Voci dal capitale professionale che crea e fa vivere le scuole

Che cosa permette alle scuole di sopravvivere alle inadeguatezze scrutinate nei rapporti, alle lacune laceranti che le testimonianze illustrano e alle critiche che ricevono periodicamente? Ci sono molte strade per affrontare il tema del fallimento e altrettante per prospettare vie di uscita da un destino che talvolta sembra paralizzante. Franco Lorenzoni con Educare controvento Storie di maestre e maestri ribelli (Sellerio editore, Palermo 2023) traccia un sentiero di senso nel mondo dell’educazione, percorre con lucidità diverse stagioni vissute dagli anni 1970 ad oggi e attraversa, lungo un ampio arco di orizzonti, vicende scolastiche e riflessioni pedagogiche. L’approccio che direbbe narrativo: nulla concede a mode effimere e non lascia traccia di infatuazione tecnologica. La prosa è densa, intensa, elaborata. Cattura chi legge perché capace di inanellare pensieri e intuizioni che non di rado spiazzano il lettore, sollecitato più volte a ritornare sui principi di base.

L’itinerario si snoda all’ombra dei ‘maestri controvento’ che Lorenzoni rintraccia nei decenni passati con una lucida libertà di scelta. Da Piero Calamandrei a don Lorenzo Milani, da Mario Lodi a Emma Castelnuovo, da Malala Yousafzai a Alexander Langer, da Nora Giacobini e Alessandra Ginsburg a Greta Thunberg la galleria è ricca di protagonisti e testimoni del complesso mondo dell’educare affrontato senza le barriere istituzionali o i confini dei sistemi di istruzione codificati. Questo singolare intreccio che si riflette nella curiosa successione in parallelo della storia personale e professionale dell’autore e dello scorrere dei profili degli interlocutori scelti, assicura un respiro inedito a quello che potrebbe essere visto come un semplice memoir personale.

Scomporre la costruzione narrativa e riflessiva è impossibile data l’intrinseco intreccio che unisce i capitoli e, al loro interno, i paragrafi del testo. è praticabile, tuttavia, la sottolineatura di spunti, indicazioni e riferimenti per rintracciare elementi di quel tesoro nascosto delle ribellioni gentili ’ che assicurano la sopravvivenza della scuola, disvelandone i giacimenti di terre rare.

La biografia di Franco Lorenzoni richiamando l’humus fertile del Movimento di Cooperazione Educativa e respirando lo spirito della sua Casa-laboratorio di Cesi, apre una finestra su quello che è il capitale professionale, di cui hanno scritto Andy Hargreaves e Michael Fullan[1], che è il patrimonio di conoscenze e knowhow necessari per l’impresa educativa. Da questo punto di vista Lorenzoni mette in scena il nocciolo dell’educazione con ben diversi registri rispetto ad altri scritti sulla scuola.[2]

Ci sono vari fili conduttori dell’esperienza narrata del maestro di Roma trasferitosi nell’ombrosa campagna umbra. Dominante è la filosofia di fondo dell’educare la cui radice è il rispettare il diritto di cercarsi una propria verità (p.49). Sembra uno slogan ai limiti di una retorica lapalissiana. Nel testo questa filosofia ricorre ed è elaborata per gli studenti e per i docenti. Genera riflessioni, orienta il discorrere dell’autore. È richiamata frequentemente e illumina la scena in ogni discussione o approfondimento. è un canone regolativo: l’attenzione ai bambini allontana l’autore da ogni allarme sociale sulle nuove generazioni. Ma non gli impedisce di stupirsi: annotava quasi con candore già in un precedente volume “… rimango sempre stupito quando assisto alla meraviglia del nascere di un pensiero”.[3]

Solo apparentemente sullo sfondo, le istanze di una scuola democratica[4] innervano il susseguirsi dei capitoli a partire dal richiamo alla Costituzione oggetto delle pagine introduttive nel Capitolo 1 (p.19ss). L’ottica è quella esplicitata da Piero Calamandrei della scuola come “organo costituzionale al pari del Parlamento, del Presidente della Repubblica e della magistratura.

