Nel nostro Paese il fallimento formativo non è un’ipotesi di ricerca. Uno studente quindicenne su quattro ha una preparazione inadeguata per la literacy e la numeracy. I valori medi di performance sono inferiori a quelli della maggior parte dei paesi europei. La scuola secondaria superiore è stratificata per abilità, con risultati diversi, più che in altri sistemi, passando da un tipo di istituto ad un altro e la partecipazione è ancora fortemente determinata dallo status sociale, economico e culturale degli studenti, così come i risultati del testing. La collocazione geografica della scuola ha un rilievo assoluto con elevata variabilità regionale dei livelli di apprendimento[1].

Di salute cagionevole è lo stato sociale, a partire dalla mobilità intergenerazionale. Raggiunge un livello superiore a quello dei genitori solo il 19% degli adulti nella fascia d’età 25-64 i cui genitori non hanno un titolo di studio d’istruzione secondaria superiore (media OCSE: 37%)[2]. Nel confronto internazionale l’Italia è al 34° posto e ultima tra i paesi del G7 per mobilità sociale[3]. Dai primi anni 1980 ad oggi la ricchezza del 10% top income share è cresciuta di 8-10 volte mentre il bottom 50% share è sceso dal 27% al 21%.[4]

Nascere nei “ceti popolari nel nostro Paese segna ancora il destino in modo grave per molti, irreversibile per i più e contrastabile per pochi, nell’accesso alla cultura come nell’inserimento professionale. La questione sembra espunta dall’agenda politica e marginale nel dibattito politico e culturale, nonostante una tradizione di radicata attenzione ai processi di emarginazione sociale. Si direbbe un letargo a cui ci siamo assuefatti.

Non mancano, quindi, ragioni per leggere Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza (La nave di Teseo, Milano 2021) di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi. Un libro fruibile nelle narrazioni che contiene, spiazzante nelle argomentazioni che avanza e impegnativo nelle pagine più tecniche che include. Spogliato della veste provocatoria e potato di qualche eccesso polemico (“… strage degli innocenti” p.12; “enorme buco di conoscenze e cultura” p.21) è un errore prenderlo sul serio?

 

Contenuti

1.     Gli autori: una gestazione lunga

 

Finalista del premio Strega 2001 e vincitrice del premio Campiello nel 2004 Paola Mastrocola ha agitato il dibattito sulla scuola negli ultimi quindici anni. Con un trittico di libri-pamphlet pubblicati tra il 2004 e il 2015[5], ha passato la scuola al setaccio con una critica serrata, partecipata ed estesa, all’insegna della demistificazione delle parole e delle pratiche chiave del progressismo in educazione. Nel suo volume, pubblicato nel 2019, La società signorile di massa Luca Ricolfi ha toccato in vari punti questioni di scuola la cui distruzione considera come il terzo pilastro della configurazione indagata della cultura giovanile e dell’assetto della società italiana[6]. Mastrocola e Ridolfi sono gli autori del volume che ha fatto rumore sui media, suscitando stroncature senza analisi di merito[7] e scatenando in rete polemiche aperte[8], rinnovando controversie d’annata[9] e stimolando, comunque, il confronto a più voci[10]. Qualcuno è arrivato a considerare il testo come una risposta, a oltre 50 anni di distanza, alla Lettera a una professoressa di don Milani[11] talora vista come il manifesto della scuola italiana comprensiva e inclusiva.

 

2.     Un libro a tesi?

 

Fin dall’esergo con l’articolo 34 della Costituzione sui “capaci e meritevoli”[12] (p.9) l’area di attenzione è messa in chiaro: ci sono le condizioni di riuscita, a prescindere dal contesto di provenienza, per lo studente che nella scuola lavora e si impegna? L’articolo 34, per la verità, rivela un retroterra liberale che privilegia il merito individuale e rimane in attesa di una ri-contestualizzazione alla luce degli obiettivi attuali dell’’azione pubblica in educazione, mirata ai “molti” oltre che ai “pochi” ‘capaci e meritevoli’)[13]. Tuttavia quell’appello al merito e al necessario sostegno interroga la nostra scuola a fondo, sulle reali opportunità che offre.

Il saggio è un libro a tesi, riassunta icasticamente nel sottotitolo La scuola progressista come macchina della disuguaglianza, ma non nel senso di un libro dogmatico e acritico: è infatti costruito attorno all’intenzione di dimostrare una ipotesi che proprio dopo la verifica può avere la forza di una tesi. Per diversi aspetti, comunque, è un testo difficile da classificare. Non è un cahier de doléances con le rituali litanie sulla carenza di risorse finanziarie, sulla contrazione degli organici e sulle strutture edilizie fatiscenti. Non si direbbe un semplice pamphlet polemico e provocatorio per il rilievo che viene dato alle evidenze empiriche, anche se numerose annotazioni sono adombrate in molte pagine di chi ha scritto sulle lacune della scuola[14]. Non appare, come vedremo, un mero ulteriore testo nella letteratura critica della scuola pur condividendone lo spirito e lo stile perché integra aspetti, decisioni politiche, azioni amministrative e pratiche in classe, spesso considerate separatamente. Peraltro è, pure, difficile collocarlo nella ricerca storica sulla scuola italiana nel senso classico del termine, pur se ricostruisce 60 anni di vicende dell’istruzione nel nostro Paese. Gli autori non si fermano ad una semplice memoria del proprio percorso formativo e professionale, un genere diffuso anche se ‘i vissuti’ risentono delle esperienze soggettive [15]: il dato biografico, infatti, è funzionale all’articolazione di un’ipotesi sottoposta a prova dimostrativa. Sullo sfondo e in numerosi passaggi il volume contrappone il progressismo ad una visione tradizionale e, in alcuni passi, di ispirazione liberale dell’educazione, anche se il contrasto non è tematizzato, ma emerge attraverso una lettura attenta e integrata del testo. è un approccio, infine, in chiave sociologica, al tema delle disuguaglianze sociali anche se prescinde da riferimenti espliciti e sistematici alla ricerca sul tema[16].

Valicando la soglia della discussione polemica, della provocazione intenzionale o dell’interpretazione fuorviante[17] il saggio risulta originale nella sua composizione che unisce racconti di scuola e perforazioni sociologiche; appare anomalo nel passare da opinioni costruite nel tempo a evidenze della ricerca; soprattutto è coraggioso nell’uscire allo scoperto sul tema del rapporto tra “ceti popolari”[18] e educazione in un contesto di dominante assuefazione alle disparità e alle povertà esistenti. Per questi caratteri del testo sarebbe un errore non tentarne una lettura entrando nel merito.

 

3.     Un saggio a quattro mani

 

L’origine del lavoro scaturisce, secondo la ricostruzione degli autori, da un dialogo familiare, in particolare, attorno alla convinzione, maturata nel tempo e raccolta in un contributo nel 2017[19], di Paola Mastrocola, relativa alla disuguaglianza e alla possibilità di fornire un supporto di evidenza scientifica a quella che appariva il risultato di una riflessione personale.

Il saggio, compilato a quattro mani ha una struttura composita.

Dopo una breve introduzione, Paola Mastrocola presenta la sua “ipotesi sulla disuguaglianza”, redatta nel 2017, in cui formula un interrogativo elaborato negli anni di insegnamento sul danno subito dai “ceti popolari” proprio a causa di una “scuola abbassata, facilitata” (p.20). I successivi due capitoli raccolgono la narrazione da parte dei due autori degli ultimi sessanta anni della scuola italiana osservati “con i miei occhi”, cioè in termini di vissuti reali. Attraverso l’osservazione, sul campo e partecipata, di un docente universitario di Analisi dei dati e di una professoressa di letteratura italiana al liceo, viene tracciato il percorso di declino della nostra scuola[20]. Il capitolo successivo presenta la ricerca condotta da Luca Ricolfi, sulla base di dati messi a disposizione dall’ISTAT, attorno all’ipotesi del danno causato dallo scadimento degli standard della scuola. Segue una Lettera a un genitore siglata da Paola Mastrocola con un invito alla consapevolezza, alla resistenza e alla protesta (“a battersi”), conclusa “con fiducia, e speranza” (p.230). Chiude il volume una breve appendice tecnica sulle fonti, sul metodo e sul modello di analisi adottato nel test dell’ipotesi.

La scrittura scorrevole e, in alcune pagine, appassionata e avvincente, facilita la lettura delle 270 pagine grazie anche alla redazione del report di ricerca in termini relativamente accessibili a un lettore inesperto delle tecnicalità dei modelli utilizzati nell’indagine sociologica.

 

4.     Vissuti scolastici e vicende collettive

 

Attraverso il proprio vissuto scolastico e universitario Luca Ricolfi narra la “catastrofe cognitiva” (p.25)’ del sistema italiano attraverso la lunga marcia dell’abbassamento (p.54) degli standard tra picconatori e resistenti. Il punto di osservazione privilegiato sono, anzitutto, gli esami universitari, una sorta di cartina di tornasole per scovare le ragioni della impreparazione (“non ho le basi”, “ho delle lacune” nonostante i “ho studiato, ho studiato molto”) degli studenti. Programmi non svolti e professori inadeguati nelle fasi critiche precedenti hanno irrimediabilmente compromesso l’itinerario formativo[21]. Si scava così all’università un abisso tra “un manipolo di studenti e studentesse normali” e “una massa di studenti e studentesse lontanissimi da apprendere” (p.31). “La scuola facilitata” (p.41) è il risultato di un cammino, disteso nel tempo, con gli slogan della cultura progressista che si afferma, secondo il sociologo Ricolfi, anche per la non opposizione di studenti, di famiglie e dei media in assenza di chiare ed efficaci proposte politiche alternative. “L’avanzata dei conquistatori” (p.42) è ricostruita da Ricolfi che nella propria memoria dei primi anni di scuola ritrova impressi gli stati d’animo, l’ansia permanente e il senso della “vergogna” (p.47) oggi introvabili tra gli studenti nelle classi. Sfuggito per ragioni anagrafiche alla nuova scuola media Ricolfi ricorda di quel triennio due “professoresse eccezionali” (p.43), rispettivamente di italiano e latino e di matematica, per cui, annota, “imparai più cose, e cose più durature, di quelle che avrei imparato nei successivi cinque anni di liceo classico” (p.45). L’approdo all’università come studente attraversa le nebbie del 1968, ma comprende anche lezioni di maestri di rango della tradizione accademica torinese. L’attività successiva come docente permette l’osservazione degli anni del decadimento della qualità sotto i colpi finali dei “picconatori” (p.49). Amara per gli studenti universitari che “non ce la fanno” è la conclusione a cui giunge Ricolfi: avendo perso l’occasione di costruire nei momenti critici la capacità necessarie, sono senza speranza.

Lucidamente descritto, il riscatto generazionale[22] di Paola Mastrocola, cultrice di rango della letteratura italiana, ha sullo sfondo le vicende di un paese in trasformazione (migrazioni, industrializzazione, mobilità sociale…) e l’itinerario di una scuola che ne interpreta tensioni e dilemmi. C’è una straordinaria continuità tra le fatiche di una studentessa passata attraverso la scuola media unica ove incontra Dante Alighieri, Torquato Tasso e Ugo Foscolo, la conquista del liceo, e la visione dell’insegnamento nel momento in cui il rientro a scuola come docente si traduce in un impegno professionale. Alla ricostruzione della traiettoria positiva della formazione iniziale, di cui l’autrice ricorda la parafrasi e l’Iliade nella traduzione di Vincenzo Monti, fa seguito un feroce j’accuse nei confronti di una scuola che sbanda dalla missione originaria e tradisce i valori propri della conquista della cultura. La narrazione delle esperienze personali tocca, come riconosce l’autrice, una minoranza ma è una realtà presente.

Le memorie di scuola sono un genere letterario in cui confluiscono vari elementi e si intrecciano situazioni anche alternative, imprevedibili e talora contraddittorie[23]. Così può avvenire che mentre Paola Mastrocola considera i pregi della propria scuola media, invisa alla preside zia Ebe, Luca Ricolfi pone nella scuola media unica l’inizio della fine dell’istruzione nel nostro Paese. Nei racconti ci sono anche la resistenza degli sconfitti, la persistenza delle minoranze e le strategie di sopravvivenza. Il saggio dei due intellettuali torinesi ci conferma i ricordi della vita tra i banchi come fonte preziosa di informazioni per conoscere la scuola e penetrare il mondo dell’insegnamento[24], si direbbe di etnografia scolastica, pur nella difficoltà di superare la soggettività delle narrazioni individuali riferite a specifici contesti.[25]

5.     Nodi fondamentali e cruciali

 

Entrando nel merito delle questioni affrontate da Mastrocola e Ricolfi e senza lasciarci travolgere dalla vis polemica, diversi temi si rivelano cruciali per la riflessione e l’elaborazione politica e culturale. Il saggio, in particolare, riprende in mano questioni rimosse come i percorsi scolastici e sociali degli studenti dei “ceti popolari”, esplorando, così, nodi di rimarchevole rilevanza, anche teorica, quali l’iniquità educativa e sociale, e passando al crivello storiche decisioni di politica scolastica e universitaria.[26] In questa ottica, pagina dopo pagina, l’attenzione degli autori si focalizza sul peso dell’origine sociale come fattore rilevante per la riuscita scolastica e la mobilità sociale, sul declino della scuola italiana negli ultimi decenni e sull’impatto della cultura progressista in educazione. Questo è il background dell’ipotesi guida del volume e del test sviluppato.

 

5.1 L’origine sociale non è tutto

 

L’affermazione, centrale nel saggio dei due autori, “l’origine sociale non è l’unico fattore porta l’attenzione su un’area di ricerca e di discussione di primaria importanza[27] per chi analizza processi di educazione e dinamiche di mobilità sociale. L’impatto del contesto socio-economico e culturale influenza, infatti, la riuscita o il fallimento scolastico e condiziona le dinamiche di mobilità, due processi distinti ma profondamente interconnessi. Si tratta, tuttavia, di una influenza dominante ma non assoluta.

 

Origine sociale e scuola: contenere il condizionamento

 

Per quanto si riferisce alla questione educativa si può notare che, nonostante l’indiscussa adesione ai principi delle pari opportunità e l’impegno proclamato in tale direzione in tutti i documenti ufficiali, leggiamo in un rapporto OECD che “there is no country in the world that can yet claim to have entirely eliminated socio-economic inequalities in education”. Rispetto, tuttavia, ad una pretesa visione deterministica tout court (p.205), la realtà è articolata, come dimostrano studi specifici e indagini comparative internazionali che sul campo registrano differenze evidenti tra I sistemi scolastici. Continua, infatti, il rapporto citato: “While some countries and economies that participate in PISA have managed to build education systems where socio-economic status makes less of a difference in students’ learning, well-being and post-secondary educational attainment, every country can do more to improve equity in education”.[28]

Peraltro il peso dei fattori socio-economici sulla riuscita scolastica, pur sempre rivelante, non è un dato uniforme, presenta livelli elevati di variabilità, passando da un sistema scolastico ad un altro. La variabile Economic, Social and Cultural Status (ESCS) permette di differenziare i sistemi scolastici in termini di contenimento dell’impatto socio-economico[29]. Già le ricerche sull’effetto scuola[30], dagli anni 1970 in poi, avevano messo in evidenza il contributo delle scuole al livello di preparazione degli studenti, a parità di altre condizioni. Nei decenni successivi le ricerche sulla school leadership hanno individuato l’influenza delle strategie di gestione delle scuole sulla riuscita degli studenti.[31]  La diversità di risultati tra le scuole e all’interno delle singole scuole conferma, con evidenze, la liquidità dei risultati scolastici e permette di isolare quanto lo status socio-culturale ed economico generi tali variazioni. La misura del valore aggiunto, diventato indicatore di routine[32], mette a fuoco la differenza che una scuola può fare a parità di altre condizioni sul percorso scolastico degli studenti[33]. La pluralità di fattori intervenienti nel processo educativo e, parallelamente, per la mobilità professionale rendono quanto mai complessa la ricerca; non a caso la letteratura dedicata è sterminata.

A fronte di queste variabilità sono ragionevoli le perplessità sia sulla mera imputazione del fallimento scolastico ai fattori di contesto[34] sia sulla acritica convinzione che la scuola sia garanzia di pari opportunità. Diventa, quindi, pertinente esaminare quali siano le strategie efficaci per il contenimento del condizionamento socio-economico e culturale sui risultati scolastici. In una fase, peraltro, di Inequality Turn con accresciute disuguaglianze dagli anni 1980 in poi[35], la questione dell’equità[36] diventa di assoluta urgenza, a conferma dell’attualità degli interrogativi posti da Paola Mastrocola e Luca Ricolfi sul rapporto tra origine sociale e scuola.

Ritornando alla sostanza dell’ipotesi formulata dai due autori, oggi è possibile fare riferimento[37] a ricerche o risultati di indagine da richiamare per illustrare come la dipendenza dei risultati scolastici dal contesto di provenienza possa essere se non contrastata per lo meno attenuata da altri fattori che intervengono.[38] Pur costituendo il condizionamento socio-economico un ostacolo permanente difficile da rimuovere soprattutto nel breve periodo[39], c’è un contributo specifico dell’educazione che in qualche misura è indipendente dai fattori sociali e culturali.

 

Origine sociale, mobilità verticale e scuola

 

L’orizzonte di analisi si complica ulteriormente se l’origine sociale oltre che ai risultati scolastici viene vista in relazione alla stratificazione sociale e alle sue dinamiche[40]. L’interrogativo diventa: quali spazi di mobilità sociale sono aperti per gli studenti in relazione al loro background e come l’educazione può intervenire in questa relazione?

Da un lato la mobilità, nelle sue diverse forme (verticale, ascendente e discendente, orizzontale), viene associata all’origine sociale sia nei processi intra-generazionali sia in quelli intergenerazionali[41] mentre la sua consistenza è legata al grado di apertura di una società. Dall’altro lato l’educazione non di rado è riferita come un fattore di cambiamento di status e di progressione sociale. In genere, infatti, ad un più elevato livello di istruzione corrisponde una posizione stipendiale, oltre che di benessere generale, superiore.

L’interrogativo di partenza dà origine a domande successive. La prima è se una delle cause della disuguaglianza di opportunità per la mobilità sociale tra gli studenti svantaggiati e i coetanei “avvantaggiati” possa ritrovarsi nel sistema scolastico e nel suo modo di funzionamento. La seconda è, di conseguenza, se una scuola inadeguata determini per gli studenti dei “ceti popolari” anche un livellamento della mobilità ascendente. La terza, infine, è se una società a limitata mobilità sociale ascendente influisca sull’educazione attenuando le spinte al miglioramento e alla riuscita scolastica.

Queste affermazioni generali vanno raffrontare con la realtà, spesso lontana dalla retorica e non di rado non allineata a opinioni correnti. Il rapporto tra mobilità e educazione è un tema assai complesso e l’analisi ha rivelato sorprese[42] anche sconfessando convinzioni diffuse[43]. Elevati livelli di istruzione possono essere condizioni necessarie, ma non sufficienti, per garantire l’accesso a posizioni superiori[44]. Mobilità discendente, accresciute disuguaglianze, fenomeni di over-education[45]e di mismatch tra preparazione scolastica e domanda di competenze rendono complicato il paesaggio.

La misura in cui la formazione promuove la mobilità varia da paese a paese. Dove la riuscita scolastica è più legata al background familiare e meno al talento e alle capacità dello studente, la scolarità non facilita la mobilità, anzi può semplicemente riprodurre le disuguaglianze tra generazioni esistenti (Luca Ricolfi cita a questo proposito le teorie critiche di autori classici del settore come Pierre Bourdieu, Bowles e Gintis). Maggiore equità a livello di scuola e di università significa anche riduzione di disparità di reddito e maggiori possibilità di mobilità verticale nel medio e lungo periodo.

