tra il 4,7% e il 3,2%, p.97ss) precisando a proposito della condizione signorile che “è difficile pensare che tocchi meno di metà delle famiglie italiane” (p.101): una condizione, pertanto, “di massa”. Più sfumata l’analisi della disuguaglianza. Citando studi condotti e autori intervenuti sul tema, Ricolfi propende per la sospensione di giudizio circa l’aumento della disuguaglianza nel nostro paese, prendendo le distanze non solo da opinioni diffuse, ma anche da una abbondante letteratura in proposito.

La forma mentis

Nel Capitolo 4 Ricolfi unisce nella sua analisi le diverse componenti della società signorile e ritrova nella “mente signorile” l’origine culturale della nuova configurazione. Le componenti sono diverse. Il doppio legame che unisce “i produttori e i non-produttori” differenzia la società signorile classica, con i suoi nobili e servi della gleba sottoposti, dalla società signorile di massa: in quest’ultima i produttori sono autonomi ma con il proprio lavoro consentono il consumo signorile dei non produttori i quali a loro volta godono del privilegio di consumare senza lavorare ma dipendono dalla “benevolenza dei produttori” (p.136). Al giovin signore cui il mercato del lavoro riserva soprese (inaffidabilità dei titoli di studio e stipendi inferiori alle attese) vengono in soccorso il reddito, il patrimonio e la benevolenza familiare che rendono l’opzione NEET non priva di una sua razionalità.

Le identità delle persone quindi possono essere definite ”nel registro dello svantaggio” o “nel registro del privilegio” (p.141), diventando così “intrinsecamente instabili” (p.141). Allo stesso tempo la propensione al risparmio ha lasciato il posto alla priorità del carpe diem (“gustare la vita qui ed ora”) che ha contagiato un po’ tutte le generazioni con l’emergere di nuovi atteggiamenti con la rimodulazione dell’individualismo inteso come derivato dell’“imperativo dell’autorealizzazione” (p.167) con i contrappesi altruistici, quali l’etica della generosità (p.175).

La sostenibilità

Con il Capitolo 5, conclusivo del volume, il sociologo Ricolfi spinge lo sguardo alle altre società avanzate alla ricerca della presenza o assenza dei tratti signorili. Sorge l’interrogativo se la società signorile sia un’anomalia o una singolarità (p.218) italiana o una direzione lungo la quale stanno muovendo anche altri paesi. La plausibilità della nuova categoria sociologica elaborata da Ricolfi attende di essere verificata nel medio e lungo periodo attraverso i mutamenti che si registreranno negli altri paesi, per ora solamente descritti con un’istantanea. L’applicabilità a processi in atto in altri paesi potrebbe irrobustire le ipotesi implicite fatte sulle variabili (condizioni, pilastri, tratti secondari…). Il fatto che solo la Grecia risponda ai requisiti della configurazione signorile e che paesi di rilievo come la Francia e la Germania manchino di condizioni di base, indebolisce la portata generale della categoria stessa. C’è da notare che nell’elenco dei tratti e nella tabula absentiae et praesentiae, di baconiana memoria che permette di collocare i singoli paesi secondo il peso delle dimensioni della società signorile, , non appare la variabile scuola che nel format di base ne costituiva un pilastro. Anche se la sembra attagliarsi di più al particulare italiano, in riferimento al quale peraltro è stata elaborata[29], la categoria della nuova signorilità rimane uno schema di lettura e di analisi di processi di convergenza e di divergenza tra i paesi.

Per rispondere alla domanda sull’avvenire del regime signorile descritto Ricolfi ritrova la variabile cruciale nella produttività, senza l’aumento della quale non ci può essere continuità del consumo opulento: troppo elevato il debito accumulato negli anni per rischiare di perdere affidabilità e troppo rilevante la possibilità di poter importare materie prime su cui si basa la nostra economia. Purtroppo l’andamento decrescente della produttività rende reale il rischio della lenta argentinizzazione (p.220), cioè dell’affondamento.

2. La distruzione della scuola

Più che ad altri settori di azione pubblica (sanità, welfare…) è con riferimento alla scuola che Ricolfi identifica il secondo pilastro della società signorile. Il tema dell’istruzione non è per nulla marginale: la scuola, pur involontariamente, gioca un ruolo, diretto e indiretto, è un cardine della configurazione sociale del nostro Paese tracciata dal sociologo.[30] Questo avviene attraverso l’erosione della scuola della tradizione e lo smarrimento della sua missione d’origine. La sentenza di Ricolfi è lapidaria: negli anni sessanta ha inizio la progressiva distruzione della scuola e dell’università come luoghi di formazione che richiedono un duro impegno e in cambio promettono un incremento sostanziale delle conoscenze e delle abilità, certificato da un titolo di studio credibile” (p.56). Di questo processo Ricolfi si sofferma sul calo inesorabile della produttività del sistema di istruzione registrato negli anni, sulle tappe successive di un percorso ultradecennale di demolizione con le loro conseguenze, con qualche precisazione, seppur a latere, sulla qualità della scuola.

Contrariamente alle altre sezioni le pagine sulla scuola non sono arricchite di dati, tabelle e grafici e di fonti di informazione puntuali[31]. Su questo tema prevale lo stile narrativo e assume valore la testimonianza, ritenuta autorevole per l’esperienza che riflette (“Avendo frequentato le aule scolastiche e universitarie … per oltre sessant’anni, dal 1956 a oggi, posso testimoniare direttamente quello che è successo” pp.36-37)[32]. L’osservazione informale sul campo diventa decisiva: “se oggi pretendessi dai miei studenti, non quello che i miei docenti pretendevano da me, ma quello che io stesso pretendevo anche solo venticinque anni fa, non riuscirei a promuoverne più di uno su dieci” (p.61). Questo approccio arricchisce il racconto, come nel caso della non conoscenza della lingua italiana da parte degli studenti che arrivano all’università, ma si rivela debole nelle evidenze a sostegno di affermazioni, in una certa misura, quanto mai severe e drastiche, oltre a qualche inevitabile incertezza[33].