La non esclusione dell’autocritica quando necessaria è il marker di autenticità e di responsabilità del lavoro del maestro romano. Di fronte alla carenza delle capacità e consapevolezza necessarie per una pratica democratica, scrive Lorenzoni, “una domanda che dovremmo porci con rigore e radicalità riguarda il ruolo giocato dalla scuola in questi decenni” riconoscendo che “noi che insegnavamo e provavamo ad educare non siamo stati in grado di elaborare un controcanto convincente, capace di criticare e contrastare ciò che stava accadendo nelle famiglie e nella società” (p.225).

Un itinerario biografico e professionale

L’andamento parallelo delle esperienze professionali e del contributo di una serie di attori del dibattito e della ricerca sull’educazione sottolinea come le biografie individuali non siano le storie minori rispetto all’evoluzione del pensiero sull’educazione, delle metodologie di intervento e, più in generale, della storia della scuola. E mette in evidenza che i grandi maestri sono tali non in astratto, ma per le ripercussioni che hanno nel concreto farsi dell’educazione.

Non siamo di fronte ad un libro tradizionale di pedagogia, ma chi lavora con i bambini può esserne affascinato. Quella di Lorenzoni non è un caso di “altra scuola”, alternativa a quella che conosciamo, perché è radicata nella scuola senza fuggire all’esterno del territorio o inseguire posizioni non praticabili. Non è tecnicamente un manuale per chi insegna; sarebbe sminuirne l’istanza che lo anima e l’intelligenza che lo innerva. Un lavoro etnografico, ma centrato sul bambino, non a scopo di ricerca accademica, bensì di educazione, primo passo per il percorso di chi approda in classe.

È scritto con la passione di chi ha fatto dell’educazione la ragione di vita. Le pagine si susseguono con un alternarsi di racconti di vita, riflessioni fondanti e insegnamenti tratti da un largo panorama. Non c’è discontinuità tra posizioni teoriche e prassi quotidiane.  é una cronaca, termine usato nel sottotitolo di un volume precedente[5], in cui trovano spazio gli esempi (p.348) di quanto di positivo si è fatto e le tappe di un’avvenuta pedagogica, senza confini storici o geografici, con relazioni illustri oltre che improbabili. Avviene così che Lorenzoni trovi in Nuto Revelli un maestro dell’ascoltare e in Franco Basaglia colga chi ha saputo aprire ‘prospettive inedite” (p.347) con radici che affondano nella prima scuola dell’infanzia integrata in Italia.

In controluce nelle oltre 300 pagine del volume si trova la storia della scuola italiana degli ultimi decenni. Una ricostruzione in qualche misura inedita, divergente rispetto ai classici della vicenda storica dell’istruzione nel nostro paese. La sintesi è in qualche modo riassunta nelle note finali del volume: se “è importante fare tesoro di ciò che di meglio è stato realizzato nel passato”è altrettanto necessario dare spazio…a ciò che di positivo si muove al presente”. Lo sguardo al futuro è disincantato ma anche responsabile: il domani va affrontato “dando fiducia a chi viene dopo di noi e si trova a vivere in un mondo che per molti versi, non siamo riusciti a rendere migliore di come lo abbiamo trovato” (p.348).

Le pratiche didattiche “ribelli”

La ribellione che accomuna i testimoni a cui Lorenzoni dedica la carrellata di medaglioni, è un denominatore comune. Si tratta di scelte non solo alternative alla riforma, ma anche alle visioni catastrofiche del mondo della scuola. A ciascuno la sua piccola rivolta, verrebbe da dire. I paesaggi sono diversi, ma il tratto è comune. La rivolta accomuna ed è il lievito per il lavorare in classe o altrove con i bambini e le bambine. Questo è il contesto dell’’artigianato dell’educare (p.16; p.79) che si esprime in esempi di suggerimenti e orientamenti per chi lavora in educazione e riconosce il ruolo della scuola, anche attraverso le emozioni (p.98) nell’ “opporre resistenza e offrire strumenti e possibilità di critica verso il proprio tempo” (p.139) secondo gli insegnamenti di Emma Castelnuovo.