All’interno di quest’area problematica l’ipotesi di Ricolfi è specifica e riguarda il legame tra la qualità dell’istruzione, i livelli di mobilità verticale tra le generazioni e il destino degli studenti dei “ceti popolari”. Una buona scuola aumenta le possibilità di mutamento di status per gli studenti svantaggiati? Frequentare una scuola scadente significa ridurre o annullare le chances di miglioramento sociale con quali conseguenze per gli studenti in svantaggio? Il problema per impostare un test dell’ipotesi è ovviamente la variabile “qualità della scuola”, non facile da definire operativamente.

A questo proposito Mastrocola e Ricolfi, prima di passare alla verifica dell’ipotesi, illustrano lo scenario generale della scuola italiana in lungo declino, variamente definito (“riduzione degli standard”, “scuola facilitata”, “abbassamento dell’asticella”…) e dipinto a tinte fosche (“non solo disastro a cui è possibile porre rimedio, ma vera e propria catastrofe…”).

 

5.1 Il declino della scuola italiana

 

Nei Capitoli 2 e 3 la categoria degli standard abbassati esce dall’ambito ristretto della ricerca accademica o della polemica provocatoria per diventare la chiave di lettura della storia degli ultimi 60 anni della scuola del nostro Paese. Diventa la cartina di tornasole per focalizzare il contrasto tra visioni contrapposte dell’educazione e culture divergenti delle pratiche didattiche, pur in assenza di una vera battaglia in merito tra le forze politiche. Gli autori scrivono, infatti, che la sinistra si attesta sul peso dell’origine sociale delle disuguaglianze attenuando l’attenzione sull’apporto della scuola, ma riconoscono che la destra non ha mai presentato una proposta alternativa. Di qui la sostanziale continuità delle politiche nell’epoca considerata, aldilà dell’alternanza di forze politiche al governo, con una continuità nel tempo, esplicita o tacita, di scelte e di decisioni.

La memoria individuale dei giorni di scuola e di università arricchita dalle osservazioni condotte sul campo (test sugli studenti al primo anno di liceo o comportamenti agli esami universitari; “molti colleghi (di materie difficili) vedono esattamente quello che vedo io” (p.34); “le esperienze negative che mi vengono raccontate” (p.33) toccano un tema quanto mai complesso.

Progresso e regresso

La decadenza della scuola non è un argomento nuovo, né originale. Trattata da vari autori, frequentata anche in altri paesi[46], ricorrente tra gli esperti[47], ricorsiva nel tempo e non scevra di storici svarioni[48], è resa anche più attuale dalla comparazione, oggi possibile, tra i sistemi scolastici a livello globale e dai risultati di studi longitudinali. Sostenere che il presente non è all’altezza del passato è un refrain facile che raccoglie consenso, talvolta, però, è falso. Per il caso italiano la “distruzione della scuola è diventata addirittura una categoria recentemente ricorrente[49]. Adolfo Scoto di Luzio partendo dal primato della scuola secondaria ha riassunto le vicende della nostra scuola nella “storia di una scomparsa[50] (p.11) rintracciando nella seconda metà del Novecento “una pervicace e reiterata opera di demolizione”. In altro contesto Frank Furedi ha considerato “fatica sprecata” l’impegno in una scuola non più all’altezza perché sviata dai propri compiti educativi[51] mentre progresso e regresso sono, secondo l’analisi di David Tyack e Larry Cuban di cento anni di storia della scuola negli USA, nozioni necessarie per comprendere le vicende delle istituzioni scolastiche[52].

Il peggioramento dei sistemi di istruzione è una delle più controverse querelles nell’analisi delle politiche scolastiche. Nei prospetti riassuntivi del programma PISA a fronte di paesi che migliorano ci sono segnali di stagnazione nella perdurante mediocrità e di regressione nelle performance degli studenti in altri. La capacità di miglioramento è oggetto di particolare attenzione[53] e le scuole sono caratterizzate per la fase in cui trovano in un percorso di lungo periodo di uscita dall’insufficienza e di ingresso nell’eccellenza.

Mastrocola e Ricolfi considerano punti di svolta accanto al Sessantotto, l’avvio della scuola media unica (1962), la liberalizzazione degli accessi all’università (1969) e l’arrivo di Luigi Berlinguer a Viale Trastevere. Quanto scrivono i due autori portando l’attenzione sull’andamento del sistema scolastico italiano sollecita approfondimenti sulla continuità e discontinuità tenendo conto dell’articolazione dell’istruzione scolastica e universitaria[54]. Sullo sfondo del declino descritto, infatti, ci sono mutamenti di rilievo nella scuola italiana in cui i bilanci tra progressi e regressi contrapposti non possono escludere situazioni di stallo e di mediocrità.

La catastrofe cognitiva (p.26) è tratteggiata in più pagine del volume. “Ho visto ragazzi … che arrivano in prima liceo totalmente digiuni delle nozioni basilari, di quel minimo di conoscenza dovute e, soprattutto, necessarie ad andare avanti negli studi” (pp.19-20) scrive Paola Mastrocola. Le fa eco Luca Ricolfi per il quale i ragazzi arrivano al liceo e non sanno scrivere o tenere un discorso complesso: gli studenti “non sono impreparati”, il problema è che lo studente “non capisce le domande” (p.29). Gli indicatori di fallimento sono sotto gli occhi di tutti. “A occhio” Ricolfi stima “gravemente impreparati” “un quarto o un terzo, e forse anche di più” (p.33) degli studenti che accedono all’università. La stima ha riscontri[55]. Il ricondurlo ad un presunto processo trasversale che avrebbe invaso e interessato la scuola e le pratiche scolastiche, ispirando anche le decisioni politiche. Lacune che hanno riscontro nei rapporti dell’Invalsi[56], nelle misure di apprendimento dei quindicenni[57], nelle testimonianze dei docenti[58] oltre che nei documenti di denuncia[59] e perfino nei documenti ministeriali[60].

Sullo sfondo, è bene ricordare, ci sono mutamenti di rilievo da considerare. é evidente la differenza, asd esempio, tra un sistema che vede una quota del 40% che va alle superiori è una realtà in cui si raggiunge una quota superiore al 90% che continua gli studi dopo la scuola media. Nel periodo pluridecennale del declino di cui parlano i due autori si hanno le tappe di una profonda trasformazione che ha visto ridursi le percentuali di ripetenti, aumentare le quote di diplomati tra i candidati all’esame conclusivo della scuola secondaria di secondo grado, crescere degli studenti universitari, nello scenario di una vera e propria esplosione della popolazione scolastica[61]. La visione del declino può essere, inoltre, disarticolata.

Confronto tra generazioni

Nei paesi in cui sono state condotte indagini a lungo termine, come nel caso del NAEP negli USA, sono possibili confronti, non di rado controversi, fra i livelli di istruzione di generazioni successive di studenti. Anche i dati internazionali del programma PISA dell’OECD sulle competenze in lingua e matematica degli studenti quindicenni consentono alcune generalizzazioni relative agli ultimi 20 anni. Le indagini internazionali sui livelli di competenza di base nella popolazione adulta (PIAC) rendono possibili osservazioni interessanti (pur con qualche limite).

I quindicenni italiani (PISA) tra il 2000 e il 2018

Per l’Italia tra il 2000, anno di avvio dell’epoca berlingueriana con l’autonomia scolastica e la valutazione standardizzata, e il 2015 i dati PISA non documentano un peggioramento nelle performance degli studenti quindicenni; registrano bensì un andamento altalenante nei livelli di competenza in comprensione della lettura e in scienze a conferma comunque di una perdurante sostanziale stabilità, a livelli comparativamente mediocri, contrastata solamente da un sensibile miglioramento in matematica.[62] Affiora, invece, un peggioramento tra il 2015 e il 2018.

Rimane preoccupante la quota di studenti senza le competenze di base, stabile nei due decenni (già nel 2012 erano carenti in matematica il 24,2% contro il 23,0% dell’OECD, il 22,4% della Francia, il 21,8% del Regno Unito e il 17,7% della Germania). Comparativamente ridotta è la percentuale di studenti eccellenti in matematica (nel 2012 il 9,9% contro il 12,6% dei paesi OECD, il 12,9% della Francia, l’11,8% del Regno Unito e il 17,5% della Germania[63]). Gli studenti eccellenti in tutte e tre le aree considerate nei test PISA, a fronte di un valore per l’area OECD del 3,7% e di percentuali superiori al 6% in paesi europei come l’Estonia, la Finlandia e l’Olanda, gli studenti italiani in tale posizione sono l’1,9%.

Perdura anche la disomogeneità territoriale: alcune regioni italiane raggiungono livelli che avvicinano le rispettive scuole a quelle di paesi ad elevata performance, a fronte di posizionamenti nazionali inferiori ai valori europei o dei paesi OECD. Così, ad esempio, nel 2015 gli studenti lombardi eccellenti almeno in un’area (comprensione lettura, matematica o scienze) raggiungevano il 18,7% a fronte del 13,5% nazionale e del 15,3 dei paesi dell’area OECD[64]. Anche rispetto a competenze di ordine superiore come il problem solving i punteggi del campione di studenti del Nord Est (527) e del Nord-Ovest (533) risultarono nell’edizione PISA 2012 superiori a quelli dei coetanei dei diversi paesi europei e inferiori solamente agli studenti delle allora considerate ‘tigri asiatiche’[65].

La settorializzazione e la geo-referenzialità dei risultati delle valutazioni standardizzate, pur confermando la mediocrità del nostro sistema di istruzione, rischiano di rendere approssimative affermazioni che si riferiscono alla scuola italiana considerata uniforme nel suo insieme.

Tra infanzia e adolescenza

L’osservazione dell’andamento delle performance nel passaggio dalla scuola dell’infanzia alla scuola primaria e, successivamente, alla scuola secondaria presenta modelli diversi di evoluzione. I miglioramenti possono essere ricondotti al fatto che i primi anni vedono un maggior impatto del background familiare e contestuale che si riduce negli anni con il lavoro della scuola[66]. Si hanno però anche casi in cui le disuguaglianze crescono nel progredire nella scuola (p.30). [67]

La differenza tra i segmenti del sistema scolastico italiano affonda le radici nel passato. Già, infatti, negli anni 1970, un’indagine comparativa internazionale sulle competenze in scienze metteva in evidenza lo scarto tra gli alunni della scuola elementare a 10 anni (con un punteggio superiore a quello dei coetanei inglesi e tedeschi), gli studenti della scuola media a 14 anni (in penultima posizione tra i 14 paesi partecipanti) e gli studenti della scuola secondaria a 18 anni (superati dai coetanei di 13 paesi su 14 partecipanti)[68].

Il destino degli studenti di ‘ceti popolari’

Nel contesto di una considerazione longitudinale dell’andamento dei livelli di apprendimento, focalizzare l’attenzione sugli studenti provenienti dai “ceti popolari” si rivela importante. Appropriati sono gli interrogativi che sono al centro del saggio: qual è il destino degli studenti provenienti da un contesto socialmente ed economicamente non elevato? È con riferimento a questa componente della popolazione scolastica che si misurano la validità delle politiche educative perseguite e il livello di equità del sistema sociale. Da questo punto di vista la situazione del nostro Paese non è comparativamente ottimale considerando sia la percentuale di studenti resilienti, sia il peso dei fattori socio-economici e culturali sui risultati scolastici e sia la loro variabilità tra le scuole e interne ad esse.[69]

Influiscono le caratteristiche delle scuole quali, accanto al loro profilo socio-economico, gli ambienti di apprendimento, dalla leadership di scuola alle pratiche di insegnamento, dalle opportunità extrascolastiche alla pressione dei genitori. A contenere l’influenza del background economico e sociale concorrono il clima disciplinare di scuola, l’assiduità all’impegno scolastico, la maggior motivazione a riuscire da parte degli studenti[70], fattori che si rispecchiano, si potrebbe dire con altro linguaggio, nelle narrazioni di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi.

Le risorse finanziarie

 

Forse stupisce ma non risulta nel saggio di Mastrocola e Ricolfi la rituale lamentela sulle risorse finanziarie, assenti, tagliate o in contrazione[71]. I due autori non si allineano a una delle voci dominanti nella critica alla scuola italiana e alle decisioni politiche degli ultimi decenni. Il tema dei finanziamenti della scuola è certamente pregnante in un paese che ha visto un crollo della quota del PIL dedicata all’istruzione, anche rispetto agli altri settori di intervento pubblico come la sanità o la difesa. Pur mantenendo il costo pro-capite nella scuola a livelli comparabili con quelli di altri paesi europei, il sistema scolastico italiano non gode di finanziamenti comparabili a quelli di altri paesi[72].

Sotto questo profilo l’impostazione del saggio non rivela una sottovalutazione del ruolo dei finanziamenti, bensì un implicito riconoscimento del valore non assoluto o automaticamente determinante della quantità di risorse finanziarie riversate sulla scuola[73], di fronte ai nodi di fondo della catastrofe cognitiva. Peraltro sul tema il dibattito è aperto e esperti internazionali e ricercatori affermati[74] hanno messo in guardia rispetto a posizioni acritiche di semplice rivendicazione di maggior investimenti in educazione.

 

L’inflazione dei diplomi

 

L’aver abbassato l’asticella ha visto aumentare il numero di diplomati. Non. È del tutto chiaro se gli autori auspicando una scuola selettiva siano in favore della diminuzione dei diplomati, come è ricorrente nel dibattito della scuola o si schierino contro il credenzialismo a favore di un miglioramento della scuola per evitare la finzione dei diplomati. Per deflazionare i titoli di studio e ridare credito ai diplomi ci sono due strade, essere più selettivi o migliorare la scuola. In ogni caso per la scuola italiana la generalizzazione della scuola secondaria rimane ancora un obiettivo da raggiungere, reso più arduo per la non diversificazione dei percorsi di scuola dopo l’obbligo.

 

Il lento progresso

 

Come per altri settori, anche per la scuola le valutazioni sugli andamenti di lungo periodo non sono del tutto concordi. Antonio Schizzerotto, ad esempio, dopo aver esaminato processi estesi nel tempo, riconosce che tra gli ambiti istituzionali “il sistema formativo è quello che fa registrare i più incisivi miglioramenti delle condizioni di vita delle generazioni che si sono susseguite nel corso del secolo”.[75] Anche le testimonianze di esperienze possono divergere.[76] Rimaniamo il paese con il maggior numero di studenti che affrontano a scuola il latino e il greco classico il cui apprendimento ritorna nella memoria di autori di successo da Andrea Marcolongo a Nicola Gardini. Sui temi dibattuti del degrado grammaticale si ritrovano anche evidenze inattese (il congiuntivo) e esperienze positive ricorrono.

In questo quadro parlare di “standard” introduce una nozione polisemica legata ai sistemi di rendicontazione e valutazione e in alcuni paesi connessa ai programmi nazionali di insegnamento. Il significato oscilla da una generica indicazione del livello dell’istruzione a un complesso di obiettivi definiti operativamente e misurati con prove valutative strutturate. Per la verità è una nozione complessa che riguarda l’insieme dei sistemi di istruzione e singole componenti (fondamentalmente standard di strutture, standard di opportunità di apprendimento, standard di risultati degli studenti, oltre agli standard professionali per gli insegnanti). Gli standard possono diventare parte di iniziative di riforma (standard-driven reform) o rientrare nel processo di insegnamento con l’introduzione di standard accademici e le connesse prove valutative[77]. Nel volume si parla di abbassamento degli standard in termini generali, al di fuori di una puntuale definizione operativa, rendendo la stessa descrizione del declino, per quanto dettagliata e comprensibile, debole sotto il profilo di indicatori di misura.

Il declino del pensiero

 

Sebbene pochi studenti abbiano sempre avuto lungo tutta la propria traiettoria scolastica insegnanti all’altezza del compito, il problema della decadenza storica della scuola italiana va oltre l’inadeguatezza degli insegnanti (pp.31-32). é il sistema culturale complessivo che incide sui processi educativi riducendo lo spazio riconosciuto allo studio e all’istruzione. Seppur attraverso narrazioni particolaristiche la posizione dei due autori è chiara e convergente. Paradossalmente richiama preoccupazioni espresse in tutt’altro contesto politico e culturale da intellettuali globali come Edgar Morin per il quale la vera innovazione è la riforma del pensiero, da menti filosofiche come Marta Nussbaum che ha rilanciato l’idea del sapere disinteressato, senza tornaconti. fino alle testimonianze di insegnanti sul campo e al richiamo di attenzione alla natura dell’apprendere.[78]

Nel saggio lo scenario del declino della scuola di cui abbiamo richiamato alcune componenti, fa da sfondo all’ipotesi formulata in origine da Mastrocola e Ricolfi; allo stesso tempo è, più o meno direttamente, parte dell’argomentazione degli autori. Il riferimento alla “macchina della disuguaglianza” chiama in causa la categoria di scuola progressista introdotta per riassumere visione e pratiche che, secondo gli autori, hanno aggredito e stravolto il sistema italiano di istruzione.

5.3 La cultura progressista

 

Nelle posizioni che esprime e nelle argomentazioni che propone, il saggio di Mastrocola e Ricolfi, ad una prima lettura, appare giocato sulla implicita contrapposizione, sottesa soprattutto nei capitoli 2 e 3, tra la scuola progressista e la scuola che tale non è, non condividendone slogan e pratiche. La dicotomia progressismo e tradizionalismo in educazione è la formula corrente per opporre filosofie e soluzioni operative diverse a cui corrispondono scuole di pensiero e orientamenti metodologici. Ma nell’analisi dei processi reali la trasposizione può risultare un po’ approssimativa. Al di là della sensazione o della percezione che si può avere su che cosa contiene la dicotomia, i contorni sono sfumati e non così netti in ogni circostanza. Per questa ragione è da esaminare che cosa esattamente i due autori intendano per “cultura progressista” e quali evidenze siano disponibili della sua diffusione se non dominanza.

Nella storia del pensiero sull’educazione il progressismo può essere fatto risalire a John Dewey dell’Università di Chicago e alla sua pedagogia caratterizzata dalla posizione centrale dello studente e alla sua filosofia sociale. Partendo dall’indiscutibile maitre à penser per chi si occupa di scuola il movimento progressista nel tempo ha investito il panorama culturale dell’educazione. E’ comunque un concetto polisemico, genericamente riferito al superamento del tradizionalismo basato sul ruolo centrale del docenti e sui contenuti di insegnamento. Accostando l’aggettivo democratico si aggiunge implicitamente un contenuto sociale con una pluralità di riferimenti. Per la verità Luca Ricolfi nota correttamente che l’aggettivo democratica attribuito alla scuola è un non-sense (si potrebbe mai avere una scuola non democratica?)[79]. Così il principio delle pari opportunità da assicurare, “azzerando la disparità delle condizioni di partenza” è un traguardo pienamente condivisibile come riconosce Paola Mastrocola (p.16). L’aggettivo democratico finisce, tuttavia, per essere associato all’immagine di scuola scadente, non di qualità[80].

Un’altra variante di scenario tra le ideologie sull’educazione è il liberismo. Basata sulla valorizzazione del talento individuale, sulla considerazione del merito, sulla scelta della scuola e sulla competizione per qualche decennio la visione liberale ha ispirato importanti riforme della scuola e influenti scelte politiche[81]. La prospettiva liberale sembra includere componenti diversi, dalla formazione ‘inutile’ alla funzionalizzazione al mercato del lavoro, dalla scelta individuale alla nozione di capitale umano risorsa per la crescita economica.