Il declino della produttività

Nel quadro di una contrazione storica della produttività nel nostro Paese la scuola è il settore maggiormente colpito, secondo il sociologo torinese, dal declino che ha colpito la società italiana. L’argomentazione, a questo proposito, viene così costruita: facendo il confronto tra il tempo necessario per preparare lo studente in uscita dalla scuola media pre-riforma (1962) e il tempo oggi necessario per raggiungere lo stesso livello, si trova una distanza enorme, otto anni nel primo caso da cinque a tredici anni in più nel secondo (p.57). Certamente la scuola non ha saputo interpretare il nuovo contesto operativo, ma il confronto è frutto di una valutazione qualitativa e non è corredato da evidenze sistematiche.

Quando ricorre alla categoria della distruzione, l’autore fa riferimento alla scuola frequentata scomparsa travolta da una tendenza onnicomprensiva che non risparmia realtà virtuose che pur esistono nel Paese e va oltre, in termini di risultati di apprendimento, alle profonde disomogeneità territoriali cui peraltro si fa cenno.

Ricolfi si inserisce nel filone della letteratura di settore che sulla scuola[34] ha dedicato pagine critiche e si allinea alle polemiche antidonmilaniane, una narrazione, diffusa se non dominante, con i suoi corifei, variamente intrecciata alle “narrazioni ufficiali” a quelle “degli studiosi” e “dei mass media” (p.15). Rimane l’interrogativo, aldilà delle diagnosi, sulle cause del declino e sull’interazione tra i pilastri indicati dell’architettura della società signorile.

Le tappe della demolizione

Quali sono state le picconate con cui la scuola stata distrutta? L’autore non ha dubbi: è con la scuola media unica e l’abbandono dell’avviamento professionale che si apre il cantiere della demolizione (1962). é fuori di dubbio che la generalizzazione della scuola media ne ha cambiato la fisionomia di tradizione, se non la natura stessa: da percorso riservato a una quota di studenti intenzionati (o destinati) a proseguire per lo più con il liceo a esperienza generalizzata di istruzione[35] basata su un tronco comune, in parte ancora legato all’impostazione precedente ma rivolto ad un pubblico socialmente e culturalmente molto vario, a cui si apre l’accesso a qualsiasi tipo di istruzione secondaria superiore. Nella scuola media pre-riforma la popolazione scolastica era il risultato di una selezione, mentre nel secondo caso si ha a che fare con tutta una classe d’età.

L’abbandono dell’avviamento professionale segna una svolta che verrà completata dalla liberalizzazione dell’accesso alle facoltà universitarie (1969) senza considerazione, in presenza del diploma, del particolare percorso scolastico seguito. A questo proposito va aggiunto che le analisi sull’impatto del tracking precoce tendono a evidenziarne gli effetti critici (discriminazione sociale, immobilizzazione delle capacità…) a conferma di una migliore soluzione nel posticipare la scelta tra percorsi accademici e percorsi vocazionali[36].

I tempi lunghi, inoltre, dell’istruzione spostano in avanti l’entrata nel mondo del lavoro. Poche sono, in effetti, le possibilità di uscita dal percorso quinquennali dei licei, degli istituti tecnici e professionali. La formazione professionale, con qualifiche e diplomi intermedi interessa quote limitate di studenti, per lo più nell’area settentrionale del Paese.

Nella ricostruzione storica Ricolfi stigmatizza (“le istituzioni si adattano”p.60) l’impatto sulle istituzioni scolastiche dell’esplosione della popolazione studentesca, del “donmilanismo dilagante” contrario alla bocciatura nella scuola dell’obbligo e della contestazione studentesca.[37]

La scuola signorile di massa

I mutamenti registrati nella scuola non si possono negare: il consumo di istruzione è aumentato per popolazione, per tempo dedicato all’istruzione, per varietà di percorsi, per diversificazione dei servizi con attenzione ai bisogni educativi speciali. Di questi processi il sociologo Ricolfi ricostruisce una trama logica latente che li attraversa e che riguarda la configurazione della società di cui la scuola è parte.

I cahiers de doléances e le lamentele sul nostro sistema di istruzione sono numerose, seppur talora ignorate (Ridolfi cita Russo, Simone…); la riflessione, tuttavia, del sociologo Ricolfi non si ferma alle patologie espressione di una visione vittimistica. Considera anche le conseguenze dei cambiamenti dal punto di vista del registro del privilegio. Il giovin signore può ”prendersela con assoluto comodo negli studi, sia nella scuola secondaria superiore, sia all’università” (p.149) o “con l’invenzione di una sorta di ‘anno sabbatico’ concesso dai genitori” prendersi una pausa di riflessione tra la scuola e l’università per “fare esperienze in giro per il mondo” (p.149).

Le conseguenze sono a largo spettro. L’abbassamento degli standard ha infiacchito la capacità dei giovani di affrontare compiti difficili, di concentrarsi, di memorizzare conoscenze (p.59). Ha danneggiato gli studenti dei ceti popolari con la lunghezza degli studi. Creare una visione al di là del modello dell’eredità attesa (p.152) che attenua la percezione del rischio del futuro. Il conseguimento di un titolo di studio che un numero sempre crescente di giovani può conseguire perde il carattere di segno distintivo e si svaluta di per sé.

Della macchina dell’istruzione, poderosa per le funzionalità attivate e gigantesca per le dimensioni, a Ricolfi interessa, e in questo a ragione, la produttività che rimane critica in termini di esiti di apprendimento. Paradossalmente, seppur in forme diverse, il sociologo si allinea a tutto il movimento genericamente denominato sotto il principio dell’accountability e operativamente tradotto nell’esplosione delle valutazione standardizzate di massa  a livello internazionale e nazionale. Tuttavia privare le percezioni soggettive e le valutazioni informali del sostegno robusto di evidenze empiriche, come è avvenuto per la maggior parte dei temi affrontati, indebolisce l’accuratezza e la forza delle argomentazioni che riguardano l’istruzione.

Da cogliere il fatto che il calo di produttività non sia solamente una semplice lacuna da colmare o ritardo da recuperare, bensì un ingrediente del malfunzionamento di una società Al di là del funzionalismo o delle teorie conflittuali dell’educazione.