Gli orientamenti sono anzitutto la correzione di storture o distorsioni e l’autocritica. “Noi insegnanti”, scrive Lorenzoni, “contratti dall’ansia di non riuscire a fornire strumenti e apprendimenti sufficienti, abbiamo il vizio di mettere in evidenza molto spesso ciò che manca, ciò che ancora non c’è” (p.158). L’alternativa è “moltiplicare le occasioni in cui rallentare e dedicare tempo, molto tempo, a esperienze significative” (p.159), all’insegna di quel “capire è cambiare… altrimenti tutto è pura finzione” (p.339) secondo il monito di Greta Thunberg.

Nei capitoli dispari sono numerosi gli esempi di pratiche didattiche che disvelano la rottura, pur ‘gentile’, rispetto alle routine diffuse. Non nascono da declaratorie metodologiche, non derivano da guide didattiche e non si traducono in istruzioni tecniche. Ogni esempio di soluzione viene argomentato, illustrato e dettagliato allo stesso tempo. Sono il terreno dove prendono forma e valenza le rivolte quotidiane. In qualche modo sono anche fuori dal tempo e dal contesto specifico.

Lorenzoni parla di artigianato in quella scuola che Zavalloni direbbe “fatta a mano”, in cui alcune soluzioni sono ben marcate. L’ascolto e, soprattutto il prendere nota di quello che dicono i bambini e le bambine, ritornano negli scritti di Lorenzoni[6]. Il metodo di registrare e trascrivere i dialoghi per farne oggetto di scambio e discussione successiva assicura l’aggancio diretto, anche motivante, allo sviluppo dell’interazione e alla formazione del pensiero. Riscoprire il silenzio (p.162s) e l’ascolto hanno le radici nelle esperienze innovative animate da Alessandra Ginsburg (p.97) e nel “soffermarsi a lungo sulle cose e osservarle con attenzione” come indicava Emma Castelnuovo (p.139), lavorando a fondo sulla concentrazione (p.164).

La scuola come laboratorio di narrazione (p.80) è un altro caposaldo del maestro Lorenzoni. Attraverso il cerchio narrativo (p.211) cresce l’artigianato del narrare (p.218) mentre laboratori rovesciati (p:325) diventano luoghi dell’ignoranza generativa (p.229; 313) per “sperimentare tutto ciò che a scuola non si poteva fare” (p.316) in modo “diverso da quello che si vive abitualmente a scuola” (p.324).

La riscoperta del canto e della musica (p.80ss), non come attività marginali o integrative, la riconsiderazione del corpo rimosso dall’accademia (p.321), la rivisitazione dello spazio riscoprendo il cielo territorio dimenticato perché gratuito (p.121; 319), la valorizzazione della voce (p.75), la ripresa di attività manuale sottovalutate (p.77) e il rilancio delle dieci ragioni per far teatro (p.239; 212) sono le tessere del lavorare controvento.

In questa ottica Il microcosmo del contesto di insegnamento viene scomposto e rimontato in modo creativo, privato di ogni forma di autoritarismo (p.185) con uno sguardo da vicino che non esclude gli orizzonti lontani nel tempo, da Talete a Galileo, e con la preoccupazione di compensare la solitudine tecnologica (p.81).

Sarebbe un errore ridurre ad “un piccolo mondo antico” nell’ombrosa Umbria l’esperienza di casa laboratorio; tuttavia alcuni interrogativi sono difficili da sopprimere, ancorché impegnativi per le risposte che attendono. Rimane convincente quella concezione della vita come una missione che comporta un’assunzione totale di responsabilità e il risparmiarsi come peccato” seguendo la via tracciata da Alex Langer, “l’allievo ribelle più fedele” di don Milani (p.298). La mitezza esigente” (p.251) di Mario Lodi rimane l’atteggiamento vincente accanto al richiamo alla necessità per la pedagogia di “sguardi che vengano da altri mondi” (p.258) come ben dimostrano gli itinerari professionali di Maria Montessori, Ovide Decroly e Janusz Korzak. Così può avvenire che negli “gli anni di grande fermento culturale” (p.182) si sperimentino anche nella scuola “modi di comunicazione e di libera espressione che mettevano radicalmente in causa non solo il ruolo autoritario dell’insegnante… ma anche altre forme di relazioni segnate dal dominio di convenzioni oppressive” (p.183). Le mobilitazioni cooperative, come nel caso del MCE, e le testimonianze di rango, quali quelle offerte da Alessandra Ginzburg e Nora Giacobini sono la chiave di volta dell’innovazione.