L’uso delle categorie progressismo, conservatorismo e liberismo è tuttora problematico. Non è così semplice, ad esempio, collocare l’eredità di Antonio Gramsci in termini di pensiero sull’educazione. Nelle Lettere dal carcere e nei Quaderni c’è una pedagogia e una concezione della scuola basate non sulle risposte da dare alle domande del mercato, ma sulla fatica dello studio[82], sulla rigorosità dell’insegnamento, sullo studio del latino e del greco. E’ tuttora, inoltre, oggetto di discussione se il progressismo abbia inciso su larga scala e significativamente sulle pratiche di insegnamento[83]. Per alcuni esperti la grammatica della scuola è rimasta, considerata nel lungo periodo, invariata, pur attraverso stagioni ideologiche diverse e movimenti di pensiero successivi e alternativi. Già negli anni 1970 la ricerca di Neville Bennet sul fallimento del progressismo aveva incontrato radicali stroncature[84] accendendo un forte dibattito.

Leggendo il libro l’impressione è che si dia per scontato che cosa si intenda per scuola progressista, quasi che fosse la continuazione di un dibattito in corso con interlocutori a conoscenza del contendere. L’espressione che risente di una sfumatura di polemica politica, anche se può assumere contenuti precisi, se chiaramente enunciati.

Per ponderare la rilevanza degli orientamenti di principio a prescindere dal loro impatto in assenza di un evidenze empiriche costruite con metodologie rigorose. occorre tradurli in indicatori concreti relativi a metodi e tecniche di insegnamento, Fatte queste considerazioni di sfondo vediamo più in concreto quali siano i caratteri propri, secondo Mastrocola e Ricolfi, della scuola progressista. Per capire serve una lettura accurata e qualche riflessione aggiuntiva onde evitare una contrapposizione semplificata o il travisamento di quanto gli autori intendono sostenere. L’accezione, infatti, dei termini è fortemente contestuale e riferita alle vicende storiche della scuola italiana. Presente attraverso i governi di sinistra e di destra la cultura progressista, secondo gli autori, si è così estesa al punto che anche i governi di centro destra non hanno saputo presentare una vera e propria alternativa.

Ricolfi e Mastrocola, pur in modo non sistematico, indicano varie componenti della cultura progressista. A livello dell’istruzione la promozione estesa senza vera selezione, la tendenza a promuovere tutti a prescindere dalle competenze verificate il tramonto dello studio della grammatica e dell’attenzione all’ortografia, l’abolizione del tema, la sottovalutazione dello studio, l’irruzione delle tecnologie, la valutazione a crocette, l’ostracismo nei confronti della lezione frontale. la tendenza a promuovere tutti a prescindere dalle competenze verificate. Donmilaniano e berlingueriano sono aggettivi associati ad una serie di idee, scelte e pratiche della scuola. La filosofia attribuita a Luigi Berlinguer “fratello del mitico Enrico”p.63)[85] viene ricondotta alla scuola dei progetti e al diritto al successo formativo[86]. Il Piano dell’offerta formativa, un caposaldo dell’autonomia scolastica, viene letto come una strategia di marketing, sul tipo dei supermercati, che introduce una logica del mercato nel mondo dell’istruzione., la svalutazione delle discipline a favore delle “educazioni”. Si risale anche più indietro all’abolire del latino dalle scuole medie e alla semplificazione dell’esame di maturità avvenuta con vari interventi successivi. La scomparsa del tema diventa il segnale del riorientamento verso il basso come il liceo senza il latino o il liceo linguistico come versione. Minore del modello classico liceale. Dal punto di vista dei metodi sono menzionati la rimozione della lezione frontale, la sottovalutazione dello studio individuale, la rilevanza delle lezioni private, l’invasione delle tecnologie[87].

A marcare il declino sono decisioni precedenti alla stagione berlingueriana quali l’abolizione degli sbarramenti nei percorsi di istruzione (esami, propedeuticità, requisiti di ingresso p.218), All’università la liberalizzazione degli accessi, gli esoneri previsti nel regime di valutazione, l’organizzazione strutturale del 3+2, la valutazione dei docenti che erode lo spirito dell’investigazione scientifica con la pressione per la pubblicazione e per i connessi criteri bibliometrici paralizza la ricerca e la soffoca didattica

Sullo sfondo la critica sottolinea lo svanire della filosofia della “scuola inutile” o del richiamo classico all’”ozio” come rivalutazione dello studio.

Quanto è diffusa la cultura progressista? La risposta non è semplice perché ci sono profonde ambivalenze. Il fatto che la scuola italiana, detto in sintesi, segua ancora, specie nelle secondarie, “il programma” (rigorosamente con articolo determinativo) e utilizzi prevalentemente la lezione frontale e la “didattica centrata sul libro di testo”[88], non sembra deporre per una risposta positiva.

Consultando le risultanze delle ricerche OECD sulle pratiche didattiche, l’orientamento tradizionale nella scuola italiana non risulta scomparso per nulla. Anzi gli insegnanti italiani della scuola media appaiono meno allineati sulle premesse progressiste rispetto ai loro colleghi di altri paesi. Le indagini fondamentali sulle pratiche didattiche che raccolgono il punto di vista di migliaia di insegnanti (come l’indagine Talis), lo confermano.

D’altra parte i cambiamenti di cui parlano Mastrocola e Ricolfi riguardano scelte politiche che per aver successo devono portare non solo cambiamenti strutturali ma anche mutamenti per gli studenti e per le famiglie. Molto spesso si assiste a successive ondate all’insegna di nuovi manifesti pedagogico didattici (lavagna luminose o il proiettore che fine hanno fatto?) con cicli che sorgono, si affermano, arretrano e spariscono. In entrambi i casi l’impatto sui docenti non è a cascata ma ha carattere dialettico con una pluralità di utilizzo delle politiche (policy in use).

Non meno facile è capire quale sia il radicamento delle politiche adottate dai ministri che si sono succeduti e catapultate sulle scuole e sui docenti (citare). C’è ragione di ritenere l’esistenza di uno scostamento tra le posizioni espresse in una riforma e nei testi normativi attraverso cui viene formalizzata e le prassi reali in classe come documentano interi filoni di ricerca[89] e come è testimoniato anche da esperienze nel nostro Paese.[90] La fase successiva all’approvazione di una riforma o all’emanazione di una nuova regolazione non corrisponde sempre ai proclami o ai contenuti formali. C’è una “deviazione standard” difficilmente eliminabile La stessa Mastrocola dice che se ne è infischiata continuando con il suo approccio e non è successo nulla[91]. Si capisce quindi come Paola Mastrocola possa riferire di aver mantenuto il suo approccio (dare temi) senza alcun problema. Non è quindi fuori luogo il dubbio che quella scuola menzionata dagli autori sia realmente tramontata travolta da uno tsunami progressista.[92]

Accentuare la continuità tra Berlinguer, la Moratti e la Gelmini rischia di essere una semplificazione eccessiva che non tiene conto degli elementi di discontinuità. Anche la scuola italiana è stata investita da ondate successive di cambiamenti, falsi o autentici che fossero, annunciate o realizzate che siano state), alimentate da pedagogisti, linguisti e intellettuali[93]. La riforma della scuola media unica, la filosofia donmilaniana e le riforme berlingueriane possono essere collocate sotto un unico cappello del progressismo? Le misure citate sono derivate da scelte ideologiche coerenti? Abbiamo avuto il dominio di progressisti? Nelle nostre classi si è radicato un modello progressista di intervento con i docenti allineati? Dov’è il progressismo italiano? Esiste la scuola di cui parlano Mastrocola e Ricolfi?

In primo luogo il panorama è molto frastagliato non solo tra le aree del Paese: Sullo stesso territorio si trovano scuole diverse, ma anche le sezioni e le classi al loro interno. Il valore aggiunto è calcola dall’Invalsi ma rimane un dato interno: Stabilire come e quanto una scuola incida sul destino formativo e futuro di qualcuno è molto difficile e richiede, quando lo si vuole fare, di usare misurazioni plurali e approfondite, conoscere i punti di partenza e di arrivo e condividere il significato di tutti i costrutti in gioco (cosa significa “successo”). Il recupero è difficile: La scuola di oggi non consente a chi parte da più indietro di “recuperare” lo svantaggio.

C’è una intrinseca contraddizione tra il favorire il successo di tutti e la garanzia di qualità, assicurata invece da una scuola selettiva Il successo di tutti comporta un abbassamento delle attese, anzi invece di ridurre le differenze le amplifica

Esiste una maggioranza progressista?

La ricostruzione proposta della vicenda della scuola italiana e l’argomentazione avanzata stimolano la riflessione anzitutto sulla continuità e discontinuità. Non del tutto convincente è l’allineamento di scelte e interventi nell’arco di parecchi decenni lungo un unico e comune filo rosso, sia per l’alternarsi di stagioni culturali e politiche diverse, sia per le fratture profonde esistenti tra i territori del Paese[94]. La riforma della scuola media dei primi anni 1960, osteggiata e non votata dal partito comunista, segna l’unificazione dei percorsi immediatamente successivi alla scuola elementare, un modello adottato e tuttora esistente in altri paesi europei[95], che ha resistito al tentativo di unificazione dell’intero primo ciclo, caposaldo del programma berlingueriano, e al dibattito ancora oggi acceso e mai concluso. I mutamenti indotti dal Sessantotto e dagli agitati anni 1970 hanno intrecciato processi diversi, direttamente o indirettamente associati all’esplosione della popolazione scolastica, con il crollo dei regimi di reclutamento ereditati dal passato, con la polemica ideologica contro i libri di testo, le bocciature, il tema, i voti selettivi considerasti come i baluardi della conservazione. La quinquennalizzazione di tutti i percorsi di scuola secondaria e la loro differenziazione in varianti liceali (tra cui liceo senza il latino) e tecniche sono stati in qualche misura determinati dal fallimento della riforma inseguita per oltre due decenni. Il successivo riconoscimento della filiera professionalizzante è stata un tentativo di riequilibrio delle proposte formative per la fascia 15-19 anni. L’introduzione dell’autonomia scolastica ha, peraltro, avvicinato la gestione della scuola a modelli liberistici fuori dalla tradizione progressista, mentre l’affermarsi dell’azione dell’Invalsi è avvenuta nonostante l’opposizione delle forze di sinistra.

I dubbi, quindi, sorgono sull’effettiva affermazione di una maggioranza progressista nella scuola italiana. Se ci si interroga sulle ragioni della mediocrità e del fallimento della nostra scuola le ipotesi da esplorare sono proprio le inconcludenze e le incoerenze delle scelte considerate progressiste, da un lato, e dall’altro dal permanere della scuola di una volta ancora viva e vegeta al di là delle retoriche ricorrenti. In entrambe le direzioni potremmo forse trovare le origini del mancato miglioramento nel periodo a cui fanno riferimento Paola Mastrocola e Luca Ricolfi.

L’ipotesi sulle cause del degrado della scuola, sostenuta dai due autori, potrebbe risultare più robusta con una definizione puntuale della cultura progressista e la raccolta di evidenze di una sua dominanza non solo nelle strategie politiche e nelle decisioni amministrative ma anche nel lavoro quotidiano svolto nelle centinaia di migliaia delle classi scolastiche.

 

Esiste una minoranza alternativa?

 

Ritornano nel testo, comunque, docenti resistenti e quote di studenti che ce la fanno (20%). Per esclusione possiamo cercare nel testo i caratteri propri della scuola che non si riconosce nel modello progressista, potremmo dire il modello conservatore o tradizionale. I confini e le differenze sono presupposte più che tematizzate.

Alla dilagante cultura progressiva paradossalmente esistono alternative derivanti dai legami deboli tra processi, decisioni e opzioni sul campo nel sistema scolastico[96], a partire dagli spazi esistenti di discrezionalità. Avviene così che la flessibilità esistente, se astutamente utilizzata, consente di sfuggire alla riforma della scuola media unica, come narra Ricolfi con riferimento all’ingresso anticipato del fratello su consiglio della zia Ebe, preside di scuola. La possibilità di cambiare scuola e le opportunità che il regime di parità scolastica consente rende evitabile una scelta non condivisa come la scuola primaria dei moduli ricorda Ricolfi citando la ricollocazione del figlio su suggerimento del maestro.

La scollatura nelle politiche educative tra ideologie professate, politiche perseguite e decisioni degli insegnanti all’ultimo miglio della scuola[97] diventa più ampia nel nostro sistema scolastico dove i programmi non sono rigorosamente prescrittivi e i feedback nei confronti degli insegnanti quasi assenti.[98]

Ma anche nel corso di laurea del prof. Ricolfi c’è “un bel manipolo” di studenti                                                                                                                         (“diciamo 50 su 1000. Forse 100 su mille” p.28) di studenti che affrontano gli esami con successo. I “pochi volti alti che riesco a dare li prendono spesso studenti dei licei scientifici e degli istituti tecnici, non solo dei licei classici”(p.32) registra Ricolfi.[99] Nella lettera al genitore Mastrocola riconosce che qualcosa si sta muovendo quasi fossimo di fronte ad una palingenesi.

Legando il declino alla cultura progressista gli autori denunciano che la crociata propria della sinistra contro la scuola classista viene contraddetta dagli effetti della decadenza dell’istruzione con una illusoria democratizzazione che danneggia gli studenti provenienti dai “ceti popolari”. Questo è l’argomento del Capitolo 4.

6.     Test dell’ipotesi

 

Sono di indubbio interesse oltre che di marcato carattere tecnico[100] le pagine del volume dedicate al test dell’ipotesi  sul rapporto tra “ceti popolari”, qualità della scuola e mobilità sociale.

L’incipit domestico del quesito di partenza è, per la verità, singolare, ma incoraggiante. Sorprende, un po’, tuttavia, che il professore scriva: “Non mi veniva in mente un solo studio sociologico che avesse provato a vedere se una scuola di cattiva qualità diminuisse le chance di ascesa sociale dei ceti popolari”(p.175). Non c’è motivo di dubitare dell’utilità di una ricognizione sulla letteratura o di qualche riferimento a studi che abbiano sfiorato il tema o si siano occupati di questioni adiacenti o più generali quali il ruolo dell’educazione nella mobilità sociale. Condivisibile è, invece, l’accenno alle difficoltà che lo studio della mobilità sociale comporta.[101] La sfida è, comunque, passare da una opinione ragionevole maturata nel tempo ad un risultato derivante da procedura metodologicamente controllata e rigorosa.

6.1 Le disuguaglianze e la mobilità sociale

I quesiti originari posti da Paola Mastrocola all’esperto (“fare una buona scuola aiuta i figli dei ceti popolari a emanciparsi dal condizionamento dell’origine? …fare una cattiva scuola rende più forte la dipendenza dall’origine e quindi rafforza i privilegi dei ceti alti?” pp.175-176) all’esperto non sono semplici curiosità personali. Dietro gli interrogativi ci sono, infatti, le questioni a cui abbiamo fatto cenno, quali l’equità sociale e l’annosa questione dell’”ascensore sociale[102]. sullo sfondo dell’esplosione delle disuguaglianze degli ultimi decenni. L’andamento dei valori dell’indicatore di mobilità sociale per il nostro Paese[103] e le recenti acquisizioni in tema di relazione tra educazione e mobilità rendono quanto mai pertinente l’ipotesi messa alla prova[104].

Gli interrogativi sono chiari. Quanto le aspirazioni di raggiungere posizioni elevate sono contrastate da una scuola non all’altezza? Quanto una scuola insufficiente limita le chance di miglioramento di status per chi non ha il necessario supporto familiare o culturale del contesto di vita? Quanto una scuola inadeguata accresce il livello di iniquità sociale impedendo la mobilità a studenti di “ceti popolari”?

6.2 L’impostazione

L’analisi inizia con la distinzione tra le due facce della mobilità sociale verticale, quella legata alle dinamiche di progressione intergenerazionale (“ascensore sociale”) e quella dipendente dal livello di fluidità di una particolare società (“apertura”)[105], illustrata da esempi corredati di tabelle esplicative. Per la definizione di una tavola di mobilità per l’Italia vengono utilizzati i dataset di ricerca ISTAT[106]. Le sei categorie della classificazione standard sono accorpate in due grandi categorie, la prima (“ceti alti”) comprendente “borghesia, classe media impiegatizia, piccola borghesia urbana”, la seconda composta da “piccola borghesia agricola, classe operaia urbana, classe operaia agricola(“ceti bassi”) (p.183).

All’analisi condotta sul piano nazionale viene aggiunta una esplorazione a livello territoriale con la identificazione, sulla base di criteri culturali e sociologici, di cinque macrozone comprendenti rispettivamente il Nord (Nordovest e Nordest -Triveneto) e il Centro-Sud (Regioni rosse, Sud ad alta intensità mafiosa, Resto del Sud + Lazio), diverse dalle convenzioni ripartizioni geografiche.

6.3 Gli indicatori

Per un confronto delle dinamiche di mobilità dei ceti alti e dei ceti bassi viene calcolato l’indicatore che misura il grado di iniquità di un sistema sociale cioè la variazione di possibilità di riuscita tra le due categorie. I valori dell’indicatore variano tra le regioni di un Paese, l’Italia, “ad alta iniquità” come gli USA e il Regno Unito, ma distante dei “paradisi uqualitari dei paesi scandinavi (p.185). L’ipotesi riformulata diventa: “una scuola di qualità abbassa il parametro di iniquità, una scuola mediocre lo alza” (p.186).

Per definire operativamente la qualità della scuola vengono utilizzati i dati Invalsi relativi ai risultati in italiano e matematica degli studenti agli esami di terza media[107]. La scelta viene discussa riconoscendo i limiti e le potenzialità degli esiti del testing, incluso il riferimento a valori provinciali e non delle singole scuole o dei singoli studenti (pp.186ss). Come indicatore viene scelto il livello provinciale medio di performance degli studenti raggruppando così le province in tre insiemi rispettivamente con “buona”, “media” o “cattiva” scuola.

La variazione dell’indicatore di iniquità passando da un territorio con scuole di buona qualità ad un territorio in cui la qualità è media o bassa, è un solo primo indizio nel percorso di ricerca: la variazione, infatti, potrebbe dipendere da molti altri fattori e non necessariamente dalla qualità della scuola.

Le domande della ricerca diventano quindi: alla variazione dei valori medi riferiti alle province corrisponde una variazione dell’indicatore di iniquità? Una scuola “media” o “cattiva” accentua tale indicatore? Ad un valore elevato degli esiti del testing corrisponde un assetto più equo della mobilità sociale?

A questo punto Ricolfi costruisce un modello per arrivare a mettere alla prova l’ipotesi. A livello individuale di mobilità le possibilità di accesso a posizioni elevate sono favorite dall’origine sociale e dalla qualità della scuola frequentata lasciando da parte altri determinanti. Nel modello si considerano due effetti della qualità della scuola, il primo riguarda le chance di successo avendo frequentato una buona scuola (parametro di meritocrazia), il secondo riguarda l’impatto sullo svantaggio sociale derivante dell’origine (parametro di emancipazione). Combinando assieme i due effetti l’impatto del frequentare una buona scuola può attenuare il peso dell’origine sociale e diminuire lo svantaggio: “La scuola di qualità attenua le diseguaglianze sociali” (p.197). A                 livello di società questo significa ridurre l’indicatore di iniquità.

Ricolfi si sofferma, poi, sulle altre variabili che intervengono. Gli anni di studio e la generazione di appartenenza hanno un peso elevato. Confrontando le generazioni, ad esempio, “a parità di altre condizioni le chance di successo di un nato nel 1954 sono quasi tre volte maggiori di quelle di un nato nel 1973”(p.202). Non trascurabili sono il livello di istruzione della madre, in particolare gli anni di studio, e il grado di sviluppo socio-economico. Mettendo a confronto i risultati del test e la frequenza di votazioni massime (100 e 100 e lode) viene poi calcolata “l’indulgenza della valutazione” una variabile con un effetto negativo sulle chance di successo (p.203). La conclusione  è rilevante: passando “da una scuola molto severa a una molto indulgente le chance di successo si riducono del 29%” (p.203).