L’inflazione dei diplomi

L’inflazione dei diplomi è certamente l’aspetto più evidente del cambiamento sopravvenuto, in Italia come in tutti i paesi occidentali. La grade inflation accomuna sistemi scolastici diversi e si accompagna, quasi sempre e inevitabilmente, all’abbassamento dell’asticella con la regressione della preparazione degli studenti facendo un confronto con il passato. L’impatto del diploma facile e per tutti ha effetti diversi dalla convenzionale funzionalità economica incidendo sui tratti profondi del tessuto sociale.[38]

La disponibilità oggi di informazioni affidabili sui livelli di preparazione degli studenti e i dubbi diffusi sulla funzionalità degli esami di Stato[39] come fonte di informazione sulla qualità dell’istruzione non hanno scalfito fino ad oggi l’andamento del regime dei diplomi. Pur se la generalizzazione del diploma, inoltre, rimane ancora un obiettivo da raggiungere, le percentuali di candidati che superano l’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo di istruzione rasenta il 98%. Il tema è complesso e si presta a letture diverse non senza contraddizioni. Così mentre si sostiene che l’inflazione dei titoli di studio è una delle cause della disoccupazione volontaria, dall’altra si nota che i titoli più elevati sono delle ragazze meno colpite dei maschi dal ‘non lavoro’. Peraltro il prototipo del giovane urbano del centro nord (Jacopo) come soggetto non produttore e signorile per rendita cozza contro la presentazione di un Nord produttivo a fronte di un Sud dedito al consumo.

La disoccupazione volontaria

Nelle pagine di Ricolfi un aspetto che appare rilevante dal punto di vista della scuola riguarda i NEET. Il tasso di giovani non in formazione o lavoro è abitualmente considerato come il risultato di una scuola che dissipa risorse, di un sistema formativo non attrattivo e inefficace e di un mercato del lavoro non accogliente. L’analisi proposta dal sociologo torinese considera il fenomeno anche nei suoi termini antropologici ed economici. Non sono la patologia della scuola o del mercato giovanile del lavoro a essere chiamati in causa. C’è una diversa chiave di lettura che riguarda la ponderazione da parte di quote di popolazione giovanile dei pro e dei contro  dell’impegno nella formazione o nel lavoro. “la scelta di non lavorare e godersi la vita è anche irrazionale?”(p.147) Considerando il reddito familiare, il patrimonio familiare e la benevolenza familiare la risposta può anche essere positiva (p.148).

La qualità della scuola

La diagnosi è esplicita ed è: “Siamo agli ultimi posti nella  maggior parte degli indicatori del livello di istruzione. Fra i paesi OECD solo il Messico ha meno laureati d noi. Fra i paesi europei solo la Romania” (p.202). A questa si aggiunge la particolarità che l’uso della rete ignora l’informazione e lo studio (p.202)

Ricolfi risponde opportunamente, seppur in nota, ai sostenitori della qualità della nostra scuola sulla base delle esperienze di successo all’estero di nostri studenti: sono i valori medi da considerare, non i casi singoli di eccellenza, suggerisce il sociologo, che, peraltro, riconosce che essendo i programmi di scuola ancora solidi e validi c’è sempre la possibilità per gli studenti interessati, di raggiungere mete avanzate di conoscenza e di competenza. Anche nelle catastrofi sono possibili eccezioni inattese

3. Che fare ?

Particolarmente amare sono le pagine sulla scuola aldilà della critica alla via delle riforme che da tempo non gode di buona fama. Collocare Luca Ricolfi tra i declinisti non sembra appropriato. La caratterizzazione della nostra società come società fredda e a somma zero non è un manifesto per l’azione; per le espressioni usate suona forse come una condanna, in realtà è una denuncia che in controluce rivela, se non a chiare lettere almeno come suggestioni, le piste per cambiare rotta. Non c’è compiacimento nel narrare degli italiani come declinisti felici.

Non è privo di significato chiedersi se non esista anche una scuola signorile di massa nel momento in cui dalle aule sono escluse lo sforzo e l’impegno, i diplomi e, successivamente, le lauree, sono relativamente accessibili senza lo stress di ieri, l’ingresso nel mondo del lavoro e delle professioni è sganciato, come avveniva in passato, dalla esperienza scolastica. Questo esula, tuttavia, dal fuoco delle ipotesi e tesi del volume, tuttavia alcuni passi, forse sfuggiti alla penna dell’autore ma non all’acribia del sociologo, non passano inosservati. Il fatto stesso che la transizione, descritta come signorilità di massa, non sia considerata definitiva, bensì come una tappa transitoria, presuppone un divenire non rigidamente soggetto a qualche determinismo .

Per Luca Ricolfi la scuola è parte in causa fondamentale nella società signorile; l’argomentazione proposta apre letture dissacranti sui decenni passati smitizzando realizzazioni dense di significato, ma stimola anche, seppur indirettamente, nuove riflessioni sulla scuola di oggi e di domani. Per questa ragione le pagine del sociologo risultano stimolanti per chi guarda ai sistemi di istruzione, alle loro patologie: obbligano a cogliere il significato e le valenze complessive delle vicende scolastiche uscendo da un’ottica riduttiva interna. E’ evidente che la ricerca di ipotesi di lavoro per far uscire il sistema scolastico dalle attuali condizioni critiche deve misurarsi con le categorie macro-sociali. Alcune lezioni possono essere tratte e tradotte in indicazioni. Tra le numerose sollecitazioni cinque punti mi sembrano di rilievo.