Alcuni interrogativi critici

Il modo forse migliore per commentare il volume di Lorenzoni, e per raccoglierne gli spunti emersi dalla lettura, è quello di porre, in modo aperto e senza pregiudizio, degli interrogativi, prima di concludere con alcune preziose lezioni.

1.     Esiste una “pedagogia ufficiale” da cui Lorenzoni prende le distanze? Le istanze del maestro Lorenzoni non sono ormai un vento favorevole alle vele di molte scuole?

I percorsi e le pratiche dell’insegnare controvento non sono ispirati dall’accademia (p.75), qui e là oggetto di critiche, ad esempio per ambiti di studio sottovalutati nella formazione degli insegnanti (p.68). Per quanto l’autore si riconosca parte dell’impresa educativa, la strada ricostruita non segue le tracce di quella scuola, diventata il simbolo dell’inadeguatezza. Il “modo pigro di fare scuola” (p.77), la rimozione del corpo (p.77), l’amputazione fantastica (p.29) sono propri di una “scuola sorda” (p.84) che sottovaluta la relazione tra pensiero ed emozioni. Lorenzoni arriva ad annotare che “la scuola purtroppo sembra avere la capacità di togliere significato a qualunque cosa” (p.39). In diversi passi questa prospettiva si traduce nella presa di distanza da quella che chiama “pedagogia ufficiale” (p.101) che, per la verità, rimane sospesa tra il mito e la realtà. A cui si associa la critica politica “… non abbiamo il diritto di far pagare alle future generazioni il malgoverno della scuola” (p.159) e le “… politiche che sembrano incapaci di pensare al futuro con lungimiranza” (p.15), invocando un “rovesciamento di sguardo” (p.49) e, ricorrendo al linguaggio degli anni 1970, facendo esplodere le contraddizioni (p.106). Di segno opposto, sono i microcosmi creativi, i santuari delle nuove idee, l’humus fertile per generare idee e convinzioni, la spinta a rimuovere pregiudizi che riassumono la funzione costruttiva delle ribellioni. Questa dicotomia dialettica è una sorta di sottotesto che riemerge pagina dopo pagina. L’assenza di una tradizione di ricerca qualitativa, basata sull’osservazione sistematica e su metodi affidabili, rende impossibile sondare se si tratta di uno schema di lettura ancora oggi proponibile o non piuttosto di un paradigma ormai datato. Potrebbe anche avvenire che le pratiche controvento di ieri siano oggi sospinte da un vento favorevole generato dagli stimoli che maestri eccellenti da cui attinge Franco Lorenzoni hanno lasciato in eredità alle scuole.

2.     La libertà dell’educazione si concilia con il governo dei sistemi di istruzione?

Nelle pagine di Lorenzoni si potrebbe cogliere qualche venatura anarchica se non si trattasse della natura profonda dell’educazione. Come scrive correttamente e con profondità il maestro romano: “Educare è liberare potenzialità… non dovrebbe mai pretendere di portare dove vogliamo noi” (p.11). Certo la scuola non indottrina, non inculca valori e convinzioni, nell’orientare non forza la mano (come potrebbe mai?). Senza spazi di discrezionalità la professione soffocherebbero e rischierebbe di estinguersi. Senza il contrasto al vento che frena, si perde la grinta, si smorza l’entusiasmo, si perdono le energie per evitare di arenarsi. Questa filosofia che convince chi intende spendersi nell’educare sempre più deve fare i conti con il contesto in cui operano le scuole e gli insegnanti: entrambi operano in situazioni di vincoli, di regolazioni, di strategie di altri attori. Perché sembra non esserci traccia nelle pagine di Lorenzoni di quella preoccupazione per gli esiti di apprendimento, per gli standard di competenze e per la misurazione delle prestazioni che ha invaso i responsabili dei sistemi di istruzione a livello globale? Si può criticare l’INVALSI e le metodologie di intervento ma l’irruzione delle valutazioni standardizzate di massa hanno cambiato l’intero scenario della scuola. Il controllo dei processi è diventato un nodo storico da cui non è possibile prescindere oggi e che sarebbe ingenuo sottovalutare. Gli spazi di creatività che sono essenziali per le professioni dell’educare non esistono nel vuoto, ma si aprono, o si restringono, attraverso decisioni e strategie assunte dai policy actors in campo nell’arena dell’istruzione.