6.4 Iniquità sociale e qualità della scuola

“il condizionamento dell’origine esiste, ed è tutt’altro che debole” ma “l’origine sociale non è onnipotente” (p.204). L’intenzione del Prof. Ricolfi è quella di provare se “l’abbassamento danneggia i ceti popolari”. la risposta è un netto ‘sì’, contenuto nel titolo stesso del Capitolo 4. Con una buona scuola si limitato gli effetti o la dipendenza dai fattori di origine, background socio-economico, contesto familiare, cultura di provenienza, status sociale della famiglia. Con una cattiva scuola, viceversa, si alimenta l’iniquità del sistema di scuola e di mobilità sociale.

L’esame mette in evidenza, esplicita Ricolfi, che ad una “buona” scuola corrisponde un minor valore dell’indicatore di iniquità che invece sale nel contesto di una “cattiva” scuola. L’ipotesi di partenza “pare pienamente confermata dai dati” conclude l’autore (p.217). Di conseguenza: “Aver fatto una buona scuola non abbassa mai le chance di successo, e attenua sempre la dipendenza dall’origine sociale” (p.207).

Il modello costruito resiste anche proseguendo l’analisi a livello delle  cinque macrozone individuate. Considerando più in dettaglio gli esiti per i singoli territori, Ricolfi arriva, infatti, ad una lettura che mette in crisi visioni consolidate. Alla luce degli indicatori di meritocrazia e di emancipazione l’autore identifica sul territorio nazionale diversi “regimi di mobilità”. Il massimo di meritocrazia si ha nel Nord-Est con valori bassi nel Nord-Ovest e il massimo di emancipazione nella aree del Sud non controllate dalla mafia. L’assenza di meritocrazia e di emancipazione si troverebbe paradossalmente nelle Regioni rosse e nelle aree a forte infiltrazione mafiosa, entrambe caratterizzate da limitato impatto di una buona scuola. Di fronte a questi ultimi risultati inattesi Ricolfi avanza un’ipotesi basata su motivi diversi ma con effetti convergenti di “zona clientelare”: “In entrambi i casi la logica del mercato, basata sulla concorrenza e sul merito, è contaminata dal ruolo che le reti di relazioni e le clientele esercitano in tutte le transazioni” (p.210).[108]

 

6.5 Il merito e il danno scolastico

 

L’uguaglianza delle opportunità è ”uno dei valori centrali della tradizione liberale”, ma anche “uno dei pochi principi condivisi dai riformisti di destra e di sinistra” (p.212). L’obiettivo, tuttavia, di una società basata sul merito e sul talento è sostanzialmente fallito come conferma il sostanziale accordo tra gli studiosi le cui diagnosi, tuttavia, divergono. Da un lato c’è che sottolinea che il successo non dipende solo dal merito (Ricolfi cita Michael Sandel) dall’altro lato per alcuni la globalizzazione mal gestita ha compromesso gravemente l’ideale meritocratico. In realtà sottolinea il sociologo torinese, “negli ultimi trent’anni di meritocrazia me abbiamo vista ben poca” (p.215). Le politiche hanno mirato a elevare il più possibile i livelli medi di istruzione formale “senza alcuna preoccupazione di mantenere elevata la qualità dell’istruzione effettiva” (p.215).

Confermata è l’ipotesi di partenza, alle “legioni di pedagogisti, linguisti, intellettuali più o meno impegnati che hanno promosso la distruzione della scuola e dell’università” (p.219) Ricolfi non risparmia, uscendo dall’etichetta accademica, un’interlocuzione diretta “No. Cari finti progressisti, su questo avere toppato. è stato uno sbaglio enorme” (p.220).

7.     Alcuni interrogativi

Luca Ricolfi allega un’appendice metodologica per dar conto di aspetti tecnici che possono non interessare un lettore generico ma che rispondono alle esigenze di chiarezza metodologica della ricerca condotta. Non mancano, tuttavia, interrogativi che la ricerca fa emergere e che vengono richiamati per approfondire il tema.

7.1 In una società a mobilità sociale debole è possibile una scuola di qualità?

 

Preliminarmente c’è una distinzione da fare anche in conseguenza dei due tipi di mobilità. La domanda se “fare una buona scuola aiuta i figli dei ceti popolari a emanciparsi dai condizionamenti dell’origine” (p.176) in realtà contiene due interrogativi. Il primo riguarda la capacità della scuola di attenuare i condizionamenti dell’origine rispetto ai risultati scolastici e, quindi, rendere possibile anche a studenti dei “ceti popolari” di raggiungere performance elevate[109]. Il secondo, invece, più complesso da affrontare, si riferisce all’impatto che una buona scuola, cioè una scuola con risultati positivi, possa esercitare sulle opportunità di ascesa in un dato contesto sociale. E’ plausibile che l’equità in educazione predisponga positivamente i propri studenti per processi di mobilità verticale intergenerazionale, ma la compiuta progressione ascendente è legata a fattori indipendenti, quali la fluidità della società e la sua organizzazione. Se aumentano le posizioni professionali elevate da occupare e se i processi di selezione sono basati sulle competenze, è evidente che l’aumento delle opportunità possa accrescere il numero di studenti, provenienti dai “ceti bassi” e con una buona scuola alle spalle, che concorrono per occupare tali posizioni. Al contrario se non c’è competizione in assenza di posizioni di status superiore veramente aperte può avvenire che la scuola perda di mordente, veda contrarsi la motivazione e riduca l’investimento personale, familiare e collettivo, facilitando un degrado degli stessi processi di istruzione. E’ un rischio, non necessariamente un destino.

Non c’è spazio per una scuola che non miri all’occupazione di posizioni elevate, ma che abbia a cuore la formazione degli studenti? Non c’è un ruolo della valorizzazione pubblica della scuola come accesso alla cultura? Non possiamo pensare ad una istruzione che non sia meccanicamente strumentale per ruoli gratificanti nella vita professionale? Ricolfi accenna al contesto culturale complessivo che è cambiato, soprattutto nella considerazione del valore della scuola. Una riflessione rimane da sviluppare, tenendo conto che il blocco dell’ascensore sociale risale agli anni 1970 come riconosce il sociologo.

 

7.2 Quali rapporti tra gli indicatori della qualità della scuola e i canoni della “cultura progressista”?

 

Gli stimoli alla riflessione, e anche i motivi del contendere, che il saggio fornisce al lettore non sono pochi. Uno degli interrogativi che sorgono riguarda il rapporto tra i caratteri della “scuola progressista”, tema affrontato nei capitoli 2 e 3, e la classificazione delle province sulla base dei valori medi dei test a cui sono stati sottoposti gli studenti agli esami di terza media negli anni.

Pur marginale rispetto all’ipotesi di ricerca ci si domanda come i tratti progressisti si rapportino ai livelli di performance degli studenti. Quale relazione esiste tra la distinzione delle scuole in ‘buone’, ‘mediocri e cattive’ e la cultura progressista? Tutte le scuole indistintamente hanno concorso alla discesa dell’asticella? La ‘cattiva’ scuola è quella ispirata dai principi del progressismo più della scuola ’buona’? La filosofia progressista è del tutto assente dalle scuole ‘buone’?

La diffusione e la collocazione territoriale della scuola progressista è di primaria importanza, come base per analizzare il collegamento tra la presunta invasione della cultura progressista e la contrazione della mobilità sociale. A prima vista la filosofia progressista che avrebbe corroso con l’andare del tempo la scuola, dovrebbe essere associata alla scuola “cattiva” identificata dai risultati scadenti del test di terza media. Sotto questo profilo, dato il grande divario tra le aree del Paese, con una buona qualità nelle province del Nord rispetto a quelle del Sud, i dettami della cultura progressista dovrebbero colpire di più le scuole del meridione d’Italia. La realtà non appare, tuttavia, così semplice. La diffusione, ad esempio, del tempo pieno nella scuola primaria, un possibile marker della cultura progressista e un’alternativa alla formula del maestro unico, caratterizza le scuole del Nord rispetto a quelle del Sud. Senza dubbio, tuttavia, è nelle scuole delle regioni del Sud che si registra maggior indulgenza valutativa, con una maggiore percentuale di studenti promossi lungo il percorso scolastico. Il livello, infatti, di promozioni, un altro dei capisaldi attribuiti alla “scuola facilitata”, è inferiore nelle classi delle scuole del Nord rispetto a quello delle classi collocate nelle scuole del Sud. Per di più si hanno ormai consolidate evidenze del rovesciamento di posizioni passando dai voti e risultati di scuola ed esiti dei test standardizzati Invalsi, a conferma della finzione (il palmares 2021 vede la Lombardia eccellere nei test e piombare verso il fondo per i voti di scuola, una traiettoria esattamente contraria quella della Puglia[110]). Le pratiche ispirate dalla cultura progressista sembrano essere propri delle scuole che alla luce dei dati Invalsi utilizzati sono classificate come ‘mediocri’ o ‘cattive’. Peraltro verso, tuttavia, le differenze nei comportamenti valutativi degli studenti potrebbero non essere considerate significative tra le aree del Paese confermando che la qualità individuata va ricondotta ad altri fattori. Si potrebbe, inoltre, notare come le osservazioni sul campo di Ricolfi si riferiscono a università (Trento, Modena, Torino) collocate in città settentrionali, territori dove i valori delle performance degli studenti come misurate dai test Invalsi sono superiori.

Rimane da approfondire la coerenza tra le pagine sul declino della scuola e le conclusioni sulla verifica dell’ipotesi e l’allineamento tra i risultati dei test e i caratteri delle “scuole facilitate”. Si tratta di variabili indipendenti o si possono rintracciare interconnessioni? Se le scuole migliori non sono quelle dell’indulgenza valutativa e della promozione generalizzata, quali sono? Se l’iniquità sociale si accompagna ad una diminuzione della qualità della scuola, a quale cultura di scuola, progressista o non, possano essere riferiti i caratteri di scuola “buona, mediocre, cattiva”? Probabilmente un supplemento di indagine ci potrebbe aiutare a capire meglio se i buoni risultati degli studenti della Lombardia, del Friuli o del Veneto sia stati danneggiati dalla cultura progressista, sia stati agevolati dalla “scuola facilitata” o siano stati meno condizionati dal decadimento degli standard. Collegare le impressioni soggettive con le analisi dei dati disponibili è un’impresa affrontata da Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, intellettuali di rango, ma non per questo del tutto compiuta.

7.3 L’educazione come “ascensore sociale”: mito o realtà?

Di uso corrente nel confronto politico e nei discorsi sulla scuola il riferimento all’ ascensore sociale[111] è spesso associato alle finalità della scuola e dell’educazione in generale. Solleva, tuttavia, discussioni e chiama in causa problemi di comprensione di processi complessi, come dimostra il saggio di Mastrocola e Ricolfi. Riesce, infatti, difficile capire se il ruolo frequentemente attribuito alla scuola sia corrispondente alla realtà. Il blocco della mobilità sociale intergenerazionale dipende dall’inadeguata preparazione degli studenti, dalla non liquidità della società o dalla contrazione, in epoca di stagnazione, delle posizioni di vertice per le quali competere? é giustificato criticare la scuola perché “non fa da ascensore sociale” (p.15)?

Certamente in un sistema non equo la probabilità di progresso verso le posizioni elevate sono diverse tenendo conto dei livelli di partenza. Proprio in un contesto a elevata iniquità la scuola non gioca forse un ruolo più forte? Quali fattori hanno permesso a una quota di giovani di raggiungere posizioni elevate pur provenendo da famiglie il cui padre era in una posizione inferiore? In questi casi l’educazione non ha forse un peso maggiore rispetto a quello che ha per i giovani di provenienza agiata?

é abbastanza comune pensare all’educazione come motore di mobilità sociale. Saper discriminare quali modelli educativi abbiano maggiore impatto è un passaggio importante, come lo è considerare la spinta che può pervenire dalla scuola all’interno di un sistema di fattori intervenienti (prosperità economica, struttura della società, livello di aspirazione della popolazione, struttura demografica, prestigio occupazionale…) di mobilità sociale.

In questa direzione Mastrocola e Ricolfi forniscono un approfondimento sulle ripercussioni negative di un’educazione inadeguata per gli  studenti dei “ceti popolari”. Rimane, comunque, l’interrogativo se la scuola prima della distruzione, per alcuni decenni frequentata non da tutti, garantiva l’effettivo accesso a tutti e facilitava la mobilità sociale.

7.4 C’è diversità nell’abbassamento dei livelli tra scuola e università?

Uno degli argomenti di Luca Ricolfi è che gli studenti che “non ce la fanno” e “non hanno le basi”, sono quelli che hanno perso l’occasione nei periodi critici della loro scolarità di sviluppare le capacità richieste. La posizione mi ricorda lo slogan di un rettore di Politecnico ripreso dalla formula risalente all’epoca primordiale dei computer “garbage in garbage out”, una macchina non intelligente non può rimediare con l’output ai limiti dell’input. La ineluttabilità del fallimento avendo perso l’attimo fuggente (lo storico esperimento dei gattini ciechi, condotto negli anni sessanta da Hubel e Wiesel, neuroscienziati e futuri premi Nobel pur scientificamente produttivo è oggi un po’ raccapricciante) è da approfondire chiamando in causa l’efficacia dei segmenti successivi di istruzione.

Se guardiamo i livelli di alfabetizzazione della popolazione adulta quali risultano dalle indagini internazionali troviamo alcuni indizi che ci fanno riflettere. I livelli di competenza in lingua e in matematica della popolazione italiana sembrano essere comparabili se non superiori per l’istruzione scolastica; la divaricazione si verifica nel periodo post-secondario cioè fondamentalmente all’università. Così, ad esempio, nel confronto con la Germania la popolazione italiana con livello di istruzione inferiore alla scuola secondaria ha una performance superiore, in lingua e matematica, a quella dei tedeschi con pari livello di istruzione mentre i valori si rovesciano a livello di istruzione terziaria dove gli adulti tedeschi superano quelli italiani. Sembrerebbe potersi leggere in Germania una maggior produttività dei segmenti post-secondario. Un andamento simile si ha con riferimento a due realtà molto diverse, quali la popolazione francese e quella di Singapore.

Ricolfi, peraltro, puntualizza numerosi aspetti dell’università, dall’abbandono di fatto degli studenti alla diminuita attenzione alla didattica da parte di docenti vincolati alla pubblicazione, che non depongono a favore della possibilità per uno studente di un recupero e di un progresso nella formazione nel corso della formazione universitaria. L’indicazione dell’opportunità non colta nel periodo critico come motivo della mancanza di basi pare dover essere integrata con l’analisi dell’impatto del declino degli studi universitari (esoneri, ristrutturazione dei percorsi…) e la scomparsa delle attività di tutoraggio degli studenti.

7.5 E se la mobilità sociale fosse indipendente o quasi dal livello di istruzione?

Ad un primo sguardo si rimane un po’ sorpresi. John Goldthorpe, citato nel volume per una questione di impostazione tecnica (“considerato la massima autorità in materia di mobilità sociale”, p.251), sembra avere una visione non così positiva sul ruolo dell’educazione per la mobilità sociale[112]; anzi pare sostenere apertamente che l’educazione ha un peso limitato. è evidente che la questione è, dal punto di vista degli studi condotti, non suscettibile di facili conclusioni. Ricerche del passato hanno analizzato l’effetto paralizzante della disoccupazione intellettuale[113] mentre una linea di ricerca si è concentrata sulla demitizzazione di una semplicistica lettura funzionale dell’educazione[114].

La ricerca i cui esiti sono riassunti nel Capitolo 4 e nell’Appendice tecnica si inserisce, quindi, in un’area quanto mai problematica. Per questa ragione sarebbe interessante che si aprisse un confronto e un dibattito tra economisti e sociologi che si occupano di stratificazione sociale per un approfondimento urgente data la criticità della mobilità sociale e del livello di inuguaglianza[115] raggiunto nel nostro Paese. In entrambi i casi sono in gioco le politiche complessive perseguite, ma l’analisi del ruolo dell’educazione, per quanto marginale possa essere, diventa cruciale per definire lo scenario dell’azione di chi nella scuola o per la scuola lavora.

Data la complessità dei processi di mobilità sociale e di andamento dell’ineguaglianze potrebbe risultare ragionevole riportare l’attenzione sui valori dell’educazione più che sulle ricadute occupazionali, professionali o di status[116]. Peraltro anche il significato che Paola Mastrocola attribuisce ad una buona scuola riguarda l’accesso alla cultura, la coltivazione dei progetti personali e il rispetto per le scelte di ciascun soggetto. Una linea di riflessione che permette di recuperare il significato dei pilastri del modello classico di istruzione nel nostro Paese e contenere la funzionalizzazione mercantile dei percorsi scolastici o irrealistiche attese di mobilità in un sistema da tempo in blocco.

 

8.     Spunti per la riflessione e per l’azione

Accantonando la contrapposizione desueta di prospettive tra conservatori e progressisti e le controversie scatenate, nel volume si rintracciano spunti per la riflessione e per l’azione[117], contrariamente a letture frettolose comparse. Un nuovo pragmatismo è possibile, basato su evidenze, alleggerito degli appesantimenti ideologici e veramente orientato alla “scuola dei cittadini” di cui parla Paola Mastrocola. In relazione ad alcuni dati di partenza: il declino dei livelli di conoscenza o il non miglioramento nel corso degli ultimi venti anni, la non trasparenza dei titoli di studio e il loro non riconoscimento nel mercato del lavoro, il dilemma dell’equità e della selezione[118]

 

8.1 L’offerta formativa

 

Il Piano dell’offerta formativa è uno dei pilastri del modello di autonomia delle scuole varato venti anni fa nel nostro Paese[119]. L’idea era di promuovere la progettualità delle singole scuole, in termini di contestualizzazione dei programmi nazionali di insegnamento; si è tradotta nell’esplosione dei progetti più vari per caratterizzare la singola istituzione[120], nella spinta indiretta alla competizione tra le scuole e con il rischio reale di ridimensionamento dei compiti di base della scuola[121] senza tener conto delle condizioni, come si usa dire oggi, di fragilità delle singole istituzioni. L’obiettivo era l’arricchimento della proposta formativa non certo il suo impoverimento. Purtroppo la cornucopia delle opportunità offerte non si è tradotta in evidenti miglioramenti della preparazione degli studenti, rimasta sostanzialmente stabile, come abbiamo visto, tra il 2000 e il 2015 in lingua e in scienze.

Considerati i fallimenti registrati è ancora attuale quella impostazione? La deriva mercatistica o aziendalistica ha rigenerato le scuole? La responsabilità della singola scuola può esaurirsi rispondendo ai propri clienti a cui propone la Carta dei servizi? A queste domande pertinenti, in attesa di risposte, si potrebbe dare seguito con una ridefinizione dei fondamentali dell’offerta formativa. Nulla vieta, tuttavia, che venga rivisitata l’idea originaria e corretta la direzione operativa, con il recupero dei contenuti considerati indispensabili.

8.2 Le dispersioni

La convenzionale definizione della dispersione come uscita dalla scuola senza il completamento del percorso quinquennale copre solamente una parte di un complesso sistema di processi. Per la scuola media che riduce le bocciature e che in realtà sposta il problema (“…non li ha bocciati: la ha salvati prima facendoli fallire poi” p.96) si è parlato di selezione differita.[122] Nel volume ci sono richiami alle forme implicite di dispersione quali il non raggiungimento dei livelli di preparazione attesi pur con il conseguimento del diploma formale[123].

Seguendo gli itinerari reali degli studenti e delle studentesse si incontrano, come viene richiamato nel testo, abbandoni dei percorsi scelti con l’approdo ad altri (la mobilità è quasi sempre unidirezionale). Alla radice ci sono certamente le condizioni di assenza di verifica preventiva di capacità rispetto ad un percorso di studi, la propensione dei genitori verso traguardi non verificati e l’indifferenza diffusa tra i docenti.