Rendere distinguibili i livelli di conoscenza e di preparazione

Secondo l’autore uno degli aspetti determinanti della cultura signorile è il fatto che l’inflazione dei diplomi e delle lauree, ottenibili con relativa facilità non consente più di conoscere le reali competenze dei diplomati o dei laureati. Questa irriconoscibilità é all’origine dell’”inquietante scoperta” del giovane con “’un pezzo di carta” che certifica le sue ‘competenze’” (p.143) e aspettative maturate quando si presenta sul mercato del lavoro: dubbio sulle competenze certificate e stipendi inferiori alla soglia di accettazione. Il diploma finale si rivela come  una sorta di patente di guida, che assicura alcune capacità di base ma non dice nulla sui viaggi che si intendano e si possano intraprendere. La scuola secondaria è frequentata da una larga parte delle rispettive classi di età (la generalizzazione attesa, posta come obiettivo, non viene, tuttavia, raggiunta in nessun paese occidentale) e, quindi, il suo significato reale è la partecipazione a un percorso definito, senza necessariamente avere un processo selettivo: il diploma finale è raggiunto da oltre il 95% dei candidati. Per cui il problema è rimanere nella traiettoria negli anni.  Rendere distinguibili i livelli di conoscenza e di preparazione potrebbe essere un primo obiettivo da perseguire. Uno sviluppo potrebbe essere quello di affiancare al diploma forme di dichiarazioni verificate dei livelli di preparazione raggiunti: il miglioramento dei processi valutativi da parte dei professori e delle commissioni di esame e il ricorso a prove standardizzate come quelle costruite dall’INVALSI potrebbero generare un portfolio in grado di informare il singolo studente sui traguardi raggiunti e i suoi interlocutori all’università o nel mondo del lavoro e delle professioni sulle competenze realmente acquisite. Scelte in questa direzione potrebbero anche canalizzare le aspettative non in base ai diplomi formali acquisiti ma ai livelli di competenza raggiunti. E contenere le “aspirazioni più irrealistiche” (p.145). Non è l’inflazione dei diplomi, ma la loro non trasparenza il problema.

Diversificare i percorsi di scuola secondaria

Accentuare la diversificazione dei percorsi di scuola secondaria, variandone anche la durata, in modo da rendere più flessibile l’ingresso nel mondo del lavoro. Unitamente il rafforzamento di percorsi di formazione non generalista potrebbe indurre studenti e studentesse a considerare l’ingresso nel mondo del lavoro. Un rapporto di permeabilità tra scuola e aziende, nel rispetto dei compiti di ciascuno. Calibrare meglio le aspettative, disarticolare i percorsi lunghi, ad esempio con i cicli quadriennali di scuola secondaria superiore, imparare dalle esperienze positive che esistono sono strade da seguire.

Ritornare al compito dell’istruzione

La scuola gioca un ruolo importante nel determinare i consumi all’interno della transizione dell’opulenza e i relativi stili di vita. Ma più ancora diventa cruciale se si riscopre  il compito dell’istruzione come definito da Bertrand Russel (p.88). Appassionare alla lettura, socializzare alla letteratura, far scoprire le valenze del contatto con i classici e gli scrittori di oggi sono compiti che devono rientrare negli obiettivi delle istituzioni educative. Le abitudini apprese nelle aule possono diventare orientamenti che rimangono negli anni e possono determinare i consumi dell’opulenza. Il tempo libero è stato usato per ampliare i consumi e non per coltivare la cultura personale (p.93), ma un cambiamento di rotta può essere perseguito. Si tratterebbe di riprendere quanto Bertrand Russell prevedeva che la riduzione del lavoro avrebbe indotto: educare perché ognuno possa “sfruttare con intelligenza il proprio tempo” (citato a p.88) “L’istruzione dovrebbe innalzarsi di livello in modo da educare e raffinare il gusto di tutti” (p.88). Tra consumi opulenti e attese ereditarie si potrebbe riprendere a lavorare seriamente e forse anche l’anomalia segnalata della cultura civica (p.191) non dovrebbe essere ignorata dalla scuola.

Mantenere programmi di elevato profilo

Contrariamente a quanto potrebbe apparire dalle diagnosi laceranti sul declino dell’istruzione Luca Ricolfi soffermandosi sul tema della qualità della scuola, pur in nota, separa la deriva della promozione sociale che cancella ogni selezione e contrae la possibilità di discernere i livelli di preparazione, dal permanere di programmi di insegnamento di livello. Riconosce che i programmi nazionali, pur alleggeriti con il tempo, hanno conservato di più soprattutto nelle scuole rispetto alle università, una loro rispettabilità. Di qui la possibilità per gli studenti di raggiungere livelli elevati di conoscenza e abilità. Mantenendo programmi appropriati alla missione della scuola evitando di cedere alle derive possibili può risultare in un punto di forza, soprattutto per gli studenti capaci e motivati, ma anche per definire lo scenario entro cui le singole scuole devono muoversi. Le dinamiche positive esistenti nel mondo della scuola devono avere dei termini di riferimento per processi di miglioramento, senza rimanere adagiati (o sdraiati) sulle routine tranquille della promozione assicurata ai più e del diploma non negato a nessuno. Grazie ad una ripresa della scuola si può riscoprire la valenza dell’ozio (p.202-3) e rivisitare i consumi culturali.

Riconoscere le possibilità esistenti

Come avviene per il Paese forse se un marziano compisse un grand tour per le scuole italiane potrebbe scoprire qualche dissonanza tra i racconti dominanti a tinte fosche e una realtà in chiaroscuro con aspetti deteriori mescolati a zone di respiro. Unire le forze per fare della scuola un contesto in cui lo sforzo, l’impegno, la dedizione riabbiano spazio, riconoscibilità e attrattività non è una prospettiva utopica: nelle aule si trovano tracce della scuola come palestra di conoscenza, di cultura e di ricerca,  permangono scuola e università “in certi casi rimaste di eccellenza quanto all’insegnamento impartito” (p.144), la promozione sociale non impedisce ai più volenterosi tra gli studenti di eccellere[40], il declino non annulla la capacità di alcuni territori di reggere il confronto[41], i migliori risultasti delle ragazze rispetto ai ragazzi (p.142) testimoniano le potenzialità del sistema esistente. Lo stesso impatto, sui risultati scolastici, del contesto socio-economico, comparativamente più contenuto in Italia che in altri paesi europei, come la Francia, testimonia la presenza, se non altro, di residui di una cultura dell’istruzione come conquista personale e non come addendo di una società signorile.

4.     Come andrà a finire ?

Smontare una “gigantesca macchina retorica” (p.16) che alimenta “un quadro apocalittico dove imperano povertà, disoccupazione, sottoccupazione” (p.17) è un’impresa degna di attenzione, come la forgiatura di nuove e inattese metafore che stimolino la riflessione indipendente. La società signorile di massa è una categoria “che fa venir fame”[42], scrive con arguzia Baldissera (2019), perché obbliga il lettore ad adottare un’ottica che non si allinea senza originalità alle immagini ottimistiche né si schiera acriticamente lungo il sentiero del pessimismo: semplicemente proponendosi di aiutare chi legge a interrogarsi sulla realtà per comprenderla.