3.     Il nobile impegno e la pregiata esperienza degli insegnanti sono le uniche componenti dell’’azione pubblica per la scuola?

Nelle narrazioni sulla scuola come nello scrivere di scuola dei giornali è piuttosto raro trovare la capacità di coniugare gli approcci settoriali spesso contrapposti e trattati in modo separato senza sintesi. C’è il mondo delle politiche educative, c’è il terreno dell’agire nelle scuole e nelle classi e, infine, c’è l’area interstiziale che confina con l’arena politica e il mondo delle scuole. Il contesto istituzionale può essere ignorato nel rincorrere la ricchezza dei laboratori sul campo, ma le decisioni amministrative e politiche non sono neutre rispetto alle possibilità che si aprono. Pur sullo sfondo la complessità dell’azione pubblica in campo educativo non può essere annullata o rimossa. Quasi a fine carriera Franco Lorenzoni, chiamato dal Ministero, entra in alcune commissioni nazionali; troppo poco, tuttavia, per ridurre lo iato tra il livello dell’azione amministrativa e dell’iniziativa politica e i microcosmi delle scuole e delle classi, là dove bambini e bambine tracciano la propria strada. Per questo motivo ha ragione Lorenzoni nel sottolineare che nel nostro Paese le riforme si fermano spesso a metà strada (p.108). Riconosce, tuttavia, con l’esempio delle norme sulla disabilità risalenti al 1977n (p.107), che è possibile un allineamento produttivo e fecondo tra decisioni politiche, movimenti dal basso e spinte innovative. Esperienze concrete sul campo seppur a macchia di pelle di leopardo non mancano: spesso appaiono uniche, irripetibili e non disseminabili come tali. In questa ottica, l’associazionismo professionale, (le radici dell’esperienza di Lorenzoni sono nel MCE), la creazione di laboratori, gli spazi di autonomia delle scuole potrebbero essere profondamente riconsiderati come fattori di innovazione. Lo stesso profilo dell’insegnante sembra sminuito nei percorsi di formazione iniziale e nei format di selezione e reclutamento.

Leggere le pagine di Franco Lorenzoni rasserena sul significato e sulle possibilità dell’azione a scuola. Come disseminare il terreno di percorsi ricchi per i bambini e densi professionalmente per i docenti rimane, tuttavia, una sfida costante. Migliorare le scuole e le pratiche in classe si rivela quasi sempre più arduo e complesso del creare interventi motivanti e innovativi. Se nella nostra scuola sono possibili esperienze come quelle costruite, vissute e narrate dal maestro Lorenzoni, ci si può chiedere quali siano le condizioni per sviluppi professionali significativi, quali strategie possano facilitarli, quali decisioni occorra mettere in campo. Traiettorie quali quelle tracciate nei decenni che fanno da sfondo alle “ribellioni controvento” sembrano impossibili da programmare deliberatamente. C’è da riflettere su quale sia l’humus fertile per coltivare reinterpretazioni dei mestieri dell’insegnare e quali azioni vi possano contribuire.