Alla base tuttavia a determinare ri-orientamenti e cambi di indirizzo è la mancanza di una adeguata preparazione (“non hanno le basi”). Per uno studente o una studentessa con una adeguata preparazione la dispersione è un’ipotesi improbabile. Su questo tema si evidenzia come la scelta della scuola media unica non sia stata accompagnata da un coerente sistema di strategie per assicurare i traguardi previsti. L’abolizione dei percorsi più professionalizzanti come l’avviamento professionale o la sottovalutazione della formazione professionale ha impoverito il sistema di opportunità.

La dispersione, pur celebrata nel dibattito e nella retorica politica per decenni, rimane un nodo irrisolto del nostro sistema scolastico ampiamente esaminato e documentato, ma non aggredito all’origine e, quindi, mai adeguatamente affrontato[124].

8.3 L’orientamento e il riorientamento

 

Per chi riconosce la scuola dall’interno non è difficile capire le posizioni di una ex docente di letteratura al liceo. La funzione dei giudizi di orientamento al termine della scuola media non sembrano essere efficaci se si considerano le percentuali di bocciati al termine del primo anno delle superiori[125], anche per la poca fiducia delle famiglie nei professori, per il prevalere del peso dell’immagine (“mio figlio deve fare il liceo”), per l’assenza di un vero e proprio accertamento dei requisiti e per la percezione negativa della filiera professionale che, nell’attuale sistema, vede la performance dei propri studenti decisamente distanti dai coetanei dei percorsi generalisti liceali.

Mastrocola ricorda dalla propria esperienza aneddoti di studenti liceali che abbandonano perché non in grado di reggere l’impegno e individua le cause nella mancata preparazione negli anni di scolarità precedente. Commenta questi processi non inusuali con affermazioni di principio: “dovremmo rendere tutti in grado di fare la scuola che vogliono” (p.22) e la scuola lo deve rendere possibile.

In questo la scrittrice colpisce nel segno. Nel nostro sistema di istruzione i diversi percorsi scolastici a livello di scuola secondaria superiore sono tracciati per livelli di abilità[126]. Questa strutturazione è, alla radice, una potente, e diremmo irresistibile, fonte di iniquità. In un rapporto OECD relativo a PISA 2012 si legge: “School systems that make less use of stratification – separating students into different schools,’tracks’ and grade levels according to their ability or behaviour – show greater equity in education opportunities and outcomes”.[127]

 

8.4 La doppiezza e le finzioni

Non si può non concordare con la denuncia, da parte degli autori, della grande macchina della finzione legata alla valutazione scolastica, ai diplomi terminali e, in generale, alla promozione sociale[128]. Il filosofo Guido Calogero parlava, a proposito dei caratteri italiani, della “incommensurabile capacità di vivere sulle finzioni…». Molto lavoro è stato fatto fatto e molte energie sono state impiegate, negli anni, per regolare la valutazione degli studenti, con moduli e formule variabili nel tempo e con prescrittive certificazioni di competenze. E’ ormai ampiamento documentato il divario tra gli esiti delle valutazioni scolastiche e i risultati, implacabili, delle prove standardizzate, nazionali e internazionali, così come la permanenza di quote stabili non limitate di studenti e studentesse senza le competenze considerate necessarie o presupposte. Il non allineamento tra i risultati di test e i punteggi dell’esame di Stato[129], in particolare, sembra evidenziare un modello culturale incorporato nelle concezioni dell’insegnamento, sia dei docenti sia delle famiglie, e radicato nella storia della nostra scuola[130]. Questo divario genera delle distorsioni sostanziali nella percezione della qualità dell’esperienza scolastica, non viene scalfito dalle modifiche del regime formale di valutazione e condiziona ogni tentativo di riconoscimento del merito.

La finzione si incunea anche nell’impianto delle opportunità formative. Dietro il proliferare dei “surrogati” (p.128) del liceo ci può essere un “imbroglio”(p.128) perché non si fornisce un’informazione completa alle famiglie sulle conseguenze di lungo periodo delle scelte che si compiono o un “gioco di prestigio” (p.129) per abolire le difficoltà fornendo percorsi meno impegnativi.

L’equilibrio della finzione dura nel tempo, come richiamano gli autori, con la condivisione degli studenti, meno esposti al trauma delle bocciature, l’assenso dei genitori, spesso accontentati dal riconoscimento formale più che sostanziale, l’accettazione dei docenti succubi delle attese consolidate e il clima generale di assuefazione. La produzione e disseminazione di dati valutativi relativi alle competenze di studenti e studentesse e il loro periodico aggiornamento non sembrano scalfire il contratto sociale non scritto che annulla ogni pretesa di trasparenza, genera inevitabilmente delusione e compromette la missione della scuola.

é naturale domandarsi se possiamo permetterci di continuare su questa strada.

8.5 La “maturità farsa”

La finzione raggiunge il culmine con l’esame di Stato, un appuntamento ogni anno per qualche centinaia di migliaia di studenti e studentesse. Come annota Luca Ridolfi l’esame di maturità, al di là dei risultati e della sua inutilità sottolineata da molti osservatori, mantiene nel tempo una elevata risonanza emotiva per gli studenti, come testimoniano i candidati ad ogni tornata annuale.

L’irresistibile tentazione di lasciare un segno ha spinto ogni ministro a introdurre variazioni procedurali (composizione delle commissioni…), aggiustamenti delle prove, riconoscimenti di esperienze non scolastiche[131]. Con il tempo l’inflazione (grade inflation) ha portato le percentuali di riuscita a rasentare la totalità dei candidati[132]. Ogni anno l’esame, così, si traduce in un rituale, di costo molto elevato, che non risponde all’esigenza di mettere in evidenza le capacità acquisite dagli studenti secondo criteri di validità, di attendibilità e di accuratezza senza fornire garanzie per chi accoglie gli studenti nell’istruzione superiore. Una farsa, a cui tutti sembrano assistere impotenti (p.68) per un titolo di cartapesta[133].

I tentativi compiuti di verificare con una seconda analisi delle prove hanno confermato il basso livello di performance, documentando la distanza tra i punteggi delle commissioni e i risultati di un’analisi strutturata; non è entrata strutturalmente e non ha avuto conseguenze[134], così come la predisposizione di schede orientative per la valutazione delle prove non sembra modificare gli esiti[135] mentre la terza prova, ora abolita si è rivelata contraddittoria.

La responsabilità per le certificazioni non corrette rilasciate con i diplomi rimane ancora un terreno inesplorato pur in un contesto di universale attenzione alla trasparenza dell’azione pubblica.[136]

8.6 Il prezzo pagato per il danno

Nel sottotitolo del saggio si parla di danno scolastico e nel testo di “pagato a caro prezzo” (p.11). I due autori esprimono, peraltro, anche sentimenti di vicinanza e solidarietà verso “coloro che hanno pagato a caro prezzo i cambiamenti della scuola e dell’università” (p.11) con la necessità di porgere “infinite scuse ai ragazzi e alle loro famiglie” (p.23). Sull’ambivalenza della scuola nel coltivare talenti e nello spegnere interesse e motivazione l’attenzione non è mai abbastanza[137] e anche nel saggio c’è un richiamo che ricorre ai pochi studenti non travolti dal declino. Solo una visione ipocritamente irenica può consentire di dipingere i benefici della scuola ripetendo retoriche correnti ma dimenticandone i malefici. Una “scuola facilitata” non sembra rispecchiarsi nella percezione degli studenti che nella scuola frequentata non si sentono felici in misura superiore ai valori medi dei paesi OECD e che frequentano con minor frequenza[138]. Per vari aspetti non si tratta solo di ‘tempo sprecato’ o di ‘studenti in credito’, bensì di veri e propri ‘danni’ causati dalla scuola.

Il punto di vista dei ceti popolari sembra oggi essere naufragato nelle generiche categorie delle povertà e fragilità educative[139], o nella ricerca dei salvifici patti territoriali di comunità, in entrambi i casi in direzione diversa dalla rifondazione del pensiero e della cultura di scuola. Dietro le fragilità interessa ancora il tema dei “ceti popolari” o è espressione che appartiene al lessico del Novecento?

 

9.     E oggi, che fare?

 

L’assuefazione al fallimento scolastico non appartiene alla mentalità dei due autori e alla loro cultura[140]. In numerosi paragrafi affiora la voglia di non adattarsi e di riprendere in mano i problemi. La sensazione di pessimismo strisciante che la lettura di alcune pagine alimenta (“il mondo della scuola e dell’università… del resto va dove gli pare”, p.11), non cancella il desiderio di ripartire. Di fronte all’alternativa “perseguire imperterriti” o “riscattarci” Paola Mastrocola confessa che “ho come l’impressione che abbiamo già scelto” (p.173), ma, quasi correggendosi, indica chiaramente la via del cambio di rotta nel “… riconoscere l’errore. E cercare di riscattarci, ripensando la scuola da zero e ricostruendola, pezzo per pezzo” (p.173). Dopo la provocazione e l’analisi si arriva al bivio: da un lato adattamento e inerzia, dall’altro ripensamento e riedificazione[141].

9.1 Il rischio della paralisi

In altra forma Paola Mastrocola e Luca Ricolfi continuano nel saggio la riflessione critica sulla scuola già espressa nei loro contributi precedenti. E’ inutile cercare un capitolo di indicazioni per uscire dalla catastrofe e per riparare il danno o, perlomeno, impedirne la continuazione. C’è, tuttavia, un’oscillazione tra la constatazione che è troppo tardi, l’affermazione della provocazione necessaria e l’appello finale ai genitori perché si ribellino. Così si può sottolineare la chiara presa di posizione dei due autori, non in linea con quel silenzio degli intellettuali che è stato notato a proposito delle vicende della scuola[142].

Il senso dell’inevitabilità di una catastrofe che come uno tsunami distrugge la scuola, oscura la valenza dell’estensione della scolarità comunque realizzata negli anni e non rende certamente ragione degli sforzi che pur si sono fatti per il miglioramento del sistema scolastico. La provocazione ha una sua funzione per il risveglio della consapevolezza ma rischia di arenarsi se non si aggancia a movimenti reali di inversione di rotta. L’invito pressante ai genitori, contenuto nella firmata da Paola Mastrocola è sicuramente di interesse, ma forse sottovaluta che padri e madri, attivi nella protezione dei propri figli e nei ricorsi giudiziari, sono parte del problema, come peraltro viene detto in vari passaggi nel testo. La pressione per l’iscrizione ad una scuola ambita e, più in generale, l’incultura spesso alla base delle attese e delle richieste più frequenti, riflette la sottomissione al declino in atto, alimentata anche dalla competizione tra le scuole. Gli insegnanti, possibili attori di un rovesciamento della decadenza, sono frenati dall’adattamento salvo esigue minoranze.

Si direbbe che si è alla paralisi, lucida e consapevole, ma inerte, nonostante i “buoni risultati editoriali” e la “rilevanza nel dibattito pubblico” del saggio di Mastrocola e Ricolfi[143].

Avviene così che dopo oltre dieci anni i programmi nazionali attendono di essere riscritti, gli esami non sono ripensati e riformati, le potenzialità delle informazioni esistenti per il learning analytics[144] non sono colte, le procedure di passaggio non vengono riviste e il condizionamento sociale non viene mitigato imparando dalle  che sanno fare la differenza.

Decenni di studi hanno variamente sondato il mondo dell’insegnamento, le metodologie più appropriate, i fattori di maggior impatto[145] aprendo la blackbox della scuola e della classi. Alla parafrasi, al tema, allo studio individuale, alla lezione frontale si possono aggiungere altre pratiche didattiche che si sono dimostrate proficue e che costituiscono ormai un bagaglio a disposizione di chi sceglie di spendersi professionalmente nell’insegnamento. Non sono le avanguardie autodefinitesi tali o le pedagogie approssimative e di chiacchiericcio a rappresentare il futuro, bensì una ragionevole conoscenza delle soluzioni efficaci per l’apprendimento al di fuori di ogni contrapposizione preconcetta.

Sarebbe un errore, e un peccato, fermarsi alla ricostruzione del passato e all’analisi puntuale senza cogliere spunti per il contrasto al decadimento svelato della scuola. Si rischia l’effetto placebo di una rinnovata consapevolezza senza alcuna ricaduta terapeutica sui mali denunciati.

9.2 “Ricostruire pezzo per pezzo”

Si può certamente concordare con Mastrocola e Ricolfi sul fatto che sia troppo tardi per porre rimedio al danno ormai causato da una scuola non all’altezza del compito per i “ceti popolari”. Purtuttavia sono da esplorare soluzioni praticabili per il futuro, accennate nel testo, sostituendo alla contrapposizione ideologica un approccio più bilanciato.

Una prospettiva radicata nella tradizione, pur rimettendo al centro i fondamentali della cultura[146], deve affrontare la scolarità di massa a livello secondario e l’aumento della percentuale di laureati nella popolazione con una maggior attenzione all’interazione con gli studenti e la loro benessere[147]. L’impostazione liberale o neo-liberale può assicurare spazi di scelta e valorizzazione del talento ma deve evitare la concezione mercantile soggiacente al modello dell’offerta formativa. In entrambi i casi, comunque, occorre fare i conti con la realtà delle culture professionali estese, degli studenti appartenenti alla “classe signorile di massa” e alla scomparsa dello studio di cui i due autori hanno scritto pagine vibranti in altri testi[148].

Una filosofia ispirata al progressismo va incontro a nodi di difficile scioglimento, come la distanza tra gli ideali proclamati e le pratiche reali o la svalutazione dei nuclei centrali della preparazione culturale. In un sistema imperfetto, come quello scolastico, le grandi scelte filosofiche devono inverarsi in realtà confuse, intrecciate e talora indecifrabili, capaci di permanere anche con l’alternarsi di governi di destra a governi di sinistra. L’assenza di soluzioni risolutive a molti problemi di scuola non impedisce una ragionevole prospettiva per lavorare se non al loro superamento al contenimento dell’impatto più devastante e per moltiplicare le esperienze di “crepa salvifica” (p.88)[149]. Non ci sono riforme per quanto invasive (“sottomissione alla macchina infernale delle riforme” p.227) capaci di rigenerare l’intero sistema ma ci sono prove di resistenza attiva, di miglioramenti settoriali, di progressi graduali e di inversioni parziali di rotta rispetto al declino. Un modello ibrido che prenda pragmaticamente il meglio delle tradizioni, quella progressista e quella conservativa, ben sapendo che l’approccio centrato sullo studente, di nobili origini deweiane, non può essere assoluto nel senso che c’è un programma da svolgere e che l’insegnante non è sostituibile; e che, d’altra parte, la centratura sull’insegnante deve misurarsi con la motivazione e l’adesione degli studenti, oggi non più garantite come in passato.

Per uscire dall’inerzia perché non accogliere l’alternativa menzionata da Paola Mastrocola prendendo di petto i singoli problemi e lavorando attorno ad essi “pezzo per pezzo”(p.173)? Nel saggio non mancano temi prioritari su cui concentrare la riflessione e l’azione senza cadere nella trappola di una nostalgia deprimente e deludere ulteriormente quella scuola che “dopo aver subito le riforme più assurde e le mode più improbabili” (p.227) oggi però “è attraversata da dubbi e ripensamenti” (p.227).

  1. Riaccendere negli insegnanti la passione spenta nel “deserto culturale prodotto dalle riforme e dall’ideologia che le ha accompagnate” (p.227) è oggi possibile perché ci sono docenti che “stanno cercando di cambiare le cose” (p.227). Sono da rivedere le premesse dei processi di selezione e reclutamento al centro della decisione politica di fronte al precariato. Invece di perdersi in contrapposizioni ideologiche o in dissertazioni metodologiche senza fine si potrebbe recuperare un approccio pragmatico in cui le scelte tra le soluzioni operative presenti nel patrimonio professionale dei docenti, siano compiute con riferimento alla loro validità evidenziata sul campo e alla loro praticabilità[150]. Dalla lezione frontale ostracizzata alla didattica digitale messa al bando, la discrezionalità dei docenti può assicurare le scelte più opportune e irrobustire il profilo professionale di chi decide di dedicarsi all’insegnamento.
  2. L’adozione del punto di vista dei “ceti popolari”, che è uno dei motivi dominanti del saggio, è senza dubbio la migliore garanzia rispetto alla persuasione ideologica e alla mancanza di evidenze che è dietro molte opinioni, anche metodologiche e didattiche, sulla scuola[151]. Paradossalmente è questa anche l’ottica dell’abate di Barbiana anche se è tempo di chiedersi, come indirettamente fanno i due autori del saggio, quanto di significativo quel celebrato manifesto abbia prodotto nella scuola italiana proprio sotto il profilo dell’equità. L’utilizzo, peraltro, dei dati forniti dall’Invalsi[152] e dall’ISTAT nel test dell’ipotesi è un’indiretta conferma delle potenzialità delle basi nazionali di informazioni oggi esistenti a cui vanno aggiunti i risultati delle indagini comparative internazionali. La messa a fuoco delle misure di impatto dei fattori socio-economici sui risultati scolastici (studenti resilienti, peso dei fattori socio-economici sui risultati, variabilità di risultati tra le scuole e tra le classi, misura del valore aggiunto..) è la premessa, praticabile, per tener sotto controllo e monitorare sistematicamente il destino degli studenti di “ceti popolari” in un Paese capace di sopravvivere ai dati laceranti del programma PISA. E su questa lettura costruire strategie di intervento.
  3. La revisione e il rilancio delle politiche di sostegno a studenti “capaci e meritevoli” richiedono politiche comprensive di diritto allo studio (borse di studio, revisione del regime delle lodi all’esame di Stato, potenziamento dell’intervento sulle eccellenze, gratuità dei libri di testo nella scuola media, previsione di nuovi interventi a inizio di anno scolastico[153], consolidamento del bonus cultura, aree a forte processo migratorio e criminalità organizzata, bonus docente/carta del docente, fondi per l’inclusione, gratuità delle mense e dei trasporti). Queste misure devono accompagnare interventi per accrescere il numero di studenti “capaci e meritevoli” e rientrare in un ripensamento metodologico centrato sulle funzioni dell’apprendimento a scuola.
  4. Al ‘promuovere tutti’ si può sostituire una strategia articolata. Superare la non trasparenza delle votazioni,[154] rendendo più attendibili i giudizi e i voti (qualunque sia la formula scelta) dei docenti, creando un sistema di moderazione delle valutazioni, accompagnando le valutazioni dei docenti con risultati di test (nelle forme più evolute delle impostazioni docimologiche) è una strada percorribile. Prendere sul serio la ‘promozione sociale’ soprattutto nel primo ciclo cercando di avere a riferimento il progresso di ogni singolo/a alunno/a e passare progressivamente ad una valutazione selettiva nel secondo ciclo è una ipotesi di lavoro praticabile. Così si può cominciare a contrastare l’”indulgenza valutativa” di cui pecca la nostra scuola.
  5. I Programmi possono essere riscritti superando l’erosione e l’alleggerimento avvenuto, con maggior precisione e determinazione e, soprattutto, rendendo prescrittivi alcuni contenuti (ortografia e grammatica, saper scrivere…) e pregnanti alcuni altri come lo studio individuale o la conoscenza dei classici senza esclusioni. Riscrivere i programmi di insegnamento può essere una grande operazione di rigenerazione culturale della scuola mettendo alla prova gli intellettuali del Paese e adottando strategie di management adeguate alla complessità dei processi coinvolti. Potrebbe essere questa la strada per definire la cornice entro cui collocare, e dimensionare, le proposte particolari continuamente formulate nel dibattito politico e culturale, senza smarrire il senso della direzione.[155].
  6. Il bilancio dopo venti anni dell’autonomia delle scuole non è esaltante sia per la sostanziale stabilità dei livelli di riuscita degli studenti sia per il divario che permane tra le scuole in termini di preparazione degli studenti. Nella prospettiva di una revisione dell’autonomia scolastica l’idea del piano dell’offerta formativa dovrebbe essere rivista uscendo dall’illusione che ogni singola scuola possa avere una proposta significativamente diversa dalle altre (se non per aspetti marginali diventati marker di svolta) irrobustendo la dimensione culturale della scuola, riconducendo ad una sana competizione il marketing delle scuole, riscoprendo la filosofia del “non per profitto” e ricorrendo a scelte drastiche per le scuole in difficoltà che negli anni non migliorano.
  7. I passaggi da un segmento all’altro sono spesso la trappola in. cui cadono genitori e studenti. Rivedere i giudizi di orientamento dei docenti, prescrivere la verifica di competenze per accedere ai singoli percorsi di istruzione secondaria, aiutare gli studenti a verificare le proprie capacità in relazione a quelle attese per una determinata scelta di studi sono indicazioni di lavoro. Nel medio e lungo periodo è evidente che occorra attenuare la stratificazione sociale ed economica dei percorsi di scuola superiore, partendo dal riconoscimento della qualità negli istituti tecnici da cui anche provengono studenti con “voti alti” come Luca Ricolfi riconosce (p.32).
  8. La riarticolazione dell’esame di Stato conclusivo del secondo ciclo attorno all’obiettivo di recuperare validità, attendibilità e accuratezza può incontrare le attese di molti, esperti, genitori, insegnanti e studenti. Più che rincorrere un impossibile ritorno al passato sono da esaminare soluzioni alternative, anche guardando a quanto succede altrove[156], per distinguere tra la documentazione formale di un percorso compiuto e la verifica puntuale delle competenze nelle specifiche discipline.
  9. La lettera a un genitore di Paola Mastrocola a conclusione del saggio potrebbe apparire ingenua tenendo conto che madri e padri sono parte in causa dell’andamento (ricorso ai diplomifici, sostegno alle lezioni private, contrasti giudiziali contro le valutazioni, difese ad oltranza dei propri figli, affascinamento di fronte alle vetrine delle scuole…)[157]. In realtà la missiva apre uno scorcio nel paesaggio scolastico incrostato sugli schemi corrosi dal tempo della partecipazione sociale. Senza alcun dubbio corretto è il punto di partenza: ogni genitore ci tiene all’educazione dei propri figli a prescindere da come esprime questa preoccupazione[158]. Purtroppo molta parte dell’interazione collegiale riguarda aspetti organizzativi o funzionali della scuola, importanti ma estranei per lo più dal cuore del problema. Il dialogo con i genitori è da rivedere e da ricostruire, disboscando procedure pesanti e improduttive.
  10. L’appello alla scuola dei cittadini, oltre il bla bla bla politico e istituzionale, non è un esercizio retorico. é un ritorno per il Paese al senso della scuola che può aiutare a vedere i limiti delle scelte compiute in passato anche in nome del bene comune, come la scuola media unica o l’apertura dell’ingresso all’istruzione superiore senza misure di garanzia e a discutere di opzioni esercitate in risposta ad una pluralità di motivazioni come la riforma della scuola dei moduli. Scrive Mastrocola rivolgendosi ai genitori “la scuola non è dei ministri, dei funzionari, dei pedagogisti, degli insegnanti, dei presidi”. Al contrario “la scuola è nostra, è di tutti, è ciò che costruiamo tutti insieme, noi cittadini di questo paese nonchè cittadini del mondo” (p.229).