Diffuso nella società il vittimismo non risparmia la scuola (dispersione scolastica, risorse finanziarie insufficienti, mancanza di insegnanti, inerzia politica, impresentabilità dei risultati nelle indagini internazionali…). Il “raccontarsi come vittime” (p.219), tuttavia, frena la presa di coscienza di dove siamo. La strada da imboccare è dal sociologo torinese chiaramente indicata: “Vedere quello che siamo diventati sarebbe il primo passo, un passo doloroso ma indispensabile, per conservare il nostro benessere e migliorare la nostra vita” (p.219).

La scuola si rivela una delle zone di ombra della società signorile. Nonostante i segnali, i sintomi e le analisi ormai da anni periodicamente disponibili, si stenta a reagire prendendo atto delle criticità del nostro sistema di istruzione. L’equilibrio esistente accontenta gli studenti a cui non si nega facilmente un diploma, i genitori a cui la scuola assicura spazi di ascolto e di irruzione, i ministri economici non disturbati dalla quota di risorse limitate dedicate all’istruzione, l’opinione pubblica che ha materiali per periodiche incursioni sulle patologie più eclatanti, gli studiosi che trovano terreno fertile per ribadire il rimpianto del passato. Purtroppo per la scuola, incapace di migliorarsi, ancora incagliata nel provvedere ai fondamentali (strutture edilizie, superamento del precariato…) la previsione nel senso di “Che cosa succederà se non si fa nulla” (p.213) che il sociologo Ricolfi sentenzia per il Paese (“La stagnazione si trasformerà in declino” p.221) si direbbe che è già in corso (non a caso L’autore parla di stagnazione per l’economia del Paese ma di declino conclamato per la scuola) che continuerà in assenza di robusti interventi di contrasto, quali quelli esemplificativamente elencati sopra. Come la società anche la scuola è a somma zero, per riprendere il concetto di Thurow: riforme che risolvono problemi creandone altri, manifesti erosi nella implementazione, stagnazione nei risultati degli studenti nonostante l’attivismo dei ministri che si succedono. Per la scuola l’elettroencefalogramma della produttività è piatto (p.213) da tempo [43], ma il destino non è ineluttabile e, a partire della scuola, potremmo ritornare ad essere padroni del nostro futuro.

Come abbiamo detto, la narrazione è avvincente, le diagnosi che Luca Ricolfi propone e le argomentazioni che sviluppa toccano questioni decisamente complicate. Dopo due anni dalla pubblicazione la lettura del saggio rimane  tra i consumi se non opulenti, senza dubbio intelligenti. Soprattutto perché la scarsa sostenibilità di un sistema, sociale e scolastico, che non cresce, è ancora oggi una drammatica preoccupazione da condividere.

 

[1] Il tema già era stato oggetto di riflessione nel volume precedente dell’autore L’enigma della crescita. Alla ricerca dell’equazione che governa il nostro futuro (Mondadori Milano 2019).

[2] Il termine ‘signorile’ risulta suggestivo e attrattivo, ma è da interpretare. Dal punto di vista del riferimento storico, infatti, potrebbe non apparire del tutto appropriato. Nella tradizione italiana la signoria comportava un rapporto di dominio, di potere e di autorità di una persona su altre. Più che al richiamo di regimi medioevali o alle accezioni storiche il felice neologismo coniato da Luca Ricolfi pare avvicinarsi alla generica posizione di chi vive di rendita, non lavora e accede al consumo di surplus non direttamente prodotto. Cfr. la voce “Signoria” in Enciclopedia Treccani e si vedano anche, in proposito, le annotazioni di Alberto Baldissera, “Il paese delle pensioni anticipate e delle culle vuote”, Quaderni di sociologia 81-LXIII (2019): 143-161 https://doi.org/10.4000/qds.3553, punti 15 e 16.

[3] Il saggio di Ricolfi ha suscitato un acceso dibattito, forse frenato negli ultimi mesi per via delle preoccupazioni dominanti della pandemia che hanno fatto irruzione sulla scena politica e culturale, a cui peraltro Ricolfi ha dedicato uno studio (La notte delle ninfee. Come si malgoverna una epidemia, La Nave di Teseo, Milano 2021). La discussione ha visto scendere in campo sociologi dell’accademia (Baldissera, 2019), esperti indipendenti (Alessadro Guerani, Ecco perché la società signorile alla Ricolfi in Italia non esiste proprio. 5 Gennaio 2020 Sole24 ore vicolo corto; Lorenzo Galligani, Recensione su Il pensiero Storico, Rivista internazionale di storia delle idee DOI:10.5281/zenodo3736893; Fabrizio Venafro e Salvatore Bianco, “Società signorile di massa o società signorile e basta”, Sbilanciamoci, 24 gennaio 2020,  Massimo Famularo, “Uno spettro si aggira per i Social, è il fantasma della cattiva retorica” Econopoly, 5 gennaio 2020), docenti (Alessandro Banda, La società signorile di massa, Doppiozero, 17 dicembre 2019).  Il dibattito è corroborato da interviste all’autore comparse su giornali, riviste e sui social network (Francesco Provinciali, “Luca Ricolfi: ‘La società signorile di massa’, Il domani d’Italia”, 17 febbraio 2020; Gabriele Ferraresi, “Signorili si nasce. Luca Ricolfi racconta l’Italia: un Paese diventato società signorile di massa e che vive al di sopra delle proprie possibilità. Ma fino a quando? “ Sapiens Magazine, Lutz).