4.     L’apprezzabile autocritica non risulta paralizzante se non rivisitata in direzione progettuale?

Un po’ a sorpresa nelle pagine di Lorenzoni affiorano momenti di consapevolezza critica, se non di aperta autocritica. Denuncia il fallimento dello sforzo compiuto, i limiti delle energie impiegate e investite generosamente. Potrebbe apparire disarmante se non contraddittorio unire l’ottica controvento che raccoglie pensieri e pratiche su un ampio orizzonte nello spazio e nel tempo, con il riconoscimento esplicito del “non siamo stati in grado di…”. In un simile contrasto diventa improprio proporsi per la soluzione dei problemi rimasti irrisolti. Se decenni di nuove strade imboccate non sono riuscite a prevalere sulla conservazione, occorrerebbe dimostrare che quelle strade siano all’altezza delle soluzioni avanzate necessarie. Trovare una via di uscita dall’impasse creato dal sovrapporsi della speranza per il futuro e della consapevolezza, forse anche della stanchezza, della non riuscita non pare essere nella mente di Lorenzoni. Prendere atto delle stagioni di effervescenza e delle zone creative potrebbe essere la base di partenza per una rivisitazione contestuale dell’imprinting originale. In fondo questo è il destino delle scuole, scosse in continuazione ma pure stabili nei loro punti fermi, reinterpretati senza sosta nello scorrere degli anni. Ma questo presuppone, e Lorenzoni lo riconosce esplicitamente, la disponibilità a riconoscere quanto di positivo esiste pure al momento. Anche da questo punto di vista la riflessione sulla scuola ha una potenza rigenerativa che si rivela storicamente insopprimibile.

5.     Tra progressismo e conservazione non esiste forse una terza via?

La contrapposizione affermata alla “pedagogia ufficiale” è un leitmotiv che si accompagna anche ad un certo antiscientismo da esclusione e anti-accademismo di maniera, variamente motivato e illustrato. Illustri scienziati come Piaget sono a fianco di personaggi politici illuminati come Calamandrei (p.53); la ricerca scientifica non trova spazio nelle riflessioni o nelle proposte.

Il testo sembra suggerire una distanza tra un mondo ricco e stimolante la palude della conservazione, colta nel quotidiano della scuola. Rimane il dubbio che questo paradigma di ragionamento non permetta di cogliere le mutazioni avvenute o in atto che hanno archiviato, ad una riflessione attenta, la vetusta contrapposizione tra progressismo e conservazione.

Si è affacciata, anche sulla scena della scuola italiana, una nuova forma di progressismo che supera la contrapposizione tra la focalizzazione sul bambino o sul docente, che ridà spazio all’azione del docente, che accoglie le istanze della rendicontazione, che condivide ipotesi recenti come l’alternanza scuole e lavoro, che prende atto della dispersione implicita, che si cura del valore aggiunto, che capitalizza le informazioni disponili per anticipare i rischi del futuro in modo da prevenirli. E non disdegna a priori l’epidemia valutativa[7].

6.     Tra le praterie lussureggianti della creatività e il clima stagnante e paludoso della conservazione come si aggredisce la mediocrità della scuola?

In un volume di qualche anno fa Larry Cuban[8] ha affrontato il problema dell’hugging the middle, cioè di come si possa incidere sulle aree centrali della performance scolastica: isolando le bande estreme delle eccellenze, da un lato, e delle gravi lacune dall’altro, ci si trova di fronte ad una vasta realtà spesso di mediocrità che non scivola verso il fallimento, ma nemmeno decolla verso livelli avanzati di preparazione degli studenti. La lezione, e la testimonianza, di Franco Lorenzoni può senza dubbio rientrare in quegli stimoli che forse non scuotono l’interno sistema di scuola, ma seminano germogli di miglioramento, fatti propri da docenti di vario orientamento. è una sorta di fertilizzazione del terreno a dimostrazione che raccolti ricchi sono possibili e che miglioramenti sono a portata di mano, pur convivendo con inadeguatezze e fallimenti. Così può non stupire che determinate pratiche, dal cooperative learning ai laboratori ambientali, dall’ascolto come filosofia sottostante al teatro come nicchia di coltivazione personale siano più diffuse di quanto possa apparire.