In questa prospettiva non sarebbe del tutto errato prestare attenzione ai tentativi, alcuni falliti, alcuni riusciti a metà, altri portati a termine, e ascoltare altre voci[159] per condividere lo sforzo in atto da parte di vari soggetti per migliorare la scuola, cioè per quella scuola democratica capace di assicurare pari opportunità al di là della retorica politica, del confronto ideologico e dei fallimenti del passato. Solo in questa direzione e con un lavoro conseguente agli spunti contenuti nel volume, Il danno scolastico potrebbe, in avvenire, essere accostato, con le sue affermazioni spiazzanti (p.210) e senza presunzioni irrealistiche, alla Lettera ad una professoressa e alla sensibilità che il manifesto dell’abate di Barbiana ha contribuito a generare e alla mobilitazione cognitiva a cui ha costretto il sistema scolastico del nostro Paese nei decenni passati. Da questo punto di vista la fatica di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi non è solo un atto di testimonianza (p.11) come da loro scritto, né un mero gesto polemico di provocazione come da altri interpretato, né uno atteso appello nostalgico al passato, peraltro rifiutato dagli stessi autori (p.11). Un libro comunque non evitabile[160].

[1] Per una fotografia di sintesi della situazione italiana cfr. MIUR, Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa. Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa, MIUR, Roma 2018 pp.7ss. Per una sintesi delle tendenze nella performance in comprensione della lettura, in matematica e nelle scienze degli studenti quindicenni italiani tra il 2000 e il 2018 cfr. OECD, PISA 2018 Results (Volume I): What Students Know and Can Do, OECD, Paris 2019 p.304.

[2] Invalsi, Rapporto nazionale 2019, Invalsi, Roma 2019, p.31.

[3] Cfr. The Global Social Mobility Report 2020 Equality, Opportunity and a New Economic Imperative, www.weforum.org.

[4] World Inequality Report 2022 del World Inequality Laboratory (WIL), https://wir2022.wid.word. Per la verità Ricolfi in La società signorile di massa (2019) sospende il giudizio sulle disuguaglianze nella società italiana (p.231).

[5] Così l’autrice definisce (p.87) La scuola raccontata la mio cane, Guanda, Parma 2004; Togliamo il disturbo, Guanda, Parma 20011; La passione ribelle, Laterza, Roma-Bari 2015. A questi volumi è da aggiungere il romanzo Una barca nel bosco (Guanda, Parma 2004), una metafora per raccontare le vicende scolastiche di uno studente di talento fuori luogo in un contesto di indifferenza.

[6] Gli altri due pilastri sono la ricchezza accumulata nelle generazioni precedenti e la creazione di una “infrastruttura schiavistica” fatta di occupazione in “posizioni sociali infime” (Ricolfi, 2019, pp.47ss). Per una presentazione del volume di Luca Ricolfi cfr. www.mariogiacomodutto.it.

[7] Cfr. Marco Campione (Il danno scolastico. Appunti per una possibile recensione, www.gessetticolorati.it) secondo cui il libro “trasuda disprezzo per chiunque non sia simile agli autori… e per chi ha provato, fallendo …, a costruire una scuola veramente democratica negli ultimi sessant’anni” e “… si auto definisce ‘ricerca’, ma di scientifico non ha nulla”, con “dati buttati lì a caso e spacciati per ricerca”. Critici i termini a cui ricorrono, al di là delle valutazioni espresse, Gianluca Argentin e Orazio Giancola nel recensire il volume di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi “Perché un brutto libro fa parlare di sé (e fa danni)”, L’indice dei libri del mese, 4 gennaio 2022.

[8] Si veda Pino Salerno, Il libro di Ricolfi e Mastrocola, un danno per il lettore e per la verità, 26 ottobre 2021 www.articolo33.it. Massimiliano De Conca, L’elogio della scuola reazionaria; quello che non vogliamo, Articolo 33, 8 novembre 2021. Christian Raimo e Vanessa Roghi parlano di “quantità di informazioni false, di argomentazioni fallaci” e di una “ideologia reazionaria che trasuda” in Il danno scolastico. Ne fa più la scuola democratica o certi libri di Paola Mastrocola e Luca Ricolfi? (minima&moralia, mercoledì, 17 Novembre 2021).

[9] Nel suo dialogo con Christian Raimo, Vanessa Roghi scrive: “… abbraccio pienamente quanto ha scritto Roberto Maragliano: questo libro dà voce alla parte più oscura dell’inconscio scolastico, alla frustrazione senza ragionamento che colpisce chi, da sempre, si sente svalutato, messo in discussione socialmente, bistrattato e come lo fa? prendendola con le riforme, attribuendo a un elemento esterno le ragioni del proprio fallimento didattico” e condivide la riflessione di Stefano Modeo che parla della “morte dell’umanesimo. Si nasconde sotto calcoli e statistiche, tende a semplificare anziché sondare la complessità” (minima&moralia, mercoled’ 17 novembre 2021).

[10] In questa ottica, ad esempio, Pietro Savastio scrive che “la pedagogia tradizionale della quale gli autori invocano il ritorno è, nostro malgrado, viva e vegeta” perché una vera scuola progressista e democratica (“in senso freinetiano”) non si è mai realizzata (La scuola che non c’è. jacobinitalia.it, 2 dicembre 2021). Si veda anche il commento di Alfonso D’Ambrosio che condivide la necessità di ”ricostruire la scuola pezzo per pezzo” ma con materiali nuovi che non sono quelli della vecchia scuola né quelli degli innovatori improvvisati (Orizzontescuola.it, 9 novembre 2021). Maria Grazia Fornaroli che critica gli autori per l’assenza di una pars construens e per la non attenzione alle eccellenze presenti nel sistema scolastico italiano (“Scuola/Non solo danno scolastico: le 4 amnesie di Mastrocola e Ricolfi“, Il Sussidiario 1 dicembre 2021). Sergio Bianchini indica negli insegnanti il fattore critico della scuola (“SCUOLA/ Il vero danno scolastico è il “reclutamento di cittadinanza”, non don Milan”, Il Sussidiario, 3 dicembre 2021. Cfr. anche Francesco Provinciali,”Se l’insegnamento scade a servizio sociale a subirne il danno sono i ragazzi. Mastrocola e Ricolfi dialogano sulla crisi della scuola” (Il domani d’Italia, 6 dicembre 2021) e Vincenzo Sorella, Un libro discutibile. Mastrocola e Ricolfi: qual è il vero danno scolastico? in www.doppiozero.com. Saul Meghnagi, “Recensione del libro di Paola Mastrocola, Luca Ricolfi.Il danno scolastico. La scuola progressista come macchina della disuguaglianza”, education2.0, 22 dicembre 20021.

[11] Cfr. Paolo di Paolo, “Cara scuola progressista, quanti danni hai fatto”, La Repubblica, 13 ottobre 2021.

[12] “I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”, art. 34 della Costituzione italiana.

[13] Vedi qualche riflessione preliminare sull’art.34 della Costituzione in www.mariogiacomodutto.it

[14] Numerosi gli interventi critici sulla scuola di giornalisti e intellettuali nell’arco di tempo compreso tra il 2007 e il 2012. Cfr. Marco Imarisio, Mal di scuola, BUR Milano 2007; Giovanni Floris, La fabbrica degli ignoranti. La disfatta della scuola italiana, BUR, Milano 2009; Mario Giordano, Cinque in condotta. Tutto quello che bisogna sapere sul disastro della scuola, Mondadori, Milano 2009. Piero Dorfles, Il ritorno del dinosauro Una difesa della cultura, Garzanti Milano 2012. Autore di La scuola sospesa. Istruzione, cultura e illusioni della riforma (Einaudi, Torino 1997) Giulio Ferroni, ritorna sul tema con Una scuola per il futuro (La nave di Teseo, Milano 2021).

[15] Cfr. I ricordi di scuola di Dacia Maraini, La scuola ci salverà, Solferino Milano 2021 pp.69ss..

[16] Il tema della disuguaglianza e dell’iniquità al centro delle argomentazioni di Mastrocola e Ricolfi tocca un’area di grande rilevanza e di elevata attenzione nell’ultimo decennio da parte di economisti come Joseph E. Stiglitz, The Price of Inequality. How Today’s Divided Society Endangers Our Future (W.W.Norton & Company, New York 2012) e Anthony B. Atkinson (Inequality What can be done, Harvard University Press, Cambridge Mass. 2015).

[17] Certamente il volume interpreta la sfiducia e la stanchezza di insegnanti esasperati dai cambiamenti per decisioni di riforma e per la pesantezza della compilazione di moduli e della partecipazione rituale a riunioni. In questo, tuttavia, non esaurisce l’orizzonte del saggio.

[18] E’ da notare che si ritrovano termini di vecchio conio “I poveri (gli umili, gli svantaggiati. i ceti meno abbienti (p.20) la classe medio-bassa (p.19).

[19] Paola Mastrocola, “Ipotesi sulla disuguaglianza”, Fondazione.Hume.it 19 ottobre 2017 https://bit.ly/3zFOpvu).

[20] Sul declino della scuola italiana cfr., tra gli altri, la ‘storia di una scomparsa’ tracciata da Adolfo Scotto di Luzio in La scuola degli italiani (Il Mulino Bologna 2007). Sul tema della distruzione della scuola italiana cfr. Ernesto Galli della Loggia (L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019) e la ricostruzione storica da parte di Stefano D’Errico, a lungo sindacalista di base, in La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese (Mimesis, Milano 2019). Per questi ultimi due riferimenti cfr. alcuni commenti in www.mariogiacomodutto.it.

[21] Ricolfi ricorda il rientro a Torino nella facoltà di magistero allora, successivamente diventata Scienze della formazione (p.66). Rimane il dubbio se le osservazioni si riferiscono a quel contesto particolare o siano generalizzabili a tutti il sistema universitario. Una ricerca dell’Anvur risalente al 2014 sulle competenze generali degli studenti pone, infatti, gli studenti del gruppo Formazione ai livelli inferiori rispetto a quelli appartenenti ai gruppi disciplinari di medicina, statistica, fisica, matematica e filosofia (Anvur, Le competenze effettive di carattere generalista dei laureandi italiani, Rapporto finale dell’Anvur, Roma 2914 Parte Quarta Tab.4.1).

[22] Il tema della rinascita tramite la scuola è presente nella letteratura. Si veda il romanzo autobiografico, bestseller negli USA, di Tara Westover, Educated, Windmill Books, London 2018 o il più recente Free: the Coming of Age at the End of History, di Lea Ypi (Allen Lane, London 2021.

[23] Ricostruire il passato prestando attenzione ai vissuti personali e collettivi, anche nelle ripercussioni emotive, permette di superare la focalizzazione sulle dimensioni normative, politiche e istituzionali arricchendo, anche dal punto di vista metodologico, la storia della scuola.

[24] Ma “restituire integrità a ciò che succede in classe”, scrive Luca Malgioglio (Gruppo La nostra scuola. Manifesto per la nuova Scuola), è anche una strada da imboccare “per salvare la scuola pubblica” evitando astrazioni ideologiche e “ogni sabotaggio più o meno volontario e consapevole del lavoro degli insegnanti”, Left 19 novembre 2021).

[25] E’ da notare che le esperienze dei due autori, alla base delle rispettive narrazioni, si collocano verso gli estremi di un continuum che vede i licei primeggiare rispetto agli istituti tecnici e professionali, come evidenziano le indagini Invalsi, e, al contrario, alcune facoltà umanistiche lontane da quelle tecnico scientifiche come documenta la ricerca dell’Anvur citata. Rimane l’interrogativo se le osservazioni effettuate in contesti specifici possano, e in quale misura, essere generalizzate per il sistema scolastico e per quello universitario nel loro complesso.

[26] Nonostante la consapevolezza istituzionale del problema (cfr. MIUR, Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa. Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa, MIUR, Roma 2018) e nonostante da oltre ormai 20 anni il programma PISA dell’OECD documenti l’impatto dei fattori socioeconomici sui risultati scolastici (calcolando le percentuali di studenti resilienti, la variabilità dei risultati tra le scuole e tra le classi della stessa scuola, il peso dei fattori di background sui livelli di competenza) le politiche perseguite non hanno raggiunto traguardi significativi. Il tema, richiamato sporadicamente (cfr. Roberto Contessi, Scuola di classe, Laterza. Bari-Roma 2016) sembra essere uscito dall’agenda politica come dimostra la prospettiva neo-funzionalistica del ministro Patrizio Bianchi Nello specchio della scuola, Il Mulino Bologna 2020).

[27] Nella ricostruzione storica delle posizioni sulla questione il rapporto Coleman viene spesso citato come uno degli studi fondamentali . Pubblicato nel 1966 (J.S. Coleman et alii., The Equality of Educational Opportunity Study, U.S. Department of Health, Educaiton & Welfare, Office of Education, National Center for Educational Statistics, Washington D.C. 19666) il rapporto riconduce le disuguaglianze in educazione a fattori tecnici, sociali, economici e istituzionali più che alla qualità della scuola. Per una -introduzione al contesto italiano cfr. Gabriele Ballarino e Daniele Checchi ( a cura di), Sistema scolastico e disuguaglianza sociale. Scelte individuali e vincoli strutturali, Il Mulino Bologna 2006.

[28]Per un’ulteriore definizione del problema cfr. Andreas Schleicher, Una scuola di prima classe. Come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo (Il Mulino, Bologna 2020). L’autore colloca addirittura tra i miti da sfatare quello della ineluttabilità dell’influenza dei fattori socio-economici sui risultati scolastici. Sulla base dei risultati del programma PISA scrive, infatti: “Da un lato, in tutti i Paesi partecipanti all’indagine PISA i risultati nei test sono chiaramente correlati con il background sociale degli studenti e delle scuole; una grossa sfida per gli insegnanti e per gli istituti. Ma, dall’altro lato, la forza del legame tra background sociale e qualità dei risultati nelle prove varia notevolmente fra un sistema educativo e l’altro – a riprova del fatto che risultati bassi non sono inevitabili per gli studenti con svantaggi” (p.53).

[29] Cfr. sulla resilienza degli studenti in svantaggio nei paesi partecipanti OECD, 2018 op.cit. p.95 ss. Secondo il rapporto il raggiungimento del livello del quarto superiore degli studenti in un determinato paese, impresa non facile per studenti in svantaggio, ha un impatto significativamente positivo sulla riuscita successiva all’università e nel lavoro (p.100). Un intero Capitolo (5) del rapporto richiama analisi longitudinali che mettono in evidenza la mobilità educativa e sociale degli studenti resilienti.

[30] Si veda, nella vasta letteratura, Jaap Scheerens, J. e Roel Bosker, The Foundations of Educational Effectiveness. Pergamon Press, Oxford 1997..

[31] Cfr. Tra gli altri, K. Leithwood e K.S. Louis, Linking Leadership to Student Learning, Jossey-Bass, San Francisco (CA) 2012.

[32] Cfr. OECD, Measuring Improvements in Learning Outcomes. Best practices to Assess the Value-Added of Schools, CERI, OECD Paris 2008; Douglas, N. Harris, Value-Added Measures in Education, What Every Educator Needs to Know, Harvard Education Press, Cambridge (Mass.) 2011.

[33] A partire dal 2016 l’Invalsi restituisce alle scuole e all’intero sistema scolastico la misura di valore aggiunto cioè il peso dell’effetto scuola sugli esiti delle prove al netto dei fattori che non dipendono dall’azione di ogni singola scuola (Cfr nota 23)

[34] Secondo Mastrocola “la tesi progressista” indica nelle “origini sociali” “l’handicap più grave, irreparabile, e foriero di tutte le diseguaglianze” (p.88).

[35] Atkinson,op.cit., p.308.

[36] OECD, Equity in Education: Breaking Down Barriers to Social Mobility, PISA, OECD Publishing, Paris, 2018https://doi.org/10.1787/9789264073234-en.

[37] Tutta la storia della scuola è accompagnata da tentativi successivi per spiegare il fallimento scolastico con l’attribuzione a diversi fattori (l’intelligenza, le capacità individuali, il contesto socio-economico…). Spesso si è trattato di opinioni condivise accomunata dalla necessità di fornire un’argomentazione plausibile attorno alla non riuscita a scuola.

[38] Sui fattori che condizionano le performance degli student in difficoltà cfr. OECD, Low-Performing Students Whay They Fall Behind and How to Help Them To succeed, Pisa OECD Paris 2016.