[4] IL quadro di riferimento è molto ampio, dall’elenco delle teorie sociologiche che hanno introdotto concetti e metafore sulla società nel suo insieme (società industriale, …) al “tema delle rendite“, dagli autori critici della scuola agli scritti sui caratteri degli italiani, da teorie specifiche (Bateson) a sociologi dell’educazione (Bourdieu, Boudon…). Ricordando le lezioni di Claudio Napoleoni di cui si dichiara allievo Ricolfi riconosce un’affinità elettiva con La Teoria della classe disagiata (Minimum Fax, Roma 2017) di Raffaele Alberto Ventura, “il testo più profondo, e libero da preconcetti ideologici, che io abbia letto sull’Italia di oggi, e sui giovani in particolare. Su questo punto, quello della condizione giovanile, il quadro che dipinge Ventura ha molti punti di contatto con quello che ho provato a tracciare io, una prima volta in un capitolo de L’enigma della crescita (Mondadori 2014)”

[5] Come per il termine ‘signorile’ di cui si è detto (vedi nota) il ricorso alla categoria dello schiavismo, pur nella forma attenuata del para-schiavismo, riattualizza una nozione per i tempi moderni come è stato fatto sia a livello di analisi comparativa di un fenomeno globale che secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) la schiavitù moderna riguarda 40 milioni di persone (ILO, Global Estimates of Modern Slavery, forced labour and forced mariage, ILO Geneva 2017) sia nella esplorazione giornalistica nel nostro Paese (Valentina Furlanetto, Noi schiavisti. Come siamo diventati complici dello sfruttamento di massa, Roma-Bari Laterza 2021. Le forme della schiavitù moderna sono ovviamente diverse dalle manifestazioni della schiavitù che la storia del passato ha documentato.

[6] Già in altro volume Ricolfi aveva spiegato il suo approccio, ad un tempo accademico e divulgativo, senza incorrere nei limiti propri della distanza siderale dell’argomentazione accademica dalla comprensione comune e della semplificazione senza accesso alla profondità dei temi che spesso caratterizza la comunicazione generalista (L’enigma della crescita, Mondadori Milano 2014).

[7] Si vedano, ad esempio, le recensioni al volume inserite su Amazon.it.

[8] Forse in questo senso alcuni commentatori hanno rilevato un orientamento morale, stigmatizzando una sorta di colpevolizzazione personale alternativa ad un’analisi delle variabili strutturali e cogliendo in questo un pregiudizio ideologico. Secondo Fabrizio Venafro e Salvatore Bianco dietro la società signorile di massa si cela il tentativo di salvare il sistema e soggettivizzare le colpe, trovando un capro espiatorio nelle vittime” (2020, op.cit.). Se parlando di giovani ‘choisy’ e schizzinosi c’è il rischio di cadere nei luoghi comuni,  quanto scrive Ricolfi ne rintraccia, si potrebbe dire, la costruzione sociale e culturale in cui concorrono la scuola remissiva, la disponibilità ereditaria e la stagnazione economica.

[9] Cfr. nota n.27.

[10] L’individualismo non è una categoria moral, ma il risultato di una situazione strutturale.

[11] La questione della scuola ha un posto cruciale nella  narrazione di Ricolfi ma è forse anche uno dei punti deboli del testo. é, infatti, una parte che ha suscitato perplessità per la quale non c’è l’abituale abbondanza di dati statistici quale per gli altri aspetti, salvo un cenno, peraltro probabilmente errato, alle spese per l’istruzione, alle statistiche sui NEET. Sugli indicatori quantitativi prevalgono le testimonianze e gli indizi, anche se i dati Invalsi entrano nel modello di analisi sviluppato e ai divari territoriali. Nei tratti della società signorile selezionati sulla base di procedure tecniche (p.183ss) non ci sono aspetti che riguardano la scuola, non certo per dimenticanza, forse perché non risultanti significativamente correlati agli altri aspetti. Nell’analisi dei consumi si trova nella scheda l’intervento per le lezioni private (di cui non c’è cenno nel testo), variabile non quantificata. Nel confronto comparativo tra i paesi la variabile scuola scompare con il paradosso della Finlandia che presenta tratti di ‘signorilità’ con una qualità dell’istruzione per anni celebrata nei rapporti internazionali sulle performance degli studenti. Sulla perdita di valore della laurea (p.195) il consenso tende ad essere generale; purtuttavia il possesso di un titolo universitario fa ancora la differenza per occupazione e per stipendio)

[12] Si veda sul tema della distruzione della scuola Ernesto Galli della Loggia (L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio Venezia 2019) e Stefano D’Errico (La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica, Mimesis, Milano-Udine 2019). Di scomparsa della scuola aveva già parlato Adolfo Scotto di Luzio (La scuola degli italiani, Il Mulino, Bologna 2007 p.11).

[13] Ricolfi elenca le definizioni della società del nostro tempo sviluppate da sociologi, economisti, politologi e psicologi tra il 1967 e il 2014, distribuendole in ragione del loro focus (progresso, benessere, sapere divertimento, relazioni). I venti autori citati offrono il quadro storico dei “tentativi di cogliere l’essenziale del nostro tempo” (p.19). Un quadro, scrive il sociologo, “quasi sempre ottimistico se si eccettua un manipolo di definizioni pessimistiche, neutre o ambivalenti” (p.17).

[14] é interessante richiamare che anche per il settore della scuola si trova un dualismo parallelo a quello relativo alla società in genere. Al catastrofismo delle narrazioni giornalistiche e delle analisi di esperti si contrappone l’ottimismo di chi percorre il Paese da Nord a Sud e ritrova realtà dinamiche di scuole con buoni risultati, ben gestite e all’altezza del proprio compito. Quasi sempre nelle analisi critiche della nostra scuola si trovano riferimenti a situazioni positive.

[15] Nella delimitazione del non-lavoro Ricolfi mette a confronto la percentuale di persone occupate sul totale dei cittadini dai 14 anni in poi. La scelta, alternativa alla considerazione del rapporto tra occupati e non occupati in età lavorativa, potrebbe portare a sovradimensionare l’area del non lavoro e ridimensionare la propensione ad evitare il lavoro data la marcata incidenza del fattore demografico che vede un forte presenza di quote di cittadini anziani e, quindi, non occupabili. Su questo punto Baldissera rileva che Ricolfi non motiva il perché di questa scelta che si dimostra ovviamente favorevole all’argomentazione sviluppata dall’autore (Baldissera, 2019, punto 23). Sul medesima questione si vedano anche le osservazioni di Alessandro Guerani, 2020.