Questi processi sono diversi dalla divulgazione metodologica e non si riassumono negli interventi formali di sviluppo professionale. Appartengono più al dialogo professionale nei gruppi e nelle associazioni di insegnanti, oggi rafforzato dalle potenzialità della comunicazione on line. È probabile che anche nelle scuole del nostro paese siano ormai evidenti le tracce dominanti di un approccio ibrido che contempera opzioni pedagogiche diverse: il tradizionale insegnamento in centrato sul docente (lezioni frontali, libri di testo, enfasi sui contenuti…) e l’approccio ‘student-centred’ (lavori progettuali, apprendimento indipendente, lavoro a piccoli gruppi…).

Tra le lezioni di Franco Lorenzoni

Il volume Educare controvento chiude una trilogia compilata dal maestro Lorenzoni che include I bambini pensano grande (Cronaca di un’avventura pedagogica (Sellerio editore Palermo 2014) che è la narrazione di un anno di scuola in una quinta elementare e successivamente I bambini ci guardano. Un’esperienza educativa controvento (Sellerio editore, Palermo 2019). Si direbbe, quindi, un libro della maturità che ripercorre non cronologicamente ma tematicamente i capisaldi di un’esperienza illuminata dai maîtres à penser che irritualmente vengono posti in cattedra.

In questo senso Lorenzoni è un maestro di navigazione. Rientra da protagonista nella tradizione di maestri, da Mario Lodi a Bruno Ciari, da Albino Bernardini a Gianfranco Zavalloni nonché da alfiere di una cultura costruita attraverso la capacità riflessiva sulle pratiche didattiche delle maestre e dei maestri. Dà voce ad una cultura dell’insegnare che non è la mera trasposizione di risultanze accademiche né la reinterpretazione operativa e contestuale di teorie altisonanti. Rivendica la priorità della conoscenza in fieri sul terreno, l’avventura da un’angolazione persistente: i bambini da rispettare, da prendere sul serio, non un’enfatizzazione retorica ma un fil rouge che unisce. Di qui la probabile risonanza della lettura del volume in chi insegna. Anche perché come annota Monica Bardi, “a dispetto di contratti avvilenti e precari, non sono pochi gli insegnanti che lavorano nella direzione dell’educazione ‘controvento’, anche soltanto perché la loro scuola è in qualche modo il frutto delle sperimentazioni di cui ci racconta Lorenzoni e che sono nate sotto le insegne dell’ascolto, del rispetto e dell’integrazione”[9].

La prima lezione che si può cogliere nell’avventura personale e professionale di Lorenzoni riguarda lo stesso mestiere di maestro: è miope considerare l’apice della professione insegnante solo la direzione di scuola o il management[10] o rilanciare il miraggio dell’approdo all’accademia che quasi sempre allontana dai banchi. Raggiungere i vertici della professione docente al suo interno, crescendo nel mestiere, diventare professionisti dell’insegnare, arrivare a livelli elevati di comprensione e di capacità operative nell’insegnamento sono processi di un orizzonte aperto ad ogni docente. Non c’è bisogno di uscire dall’insegnamento per uno sviluppo professionale autentico. Naturalmente il profilo di chi insegna va alimentato: non è un caso che siano spesso i terreni professionalmente fertili, quali il Movimento di educazione cooperativa, all’origine di eccellenze. Allo stesso tempo ha bisogno di maestri della ‘diversità’ e della ‘ribellione necessaria’ alcuni dei quali sono oggetto dell’omaggio di Lorenzoni che ne traccia ritratti pertinenti e autentici.

La casa laboratorio di Cesi, esperienza creativa di Lorenzoni, è un po’ paradigmatica di che cosa sia lo spazio educativo, di che cosa si componga un sapere non disciplinare, che può avere risonanza dal Trentino alla Sicilia. Non è un’altra scuola perché le proposte e suggerimenti possono essere seguiti nella scuola normale. Potrebbe essere fuorviante pensare ad una scuola alternativa, pur se il terreno delle scuole non sempre sembra favorevole all’innesto di nuove proposte. Nonostante gli attuali spazi di discrezionalità e la reiterata affermazione della funzione di ricerca, non vi è sempre il respiro necessario per l’autonoma esplorazione del possibile.