[39] Cfr. lo studio comparative compilato da esperti di vari paesi Shavit, Yossi e Blossfeld, Hans-Peter (A cura di), Persistent Inequality: Changing Educational Attainment in Thirteen Countries, Westview. Press, Boulder (CO) 1993.

[40] Importante è la mobilità in educazione intesa come la probabilità che uno studente raggiunga livelli più elevati di istruzione rispetto ai propri genitori o, più genericamente, all’ambiente familiare di origine.

[41] In tema di mobilità sociale c’è una vasta e storica tradizione di ricerca a partire da Sorokin (1927) con gli studi comparativi di Lipset e Bendix (1959), Erikson e Goldthorpe (1986) ed è ancora oggi oggetto di investigazione scientifica.

[42] Qualche anno fa ha fatto scalpore lo studio di Guglielmo Barone e Sauro Mocetti (La mobilità intergenerazionale nel lunghissimo periodo: Firenze 1427-2011, Working Paper n.1060, Banca d’Italia Roma 2016) che incrociando i registri dei contribuenti di Firenze nel 1427 con quelli del 2011 ha messo in evidenza l’inattesa stabilità nel corso di 584 anni: tre dei primi cinque contribuenti del 2011 discendono da famiglie che già sei secoli prima rientravano nel 7% più ricco della popolazione per reddito e nel 15% più ricco per patrimonio.

[43] Lipset e Bendix (1959), ad esempio, hanno dimostrato come tra il 1900 e il 1939 gli USA, considerato paese ad elevata mobilità, e Inghilterra, ritenuta realtà rigida e classista, presentano gli stessi livelli di mobilità contrariamente a quanto ritenuto.

[44] Per una disanima articolata e critica dell’impatto economico del livello di istruzione formale                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           cfr. W. Norton Grubb e Marvin Lazerson, The Education Gospel. The Economic Power of Schooling, Harvard Education Press, Cambridge (Mass.) 2004.

[45] La disoccupazione intellettuale è stato un tema di ricerca e di discussione nel nostro Paese. Cfr. Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia, Il Mulino, Bologna 1974.

[46] Vedi per la Francia Michel Fize, L’école à la ramasse. L’éducation nationale en faillite, L’Archipel, Paris 2019.

[47] Si veda nel 2017 la denuncia di 600 professori universitari e 85 linguisti della impreparazione degli studenti in lingua italiana con un appello al presidente del Consiglio e alla Ministra pro-tempore.

[48] Si veda il caso di quanto scritto dal filosofo Umberto Galimberti nel 1996: “Ricordo che nel 1976 il linguista Tullio De Mauro, di recente scomparso, aveva fatto una ricerca per vedere quante parole conosceva un ginnasiale: il risultato fu circa 1600. Ripetuto il sondaggio vent’anni dopo, il risultato fu che i ginnasiali del 1996 conoscevano dalle 600 alle 700 parole. Oggi io penso che se la cavino con 300 parole, se non di meno.” (La parola ai giovani: dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Feltrinelli Milano 2018). Affermazioni non supportate da riferimenti precisi alle ricerche citate (risultate inesistenti) e contrastanti, oltre che con il senso comune, con le posizioni di esperti di acquisizione linguistica.

[49] Cfr. Le recensioni di Galli della Loggia, L’aula vuota. Come l’Italia ha distrutto la sua scuola, Marsilio, Venezia 2019; Luca Ricolfi, La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano 2019; e Stefano D’Errico, La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del paese, Mimesis, Milano 2019 in www.mariogiacomodutto.it.

[50] Adolfo Scotto di Luzio, La scuola degli italiani, Il Mulino Bologna 2007 p.11.

[51] Frank Furedi in Wasted. Why Education Isn’t Educating (Continuum, London 2009) denuncia per il contesto inglese la comune posizione dei governi di destra e di sinistra nel considerare l’educazione come un mezzo per raggiungere obiettivi esterni, marginalizzando un approccio basato su conoscenze e contenuti.

[52] Cfr. David Tyack e Larry Cuban, Tinkering Toward Utopia, Harvard University Press, Cambridge (Mass) 1995.

[53] E’ da notare che già oltre dieci anni fa di fronte ai mutamenti, l’attenzione venne posta su come si possa garantire nel tempo la qualità raggiunta. Cfr. Barber, M., Chijioke, C., Mourshed, M, Education: How the World’s Most Improved Schools System Keep Getting Better, London, McKinsey &Company, 2010.

[54] Nell’analisi della scuola e dell’università occorre tener conto della loro composizione. Nella scuola accanto ai licei ci sono gli istituti tecnici e professionali con proprie caratteristiche; così all’università accanto alle facoltà umanistiche ci sono le facoltà scientifiche e i politecnici.

[55] La rilevazione INVALSI segnala al 2019 un elevato numero di studenti che non raggiungono il livello minimo: 35% per l’italiano e 42% per la matematica. Occorre considerare che le prove Invalsi sono universali e riguardano anche studenti che non accederanno all’università (Cfr. Invalsi open).

[56] Le informazioni raccolte attraverso le prove standardizzate dell’Invalsi sono molto numerose. Rappresentativa è la sintesi per il 2019, in epoca pre-Covid, che si legge in un rapporto Invalsi: “Considerando il livello 3 come livello di adeguato raggiungimento dei traguardi delle Indicazioni Nazionali e delle Linee Guida, … al grado 13, la quota di studenti che non arriva al livello 3 è in Italiano del 22% nel Nord Ovest, del 23% nel Nord Est, del 34% nel Centro, del 46% nel Sud, del 50% nel Sud e Isole; in Matematica le percentuali salgono, rispettivamente, al 27%, al 26%, al 43%, al 55% e al 60%”(Invalsi, Rapporto prove Invalsi 2019, Invalsi, Roma p.9).

[57] Cfr. OECD, Low-Performing Students: Whya They Fall Behind and How to Help Them Succeed, PISA, OECD Publishing, Paris 2016, p.43ss http://dx.0rg/10.1787/9789264250246-en.

[58] Si vedano brandelli di vita reale di scuola e di classe in Silvia Dal Pra, Quelli che però è lo stesso, Laterza, Roma-Bari 2011.

[59] Cfr. Nota 44 Si veda l’incipit della Lettera aperta di 600 docenti universitari al Presidente del Consiglio, alla Ministra dell’istruzione e al Parlamento (“È chiaro ormai da molti anni che alla fine del percorso scolastico troppi ragazzi scrivono male in italiano, leggono poco e faticano a esprimersi oralmente. Da tempo i docenti universitari denunciano le carenze linguistiche dei loro studenti (grammatica, sintassi, lessico), con errori appena tollerabili in terza elementare. Nel tentativo di porvi rimedio, alcuni atenei hanno persino attivato corsi di recupero di lingua italiana”).

[60] In un documento ufficiale del Miur che cita il rapporto di Save the Children si legge: “Se si esaminano i ragazzi con i livelli più bassi di competenza nei saperi irrinunciabili della matematica di base e della lettura (low achievers), il 36% dei quindicenni figli di poveri non raggiunge le competenze minime in matematica e il 29% in lettura e comprensione di semplici testi. E, ancora una volta, vi è un forte divario territoriale: i quindicenni con basse conoscenze in lettura e in matematica sono, rispettivamente, il 23% e il 20% ma al Sud sono il 34 % e il 30%” (Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Una politica nazionale di contrasto del fallimento formativo e della povertà educativa Cabina di regia per la lotta alla dispersione scolastica e alla povertà educativa, MIUR Roma 2018, p.9).

[61] In realtà il processo di ‘promozione sociale’ ha inizio ben prima. Negli anni 1970 nelle scuole elementari le percentuali di promossi erano già elevate e limitate le bocciature (mentre nell’anno scolastico 1961/62 la percentuale di ripetenti era del 11,4%, nel 1971/72 scende al 5,9% e nel 1991/92 si riduce allo 0,6%. Nella scuola media i ripetenti erano nel 1961/62 il 12,2%, nel 1991/92 il 6,7% e nel 1998/99 il 4,3% (MPI, La dispersione, Una lente sulla scuola, MPI, Roma 2000). L’esplosione, inoltre, della percentuale di diplomati all’esame di maturità va ricondotta agli anni 1970 (nel 1951/2 i diplomati erano il 71,6% dei candidati, nel 1960/61 il 72,6%, nel 1970/71 il 90,6% e nel 1980/81 il 94,5%) (dati ISTAT 1982).

[62] Sono gli anni in cui si ha una ripresa della matematica, il leggero aumento degli iscritti alle Lauree in matematica, il conseguimento da parte di uno scienziato italiano di una medaglia Field, il Nobel per la matematica, a fronte del crollo di performance di celebrati sistemi scolastici come la Finlandia.

[63] OECD, PISA 2012 Strenghtening Resilience through Education:Pisa Results Background Document, OECD, Paris 2014, p.6.

[64] OECD, PISA 2015 Results (Volume I) Excellence and Equity in Education, PISA OECD Publishing, Paris, 2016.

[65] OECD, PISA 2012 Results: Creative Problem Solving. Students Skills in Tackling Real-life Problems, Vol.V, OECD, Paris 2014.

[66] Cfr. Nella provincia autonoma di Trento le competenze in lettura vedono un significativo miglioramento nel percorso del primo ciclo di istruzione; mentre al secondo anno delle primarie i risultati sono allineati ai valori nazionali, con punteggi rispettivamente 208 e 205) al terzo anno della scuola secondaria di primo grado si ha sensibile divaricazione (209 e 196) (IPRASE, Risultati delle prove Invalsi 2021 in provincia di Trento, IPRAE, Rovereto, 2021).

[67] I dati Invalsi (2019) mettono in evidenza come le disomogeneità territoriali crescono con l’avanzare degli studenti nel percorso scolastico. Al secondo anno delle scuole primarie non ci sono significativi scostamenti tra le aree del Paese rispetto ai valori medi nazionali. Dal grado 5 al grado 8 si accentua la divaricazione soprattutto tra il Nord e il Sud del Paese (Invalsi, Rapporto nazionale 2019, Invalsi Roma 2019, pp.31ss).

[68] Comber, I.C. e Keeves, J.P. “Science Education in Nineteen Countries”. International Study in Evaluation I, A Halsted Press Book, New York 1973 p.1.

[69] La situazione italiana ha aspetti peculiari: per le capacità di lettura, ad esempio, l’indicatore di equità è superiore ai valori medi OECD ma va riferito a livelli di apprendimento che non raggiungono gli standard OECD (OECD, PISA 2018 Results (Volume II): Where All Students Can Succeed, PISA, OECD Publishing, Paris 2019, https://doi.org/10.1787/b5fd1b8f-en.pp.60; 67)

[70] OECD, PISA 2018 Results (Volume II): Where All Students Can Succeed, PISA, OECD Publishing, Paris 2019, https://doi.org/10.1787/b5fd1b8f-en. Pp.65ss.

[71] E’ un tema ricorrente quando si parla di crisi della scuola italiana D’Errico, 2019 p.239ss.

[72] In epoca pre-Covid (dati 2016), la spesa per l’istruzione era pari al 3,6% del PIL a fronte di valori di 5% per i paesi OECD e di 4,5 per la UE (23) con una progressione contrazione della quota della spesa del Governo rispetto al 2005 (8,1%), al 2010 (7.9%) e al 2016 (6,9%) a fronte di andamenti OECD (11,6%; 11,0%; 10,8%) e UE 10,6%; 9,9%; 9.6%). La spesa per studenti nella scuola primaria era di 7.991 USD (OECD, 8.470; UE 8.548), per la scuola secondaria 9.193 USD (OECD 9.968 UE 10.205), per il settore terziario 11.589 USD (OECD: 15.556; UE 15.863) (OECD (2019), Education at a Glance 2019: OECD Indicators, OECD Publishing, Paris, 2019, p.274; 286; 313 https://doi.org/10.1787/f8d7880d-en.

[73] Cfr. Raimo che scrive “Quello sui finanziamenti alla scuola sembra una questione che per Ricolfi e Mastrocola è problema marginale. Nel 1971 quasi un quinto del Pil era investito in istruzione, scuola, cultura e ricerca: chiaramente occorre considerare che la percentuale di bambini e ragazzi figli del boom era molto alta, e che oggi l’Italia è un paese invecchiato. Ma nonostante l’Italia sia comunque un paese più ricco e più alfabetizzato, quella percentuale è drasticamente calata, vicino al 6 o 7 per cento. C’è stato un crollo verticale dagli anni di Berlusconi in poi. Come è possibile che questi numeri non interessino affatto alla coppia?”.

[74] W. Norton Grubb, The Money Myth. Schools Resources, Outcomes, and Equity, Russell Sage Foundation New York 2009. Andreas Schleicher colloca tra i miti che dominano nel discorso sull’educazione, la convinzione che il successo dell’istruzione stia nella maggiore quantità di denaro disponibile (p.59): gli studi sui dati PISA mettono in chiaro che nei paesi che investono più di 50.000 dollari pro-capite per studente (dai 6 ai 15 anni) “non esiste una relazione tra la spesa per studente e il rendimento medio degli alunni” (p.61). (Una scuola di prima classe. Come costruire un sistema scolastico per il XXI secolo, Il Mulino, Bologna 2020)

[75] Antonio Schizzerotto, Vite ineguali: disuguaglianza e corsi di vita nell’Italia, Il Mulino, Bologna 2002, p.355.

[76] Vedi Dacia Maraini, La scuola ci salverà, Solferino, Milano 2021, pp.66-67. E, per una lettura partecipata della realtà scolastica Mariapia Veladiano Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare, Solferino Milano 2021.

[77] Cfr. Susan H. Fuhrman (ed.), From the Capitol to the Classroom, Standards-based Reform in the States, The National Society for the Study of Education, 2001.

[78] Oltre dieci anni fa l’OECD ha individuato proprio nelle culture dell’apprendimento l’anello debole della catena della qualità dell’istruzione (OECD, The nature of learning: using research to inspire practice, OECD, Paris 2010).

[79] Il termine democratico sembra diventare sinonimo di scuola permissiva e scadente.

[80] Argentin e Giancola scrivono di una “confusione definitoria sulla scuola “democratica/progressista/facilitata/ecc.”, che tutto può significare, a discrezione delle necessità argomentative degli autori, da un paragrafo all’altro” (2022).

[81] Si veda il movimento per la school choice, le riforme scolastiche in Nuova Zelanda e in Svezia, l’origine e lo sviluppo delle Academies in Inghilterra o delle Charter Schools negli USA (Cfr. M.G.Dutto, L’autonomia delle scuole in Europa e altrove, Tecnodid, Napoli 2019.

[82] Non è un caso che un esponente di spicco del tradizionalismo americano E.D.Hirsch ricorra alle pagine di Antonio Gramsci per elaborare una visione conservativa della scuola e dell’istruzione (op.cit., pp.6-7). Paola Mastrocola richiama la lezione gramsciana sulle “abitudini di diligenza, di esattezza, di compostezza…”, sul necessario studio rigoroso della grammatica e sulla difesa delle lingue antiche in Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare, Guanda Parma 2011 p.120.

[83] Cfr. L. Cuban, How Teacher Thought: Constancy and Change in American Classrooms 1890-1990, Teachers College Press, New York 1993.

[84] La discussione ha alle spalle una lunga controversia. Cfr. come esempio di studio sul confronto tra metodi formali e metodi informali nell’insegnamento N. Bennett, Teaching Styles and Pupil Progress, Open Books London 1976. Per una critica della pedagogia del progressismo negli USA cfr. E.D. Hirsch, The schools We Need And Why We Don’t Have Them, Doubleday, New York 1996. Per una voca critica nel Regno Unito cfr. F. Furedi, Wasted. Why education isn’t educating, Continuum, London 2009;

[85] Ai redattori della casa editrice, forse perché prodotti della scuola con standard abbassati, è sfuggito che Luigi Berlinguer non è il fratello del “mitico Enrico” (p.63), che l’Accademia della Crusca ritenga corretto “interdisciplinarità” invece dell’errato “interdiscinarietà” in cui ci si imbatte nel testo (p.58) e che la scuola magistrale (per la formazione degli insegnanti per la scuola dell’infanzia) non era l’istituto magistrale (per la formazione degli insegnanti delle scuole elementari) (p.301, nota n.4).

[86] L’espressione sta ad indicare una delle derive dei sistemi scolastici, variamente presente in numerosi paesi e diversamente definita (credentialism, grade inflation…). Roberto Contessi parla a proposito della maturità di un “titolo di studio popolare” e facendo il paragone con le periferie urbane identifica “il ghetto abitato da alunne e alunni marginali cui è stato garantito un pass di cartapesta per uscire dal sistema formativo secondario” (Scuola di classe, Laterza. Bari-Roma 2016 p.16).

[87] Per la verità la situazione italiana è lontana da quella di altri paesi. Già nel 2013 un rapporto OECD (Review of Italian Strategy for Digital Schools, OECD, Paris 2013)denunciava i gravi ritardi tecnologici, pressochè incolmabili, della scuola italiana.

[88] Nella prima ricerca del programma TALIS condotta nel 2008 gli orientamenti teorici dei docenti vennero distinti tra il modello dell’insegnamento diretto e il modello elaborato dal costruttivismo. Nel confronto comparativo gli insegnanti italiani della scuola media (settore di studio del programma) rivelano una diversificazione di vedute con un sostanziale ugual peso dei due approcci (come la Bulgaria e la Spagna) a fronte di paesi (Austria, Danimarca, Estonia, Belgio Corea del Sud…) in cui la filosofia costruttivistica è di gran lunga prevalente. Cfr. OECD, Talis, Teaching practices, Teachers’ Beliefs and Attitudes, OECD Paris 2009, p.95.

[89] Cfr. Meredith I. Honig, New Directions in Education Policy Implementation. Confronting Complexity, State University of New York Press New York 2006.

[90] Marcello Dei e Marzio Barbagli in Le vestali della classe media (Il Mulino, Bologna 1972) hanno raccolto le testimonianza di insegnanti da cui si evidenzia che la resistenza dentro l’aula può compromettere la riuscita di una riforma come quella media unica deglianni 1960 generando mutamenti (coma la riduzione dei bocciati) ma anche immobilità nella didattica in classe.

[91] Le indicazioni nazionali o le linee guida, il format che ha prevalso nella compilazione dei programmi di insegnamento, non hanno un valore altamente prescrittivo, devono conciliarsi con l’autonomia progettuale delle scuole e sono variamente erose dalla indipendenza di fatto dei docenti nell’insegnamento.

[92] Federico Batini commentando il volume di Mastrocola e Ricolfi annota: “…come si vede dal consenso e dai commenti ricevuti sui social, in gruppi con migliaia di insegnanti, se proprio dobbiamo generalizzare diremmo che è più rappresentata ancora oggi la scuola della quale gli autori  deplorano la scomparsa, piuttosto che quella che rappresentano” (citato in Raimo)

[93] Ricolfi in altro scritto smonta il mito delle buone scuole elementari: il loro successo dipende dal fatto che molti alunni hanno fatto la scuola dell’infanzia

[94] Le descrizioni più evidenti di queste fratture sono fornite dai rapporti annuali Invalsi e dai report del programma PISA relativi alle edizioni a cui si è avuta la presenza di campioni rappresentativi di tutte le regioni italiane.

[95] Per il modello francese cfr. www.mariogiacomodutto.it. Cfr. Cesare Cornoldi e Giorgio Israel, Abolire la scuola media, Il Mulino, Bologna 2015; Fondazione Giovanni Agnelli, Rapporto scuola media 2021, Torino 2021.

[96] Una vasta letteratura ha analizzato il contesto scolastico come il regno dei legami deboli, cioè della relativa indipendenza dei fattori in campo con spazi di discrezionalità diffusi in tutto il sistema scolastico.

[97] L’analisi dei processi di implementazione delle politiche educative ha illustrato la deviazione che esiste nel ciclo di policy tra le strategie annunciate, le decisioni assunte e l’utilizzo di nuove regolazioni sul campo da parte degli attori coinvolti nei processi di messa in opera.