[16] Diversa è la situazione se si considera il numero degli occupati rispetto alla popolazione 14-64 anni: l’incidenza, in questo caso, supera il 50% e fa registrare anche andamenti crescenti, pur sempre su livelli inferiori a quelli della media Ue27. Si legge, infatti, nell’Annuario statistico italiano 2021:“In base ai risultati della Rilevazione sulle forze di lavoro 1, il numero di occupati nella media 2020 subisce un calo senza precedenti (-456 mila; -2,0 per cento rispetto al 2019), portandosi a 22 milioni 904 mila unità (Tavola 8.1 e Figura 8.5). Analogamente, il tasso di occupazione della popolazione tra 15 e 64 anni, che aveva raggiunto il massimo storico nel biennio 2018-2019, scende di un punto percentuale attestandosi al 58,1 per cento. Dopo sei anni di crescita ininterrotta, sebbene in progressivo rallentamento, la pandemia del 2020 ha riportato i livelli occupazionali indietro di tre anni: il numero di occupati e il tasso di occupazione sono infatti prossimi a quelli del 2017. Nonostante il calo del tasso di occupazione sia stato registrato in tutti i paesi europei – a eccezione di Malta e Polonia – portando la media Ue27 al 67,6 per cento (-0,8 punti percentuali), la distanza dell’Italia con l’Europa continua ad aumentare” (ISTAT, Annuario statistico italiano 2021, cap.8 Il mercato del lavoro p.317).

[17] Alessandro Guerani (2020) fa notare che “il tasso di attività che nel 1977 era del 57,5% a fine 2018 era arrivato al 65,6% in un trend di crescita“. Così, continua Guerani, “dai dati OECD come dal primo disponibile del 1998 abbiamo una occupazione del 51,92% che arriva al 58,52% nel 2018”. Va inoltre considerato che sul tasso di attività, più contenuto rispetto ad altri paesi, influiscono fattori strutturali quali il basso livello di occupazione femminile e lo spazio occupato dall’economia informale e sommersa, oltre all’andamento demografico dell’invecchiamento della popolazione.

[18] Nella generalizzazione del regime ‘signorile’ come tratto della società italiana si rischia di sottovalutare esistenti differenze significative, quali ad esempio, tra chi gode di privilegi, come i pensionati di anzianità, i baby pensionati o i “falsi” invalidi civili, e chi ha un passato di contributi pensionistici versati per decenni. Sulla questione si veda Baldissera, 2019 punto 26.

[19] L’incidenza delle forze di lavoro sul totale della popolazione è stata inferiore al 50% anche in passato facendo registrare il 43,7% nel 1959 e il 37,8% nel 1976. Cfr. dati Istat citati da Alessandro Guerani 2020.

[20] Nonostante lo sbilanciamento tra occupati e non al lavoro, come Ricolfi riconosce in nota citando genericamente una valutazione dell’OECD risalente all’agosto 2018, il superamento del numero di lavoratori da parte della popolazione dei pensionati avverrà nel nostro Paese soltanto nel 2050 (p.241 nota n.154).

[21] Sulla stagnazione economica (del Pil) per ponderare la non unicità del caso italiano non va dimenticato che si rientra in un trend di ‘stagnazione secolare’ che interessa in varia misura tutti i paesi avanzati. Va ricordato, inoltre, che la produttività non dipende solo dalle quote di popolazione che lavorano ma anche dal livello di efficienza del loro lavoro. Occorre, peraltro, tener conto delle ore lavorate: dalle statistiche descrittive si desume che gli occupati in Italia lavorano, ad esempio, un numero maggiore di ore dei lavoratori tedeschi.

[22] Nel panorama complessivo ci sono altre fratture di rilievo tra cui quelle generazionali (Baldissera 2019 punto 19) o quelle delle diverse posizioni rispetto ai regimi previdenziali (giovane inoccupato che non cerca lavoro e il pensionato che ha versato contributi previdenziali per 40 anni).

[23] In alcune recensioni si critica la non considerazione della varietà di cause della contrazione della produttività, sia l’impatto, oltre al lavoro, di fattori strutturali (Alberto Baldissera (2019, punto 5), sia il non reinvestimento dei profitti nei periodi di crescita (vedi Fabrizio Venafro e Salvatore Bianco, 2020 op. cit.).

[24] Sulla questione della disuguaglianza Ricolfi prende le distanze da opinioni diffuse e scrive che “Chi denuncia l’aumento ‘esponenziale’ delle disuguaglianze di reddito negli ultimi decenni, ignora evidenza statistica che suggerisce che da vent’anni quelle diseguaglianze sono sempre più o meno della stessa entità” (p.218) e che “in Italia la disuguaglianza, peraltro misurata con una molteplicità di indici non sempre concordanti, non mostra una chiara tendenza né all’aumento né alla diminuzione” (nota 69 p. 231). Sempre nella medesima nota si fa riferimento come fonte, oltre all’ISTAT, al BI, alla UE e all’OECD, al World Inequality Database(/fsolt.org/swiid/Italy) secondo cui la disuguaglianza è inferiore oggi rispetto al 1963-2016 e tra il 2000 e il 2016 non ci sono state variazioni apprezzabili (p.241). La questione è complessa e divisiva. Nel World Inequality Report 2022, infatti, del World Inequality Laboratory (WIL), https://wir2022.wid.word si legge, a proposito dell’Italia che dai primi anni 1980 ad oggi la ricchezza del 10% top income share è cresciuta di 8-10 volte mentre il bottom 50% share è sceso dal 27% al 21%. L’aumento dell’indice Gini é confermato dall’OECD tra il 2006 e il 2018 (OECD Stat.Income Distribution Database: Italy) come peraltro riconosciuto anche da Ricolfi (nota 158 p.241). Si vedano anche le osservazioni di Venafro e Bianco, 2020.

[25] La schiavitù classica prevedeva un rapporto di dominio e di proprietà (lo schiavo era considerato proprietà di un’altra persona) e veniva definita come: “Condizione propria di chi è giuridicamente considerato come proprietà privata e quindi privo di ogni diritto umano e completamente soggetto alla volontà e all’arbitrio del legittimo proprietario” (Enciclopedia Treccani). Qui l’aggettivo ‘schiavistico’ è usato in senso estensivo di dipendenza e di caporalato con diritti non riconosciuti ma che possono essere fatti valere.