C’è una terza lezione che possiamo trarre. Riguarda la natura della ricerca in campo didattico ed educativo. La differenziazione dei ruoli e la specializzazione hanno con il tempo reso più raro il caso di esperti di pedagogia che siano anche maestri di scuola. La storia, al contrario, è ricca di praticanti eccellenti, punti riferimento dalle loro aule per docenti motivati, maestri di scuola il cui standing non si misura con il livello di citazioni accademiche o attraverso algoritmi quantitativi, bensì con la comprensione, il consenso e l’imitazione da parte di colleghi.

L’esperienza di Lorenzoni sembra illustrare bene lo spazio di confine in cui su trova chi insegna che è insieme condizione di limite nel senso che il docente non è un operatore indipendente, è anche condizione di libertà per la discrezionalità professionale che è intrinseca all’insegnamento. Il docente è parte di un’organizzazione complessa che è il sistema scolastico, opera in contesto di regolazioni, risponde alle attese istituzionali, è oggetto di valutazione diretta o indiretta. Allo stesso tempo, tuttavia, è un professionista dell’insegnare da cui dipende in buona parte il successo delle riforme o l’implementazione delle decisioni politiche. I due ruoli non sono esclusivi e non si sovrappongono; convivono nella natura stessa del mestiere di maestro. C’è per chi insegna spazio per una crescita professionale in larga misura autonoma, in un’arena che comunque esiste non in astratto bensì nella scuola o nei suoi territori adiacenti.

Nella storia della scuola ci sono insegnanti che diventano riferimento dei colleghi per particolari approcci, proposti e messi alla prova, per soluzioni innovative coniate in esperienze significative o per tecniche creative, messe a punto nel quotidiano del lavoro in classe. L’abbandono delle abitudini, la coltivazione di nuove routine metodologiche, l’invenzione di proposte formative senza precedenti trasformano questo ruolo in una variante nobile della professione docente. In epoca di social networks li chiamano brand teachers che dominano sul web, talora con straripante successo. Il personal branding che evidenzia i propri punti di forza da condividere con altri, può iniziare con un blog, proseguire con crescente presenza sui social fino ad arrivare allo status dell’influencer. Il collegarsi con altri per continuare ad imparare è la lezione sottesa alla geniale sequenza dei dieci testimoni eccellenti del volume.  Anche da questo punto di vista Lorenzoni promuove una tradizione che oggi può avere nuovi strumenti e nuove di vie di realizzazione.

 

[1] A. Hargreaves e M. Fullan, Professional Capital: Transforming Teaching in Every School, Teacher College Press, New York 2012.

[2] Si nota la distanza siderale tra la produzione di Franco Lorenzoni e l’infelice bestseller di successo di “Io speriamo che me la cavo” di Marcello D’Orta pubblicato nel 1990.

[3] F. Lorenzoni, I bambini pensano grande, Sellerio Editore, Palermo 2014, p.20.

[4] Tra i numerosi riferimenti cfr. pp.85; 87; 113; 208; 220; 221; 222-223; 225-226.

[5] Lorenzoni, op. cit. 2014.

[6] Cfr. anche Lorenzoni, op.cit.2014, p. 20.

[7] Sul tema si veda la posizione del maestro romano in F. Lorenzoni e R. Passoni, Pratiche sensate di resistenza all’epidemia valutativa, Gli asini, n.18 ottobre 1913.

[8] L. Cuban, Hugging the Middle―How Teachers Teach in an Era of Testing and Accountability, Teacher College Press, New York 2009.

[9] M.Bardi, “Un’incubatrice di vocazioni”. Franco Lorenzoni, Educare Controvento. Storie di maestre e maestri ribelli, Sellerio, Palermo 2023, in L’Indice dei libri del mese, 10 (2023), p.15.

[10] C’è chi sostiene che la direzione di scuola rappresenti l’apice della carriera del docente agganciando, quindi, la progressione all’assunzione di funzioni organizzative o all’occupazione di posizioni di responsabilità gestionali lungo una traiettoria a tre stadi “insegnante, funzioni intermedie e funzioni apicali come i vicari del dirigente scolastico“, come si legge in A. Gavosto, La scuola bloccata, Laterza, Bari Roma 2022, p.76.