[26] Secondo le stime globali dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (ILO, cit. 2017) la schiavitù moderna nelle forme di forced labour e forced mariage riguarda il 3.9% (3.5% e 0,4% rispettivamente della popolazione europea (p.26).

[27] Pur se Ricolfi in nota precisa che “sia il dato per la spesa in sostanze illegali, sia quello sull’istruzione potrebbero essere sottostimati” (nota n.93 p.234), la spesa per l’istruzione in Italia raggiunge il 3,7% del PIL e corrisponde a circa 60 miliardi di euro. Anche considerando la spesa per la scuola separata da quella per l’università i valori rimangono comunque sideralmente distanti da quanto riportato nel testo.

[28] Nelle pagine finali discutendo del futuro della società signorile, Ricolfi si sofferma sulle nuove tendenze dei consumi che, sulla spinta della ricerca della differenziazione, è all’origine della cultura quasi spartana della frugalità, alla “semplicità di vita” (pp.198-199) in cui trovano spazio consumi culturali non di massa, facilitati da una “istruzione privilegiata” (pp.198-199)._

[29] Suggestiva la riflessione di Alessandro Banda che richiama la considerazione di uno storico per qualificare la storia italiana come ‘feudale’ e la continuità di tratti feudali nella società italiana (2019).

[30] Cfr. Alessandro Banda esprime qualche perplessità (“uno dei punti su cui avrei da eccepire”, 2019). Massimo Famularo 2020, cit.) richiama la possibile critica sui passaggi relativi alla distruzione della scuola meno suffragata da evidenze statistiche. Alberto Baldissera più esplicitamente scrive: “Mi sembra singolare che Ricolfi non usi i dataset delle ricerche Statistics Canada e Oecd (2005 e 2011) e Isfol (2014) su literacy e numeracy – ovvero sull’istruzione reale della popolazione adulta. Per ‘istruzione reale’ intendo le conoscenze e competenze rilevate empiricamente dalle ricerche indicate. Ciò avrebbe permesso di rendere più convincenti le argomentazioni del libro. È opportuno non solo ricordare ad alta voce, come giustamente fa Ricolfi, ma anche mostrare empiricamente che gli italiani Non sono analfabeti, ma quasi (Cornali, 2005; cfr. anche Bianco, 2009). Questa situazione è frutto delle politiche dell’istruzione messe in atto negli ultimi cinquant’anni, nonché della qualità della domanda d’istruzione e della gestione del sistema scolastico”.

[31] L’unico grafico riguarda i NEET, contrariamente alla ricchezza di dati e di presentazioni per le altre tematiche del testo. Peraltro alcune  affermazioni generiche sulla produttività della scuola e sul diverso valore dei voti tra Nord e Sud.

[32] La medesima espressione (“posso tranquillamente testimoniare…”p.227 nota n.37) è usata per declassare la qualità media di una tesi di dottorato degli anni presenti.

[33] Così, ad esempio, la Finlandia, analizzata con i criteri della società signorile, appare allineata al profilo presentato (“molti giovani Neet, poco lavoro e concentrato su pochi, tanti anziani, basso tasso di fertilità femminile” p.187), salvo per le ridotte dimensioni della ricchezza accumulata. Diventa tuttavia difficile, come osserva acutamente Alessandro Banda (Doppiozero, 17 dicembre 2019) ritrovare il secondo pilastro, cioè il declino della scuola, in un paese come la Finlandia per anni ai vertici delle classifiche internazionali (almeno fino al 2018) per livelli di performance dei propri studenti quindicenni.

[34] Il sociologo torinese cita tra gli autori che si sono resi consapevoli delle derive in corso del sistema di istruzione Girod (1997), Russo (1998), Simone (2000), Ippolito (2013).

[35] Nel 1945 la percentuale di studenti di scuola media per coorte era del 20%, nel 1962 raggiunge il 59% e solo nel 1975 raggiunge il 100% (D. Checchi, L’efficacia del sistema scolastico italiano in prospettiva storica, 1996 (checchi.economia.unimi.it).

[36] European Education and Culture Executive Agency, Eurydice, Equity in school education in Europe : structures, policies and student performance, Publications Office, 2020, https://data.europa.eu/doi/10.2797/880217

[37] Le diagnosi sono precise anche se le cause che hanno portato la scuola italiana al declino esigono analisi approfondite. Dalle pagine di Ricolfi sorge anche l’interrogativo se il processo di decentramento iniziato nel 1997 la cui influenza sulla contrazione della produttività è una ipotesi che il sociologo non esclude (pp.209-210) non sia anche da mettere in rapporto con il fatto che i livelli di apprendimento degli studenti del nostro Paese dai primi anni 2000 ad oggi non sono aumentati con l’eccezione di un miglioramento in matetica sempre comunque con valori inferiori ai quelli medi dell’area OECD.

[38] Si veda per un’ottica generale sull’inflazione dei titoli formali con le conseguenze per gli studenti e per la loro mobilità sociale il classico Randall Collin, The Credential Society: An Historical Sociology of Education and Stratification 1979, Columbia University Press, New York 2019 (19791).

[39] Discussioni simili esistono in altri paesi Cfr. Michel RIze, Le Bac inutile, L’Oeuvre, Paris 2019.

[40] Si vedano le percentuali di studenti resilienti e di top performers in alcune aree del Paese a conferma delle potenzialità del nostro sistema scolastico.

[41] Non si spiegherebbero altrimenti i valori medi comparativamente elevati dei livelli di performance nelle scuole collocate nelle regioni del Nord rispetto a quelle delle regioni del Sud del Paese.

[42] Cfr. A me il libro ha fatto venire molta fame, come di rado mi capita” scrive nell’incipit alla recensione del saggio Alberto Baldissera (Quaderni di sociologia 81- LXIII (2019): 143-161 https://doi.org/10.4000/qds.3553

[43] Nonostante le celebrazioni dei due decenni dell’autonomia (Marco Campione ed Emanuele Contu, Liberare la scuola. Vent’ anni di scuole autonome, Il Mulino, Bologna 2020) gli esiti del Programma PISA non evidenziano sostanziali miglioramenti (con qualche eccezione per la matematica) nei livelli di apprendimento degli studenti italiani dal 2000 in poi.