[98] Nella ricerca TALIS dell’OECD condotta nel 2008 nelle scuole medie inferiori, tra i diversi aspetti di organizzazione dell’insegnamento, si sono sondati anche i sistemi di vigilanza, di feeback e di valutazione nei confronti degli insegnanti. Oltre il 50% del campione italiano di professori e professoresse di scuola media ha dichiarato di non aver ricevuto alcun feedback né accertamento negli ultimi cinque anni a fronte di percentuali inferiori al 20% negli altri paesi partecipanti all’indagine (OECD, 2009b p.149).

[99] Un riscontro indiretto di quanto affermato da Luca Ricolfi sono le performance comparative degli studenti degli istituti tecnici piemontesi, non lontane di livelli medi raggiunti dai liceali a livello nazionale. Dai dati PISA 2003 in matematica gli studenti dei tecnici piemontesi raggiungono i 501 punti contro il valore medio di 472 per i tecnici e di 503 per i licei a livello nazionale (Cfr. Luciano Abburra (a cura di), PISA 2003: Bravi come gli altri. Nuova luce sdille competenze dei quindicenni dal confronto fra regioni italiane e europee, Franco Angeli, Milano 2006, pp. 66; 85;w2 93.

[100] Il Capitolo 4 non pare essere considerata nel dibattito sui media e sui social networks. Né si ritrova traccia di interesse in chi sostiene legittime posizioni di segno opposto rispetto a quelle contenute nel saggio. C’è da augurarsi che nei prossimi mesi questo avvenga.

[101] Le ricerche classiche sulla mobilità sociale sono quasi sempre basate su studi longitudinali e su aree estese, da Sorokin (1927)a Blau e Duncan (1967), a Lipset e Bendix (1959), a Erikson e Goldthorpe (1986).

[102] Cfr. Luigi Cannari e Giovanni d’Alessio, Istruzione, reddito e ricchezza: la persistenza tra generazioni in Italia, Occasional paper, Banca d’Italia Dipartimento di economia e statistica Roma 2021.

[103] Secondo I valori indicati ne The Global Social Mobility Report 2020 Equality, Opportunity and a New Economic Imperative, l’Italia è al 34° posto nel confronto internazionale e ultima tra i paesi del G7 (Germania, 11°; Francia, 12°; Canada, 14; Giappone, 15°; Regno Unito, 21°; Stati Uniti, 27°).

[104] Si veda il rapporto OECDoo, Equity in Education: Breaking Down Barriers to Social Mobility, PISA, OECD Publishing, Paris, 2018 https://doi.org/10.1787/9789264073234-en. In periodo di crescenti disuguaglianze alcuni paesi hanno sviluppato politiche educative che riducono l’impatto dei fattori socio-economici sui risultati dei propri studenti anche se “there is no country in the world that can yet claim to have entirely eliminated socio-economic inequalities in education” (p.22).

[105] Società aperta è quella che assicura pari opportunità a tutti (p.177)

[106] I dati utilizzati provengono dall’indagine tematica Multiscopo campionaria Famiglia, soggetti sociali e ciclo di vita condotta ogni cinque anni dall’Istat a partire dal 1998. Sono riferiti alle generazioni nate tra i primi anni del Novecento e l’inizio degli anni 1980 (p.184).

[107] Nel testo si parla a proposito della scuola di un indicatore dell’indulgenza delle valutazioni definita come lo scarto tra i livelli di competenza misurati con il test e l’attribuzione del voto massimo spesso accompagnato dalla lode.

[108] Per ”cercare di capire che cosa nonostante le immense differenze tra Zona rossa e Zona di mafia, fa sì che il loro regime di mobilità sia praticamente identico” la spiegazione possibile del “regime clientelare“ che “accomuna le terre della mafia e quelle della tradizione comunista”(p.210) appare un po’ sbrigativa e irrituale (“Non occorrono particolari studi per sapere che, nelle terre di mafia..”, “basta un’occhiata alla letteratura sulle cooperative rosse, o anche solo una lettura di un libro come Falce e carrello…”p.210).

[109] In qualche misura l’indicatore degli studenti resilienti utilizzato nelle indagini PISA risponde a questo interrogativo. Ci sono sistemi in cui la quota di studenti resilienti è molto alta.

[110] Rapporto Invalsi 2021. Già in passato il gap era stato evidenziato dal Quaderno bianco sulla scuola 2007

[111] Ricolfi riconosce che si tratta di un termine “più giornalistico che scientifico”(p.177), anche se poi non l’abbandona.

[112] Cfr. ad esempio, John H. Goldthorpe, “Social class mobility in modern Britain: changing structure, constant process”, Journal of British Academy, 4, 89-111 DOI 10.5871/jba/004 089.

[113] Per un’analisi dei limiti di una prospettiva funzionalistica di interpretazione dell’evoluzione del sistema scolastico italiano cfr. Marzio Barbagli, Disoccupazione intellettuale e sistema scolastico in Italia (1859-1973), Il Mulino, Bologna 1974.

[114] Cfr. come esempio di questa direzione di investigazione W.Norton Grubb e M. Lazerson, The Educational Gospel. The Economic Power of Schooling, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 2004.

[115] Secondo il World Inequality Report 2022 del World Inequality Laboratory (WIL) la situazione italiana non è sfuggita al trend globale, facendo registrare, negli ultimi 40 anni, un notevole peggioramento: “… since the early 1980s, the top 10% income share rose considerably, by 8-10 p.p., while the bottom 50% share dropped from 27% to 21%. Between 2007 and 2019, the bottom 50% average incomes dropped by 15%, while national income per adult dropped by 12% as a result of the austerity policies that followed the financial crisis and the European debt crisis of 2012-2014” (WIL, 2021, Country Appendix, Italy).

[116] In questa direzione la riflessione ha testimoni diversi, da autorevoli filosofi (Nuccio Ordine, L’utilità dell’inutile. Manifesto, Bompiani, Milano 2020) a scrittori critici (Andrea Bajani, La scuola non serve a niente, Laterza, Roma-Bari 2014). Ancora attuale la considerazione di Neil Postman che nelle conversazioni sulle scuole gli argomenti più frequenti riguardano i mezzi, molto raramente i fini dell’educazione (Neil Postman, The End of Education. Redefining the Value of School, Random House, New York 1996, p.X)

[117] Nel campo dell’educazione anche gli approcci più critici e laceranti non mancano di lanciare messaggi positivi e di speranza relativi al ‘che fare’. Si veda, a questo proposito, la lettura del saggio citato di Luca Ricolfi, in www.mariogiacomodutto.it.

[118] Pur non condividendo le posizioni espresse da Mastrocola e Ricolfi, anche Argentin e Giancola (2022) riconoscono fondamentalmente “i dati di partenza” del saggio.

[119] Per una panoramica dopo venti anni cfr. Marco Campione e Emanuele Contu (a cura di), Liberare la scuola. Venti anni di autonomia, Il Mulino, Bologna 2020.

[120] Cfr. Per alcune note critiche sull’autonomia delle scuole cfr. Galli della Loggia, op.cit., 2019, pp.130ss.

[121] Il Francia la riforma del Collège ha inteso superare le disomogeneità di proposte da parte delle scuole con l’accentuazione della stratificazione tra di esse (cfr. www.mariogiacomodutto.it). Analizzando le strategie di leadership delle scuole  mette in evidenza i limiti strutturali della strada dei progetti Fullan analizzando l’approccio all’autonomia delle scuole osserva che le singole istituzioni non hanno la massa critica per trasformazioni di sistema e che la competizione generata non è benefica per le scuole più in difficoltà.

[122] La selezione differita è “una espulsione dal sistema ma rinviata nel tempo” e riguarda gli studenti accettati formalmente nella scuola dell’obbligo ma costretti a rinunciare al proseguimento degli studi nei primi anni della scuola secondaria superiore” (Francesco Casella (a cura di) Glossario della dispersione scolastica, IRRSAE Basilicata 1996)

[123] La categoria della dispersione implicita è entrata nei modelli di analisi dell’Invalsi (cfr. Invalsiopen, La dispersione scolastica implicita, Ottobre 2019.

[124] Mastrocola stigmatizza il distribuire nel tempo la dispersione “Salvo poi dedicarci con passione a studiare il fenomeno della dispersione, finanziando progetti e ricerche…” (p.97).

[125] Nell’anno 2018-19 mentre gli studenti promossi salgono al 72,2% rispetto al 71,1% dell’anno precedente e quelli che dovranno ripetere l’anno scolastico nella Secondaria di II grado sono il 6,8%, lo scoglio principale nella Secondaria di II grado si conferma il primo anno di corso, con il 10,3% di non ammessi all’anno successivo (Dati MIUR).

[126] Per un esame compiuto del problema occorrerebbe comunque tener presente l’anomalia italiana per cui i risultati delle valutazioni standardizzate registrano valori, nelle diverse discipline, più alti per gli studenti degli istituti tecnici collocati nelle regioni del Nord rispetto ai coetanei frequentanti licei che si trovano nelle regioni del Sud.

[127] OECD, Strengthening Resilience through Education: PISA Results, BACKGROUND DOCUMENT, PISA OECD, Paris 2014 p.29.

[128] Con l‘espressione “promozione sociale” si indica la filosofia, alternativa alla selezione con ripetenze, volta a facilitare il progredire degli studenti lungo l’itinerario scolastico, anche in assenza del raggiungimento degli obiettivi previsti, orientando la valutazione a finalità formative. Non equivale necessariamente a lassismo o indulgenza valutativa quando diventa scelta consapevole di impostazione pedagogica come documenta l’esperienza di alcuni sistemi scolastici. Da tener presente che molte ricerche e meta-analisi hanno affrontato l’analisi dell’efficacia dei regimi basati sulle bocciature e sulle ripetenze (cfr. Mieke Goos, Joana Pipa e Francisco Peixoto, Effectiveness of grsate retention: A systematic review od meta-analysis, Educational Reearch Review, 34 (2021): 100401 DOI:10.1016/j.edurev.2021.100401)

 

[129] Cfr. il confronto, e il relativo divario, tra i voti e i risultati del testing in MEF e Miur, Quaderno bianco sulla scuola. Miur Roma 2007p.82.

[130] Si veda la reazione dei genitori alla prima edizione dell’esame di Stato modellato da Giovanni Gentile che portò ad un primo alleggerimento.

[131] Dopo la trasformazione di Sullo del 1969 (2 scritti e 2 orali, volti in sessantesimi) Berlinguer nel 1997 (terza prova, crediti e voti in centesimi), Fedeli nel 2017 (2 prove scritte e colloquio), Bussetti (seconda prova scritta su doppia materia, abolisce la tesina, toglie la traccia di storia nella prima prova, introduce all’orale la scelte delle buste con le domande), Bianchi per via del Covid elimina le prove scritte e introduce la tesina nell’orale.

[132] A onor del vero va precisato che il numero di candidati all’esame è il risultato di una progressiva selezione partendo dal primo anno di scuola superiore. La percentuale di studenti iscritti al primo anno e presenti al quinto, cioè con un percorso lineare e regolare, scende di parecchi punti. Il Liceo Parini di Milano e il Mamiani di Roma, ad esempio, presentano all’esame di Stato il 50%/60% degli studenti iscritti al primo anno per cui il 95% di successo riguarda il 45%/55% degli studenti che si sono iscritti al primo anno. Il dato, quindi, relativo alla percentuale di successo dei candidati non è del tutto accurato perché non considera i percorsi degli studenti che nel corso del quinquennio hanno abbandonato.

[133] Roberto Contessi, Scuola di classe, Laterza. Bari-Roma 2016, p.16.

[134] La previsione di un’analisi delle prove scritte dell’esame di Stato da parte dell’Invalsi è contenuta nella Legge 11 gennaio 2007 n.1 Disposizioni in materia di esami di Stato… che all’art3.1 prevede che l’Invalsi “provvede alla valutazione dei livelli di apprendimento degli studenti a conclusione dei percorsi dell’istruzione secondaria superiore, utilizzando le prove scritte degli esami di Stato secondo criteri e modalità coerenti con quelli applicati a livello internazionale per garantirne la comparabilità”.

[135] Anche il recente dibattito sull’abolizione delle prove scritte all’esame di Stato (cfr. la lettera aperta sugli esami di Stato inviata al Ministro    Patrizio Bianchi da un gruppo di accademici e intellettuali in Domani, 4 dicembre 2021) non pare aggredire l’impianto complessivo della ‘maturità farsa’ di cui parlano gli autori del saggio.

[136] Provocatoriamente Luca Ricolfi avanza un’ipotesi di applicazione del principio della trasparenza alla valutazione scolastica e universitaria: “Così come si parla di responsabilità civile del giudici, si dovrebbe introdurre il principio di responsabilità certificativa… del docente: se attesti che un allievo possiede certe conoscenze e competenze, ma lui ne risulta evidentemente sprovvisto, tu docente ne rispondi.. basterebbe questo a frenare lo scandalo più grave della scuola e dell’università, ossia il rilascio di certificarti che attestano il falso” (Intervista riportata su Orizzontescuola.it 15 ottobre 2021).

[137] La piattaforma Eduscopio rende visibili le potenzialità delle scuole attraverso la misura del successo degli studenti negli studi universitari o nell’inserimento lavorativo. Nulla dice del destino degli studenti scartati. Così, ad esempio, se prendiamo gli studenti del Liceo classico Visconti di Roma che è al vertice tra i licei della capitale con un indice FGA pari a 82,34 troviamo che presenta una percentuale di diplomati in regola (cioè dopo cinque anni) pari al 58,3%. Quasi la metà degli iscritti al primo anno si perdono per strada. Anche il tecnico economico Giovanni XXIII, sempre della capitale, al vertice nel proprio settore (indice FGA 62.17) presenta una % del 58,4 di diplomati in regola, con i relativi processi di dispersione nel quinquennio. In entrambi i casi la piattaforma fornisce informazioni sui percorsi di poco più del 50% degli studenti iscritti al primo anno. Un’informazione sui livelli di insuccesso potrebbe rivelarsi utile ai genitori tanto quanto quella relativa ai livelli di eccellenza raggiunti.

[138] OECD, PISA 2015 Results (Volume III): Students’ Well-Being, PISA, OECD Publishing, Paris 2017 http://dx.doi.org/10.1787/9789264273856-en.

[139] Cfr. Patrizio Bianchi, Nello specchio della scuola. Quale sviluppo per l’Italia, Il Mulino, Bologna 2020 pp.41ss.

[140] Per capire l’impostazione culturale dei due intellettuaii autori del saggio si veda il loro recente pamphet Il manifesto del libero pensiero, La Nave di Teseo e GEDI, Milano 2021.

[141] Nel saggio non pare del tutto assente una pars construens contrariamente alla lettura di Maria Grazia Fornaroli che critica gli autori per l’assenza di un contributo propositivo e per la non attenzione alle eccellenze presenti nel sistema scolastico italiano (“Scuola/Non solo danno scolastico: le 4 amnesie di Mastrocola e Ricolfi“, Il Sussidiario 1 dicembre 2021).

[142] C’è una convergenza di critica all’inazione di accademici e intellettuali. Paola Mastrocola scrive di “anni di timidezza e silenzio di tanti intellettuali progressisti” (p.227), Ernesto Galli della Loggia denuncia il silenzio delle persone di cultura di fronte al decadimento dell’istruzione (op. cit., 2019, pp.16-17). Dacia Maraini riporta la domanda provocatoria dello studente, nei dialoghi dell’autrice nelle scuole, “Dove eravate voi scrittori…?” (p.61 ).

[143] Argentin e Giancola dedicano metà della recensione del volume a formulare ipotesi sulle ragioni del successo editoriale (2022).

[144] La ricerca condotta da Luca Ricolfi ulizzando dati Istat e Invalsi dimostra che significativi percorsi di indagine possono essere attrezzati attingendo alle base dati ormai sviluppate e disponibili. Accentuata è la distanza tra i data set costruiti e la loro utilizzazione per la formazione delle decisioni di politica scolastica.

[145] Si veda la letteratura che fa capo alle ricerche condotte da John Hattie, a partire dall’ormai classico Visible Learning. A synthesis of over 800 meta-analyses relating to achievement, Routledge, London 2009 e l’intero filone di ricerca creato dal movimento della “evidence-based education”.

[146] Forse una rilettura delle pagine di Antonio Gramsci sulla scuola potrebbe essere considerata (Quaderni dal carcere, 1931-34).

[147] Cfr. in questo blog (mariogiacomodutto.it).

[148] Cfr. Luca Ricolfi, 2019, op. cit.; Paola Mastrocola, 2011, op.cit.

[149] Riflettendo sulla propria esperienza Mastrocola riconosce che “la mia storia racconta di quella ‘crepa salvifica’ che secondo me esiste, quel qualcosa che scalfisce e sgretola il muro tratteggiando una porta di uscita, ed è il livello alto di preparazione” (p.88).

[150] Paola Mastrocola presenta ipotesi ragionevoli ma critiche sotto il profilo della praticabilità. A proposito di formazione degli insegnanti e, di conseguenza, di classi di concorso scrive: “Ho sempre pensato che la cattedra di lettere sia una mostruosità inconcepibile. Non si possono insegnare quattro materie così diverse e, per molti versi, incompatibili. Chi studia letteratura non ha la testa per studiare storia, o geografia. E viceversa. “O l’una o l’altra. Dovrebbero pensarci seriamente, quelli del ministero. È un danno grave che si fa ai ragazzi. Bisognerebbe che un insegnante insegnasse quel che ama, che ha studiato molto e che, quindi, è capace di insegnare meglio. Mi sembrerebbe la prima riforma da fare, invece di tanti corsi di formazione che insegnano a insegnare. Chi si laurea in letteratura insegni letteratura, chi si laurea in storia insegni storia, chi si laurea in geografia insegni geografia. È così difficile?”. In alcuni paesi agli insegnanti viene richiesta                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                  una doppia abilitazione o l’insegnamento di discipline diverse dalla specializzazione acquisita proprio per renderne più flessibile l’impiego.

[151] La letteratura sui miti dominanti nella scuola è estesa e in continua evoluzione. Vedi Norton W. Grubb, op. cit. 2009; Andreas Schleicher, op. cit.2020 fino a Blanchette Sarrasin, J. et Masson, S., Connaître les neuromythes pour mieux enseigner. Enjeux pédagogiques, 28, (2017): pp.16-18. (https://goo.gl/GgF8iY).

[152] Nel saggio Luca Ricolfi annota che è sfuggita “ai politici che governano l’istruzione” la considerazione che un test “può essere disastroso a livello individuale, e più che soddisfacente a livello collettivo, quando cioè si ha a che fare con grandi numeri”. E continua “Se ci avessero pensato, nella scuola avrebbero usato i test INVALSI solo per confrontare le scuole, e non per valutare gli studenti” (p.188), Va osservato, comunque, che l’INVALSI da anni calcola l’effetto scuola, cioè quanto la scuola fa la differenza per chi la frequenta al netto dei fattori che non dipendono dalla singola istituzione (cfr. https://invalsi-dati.cineca.it/2016/docs/effetto_scuola_2016.pdf).

[153] Ci sono molti esempi di intervento di welfare rivolti alla scuola adottati nei paesi europei a cui si può guadare per integrare le misure già presenti nel nostro Paese. Così ad esempio l’Assegno per l’inizio dell’anno scolastico subordinato a requisiti di reddito ed erogato per ogni figlio di età compresa tra i 6 e i 18 anni in Francia è un intervento da esaminare.

[154] Nel passato l’IPRASE di Trento decise di rendere pubblici i voti finali per tutte le classi delle scuole trentine (IPRAE, Scuola che vai voti che trovi, IPRASE, Trento 1993); il secondo anno di pubblicazione si ebbe una drastica riduzione delle situazioni più improbabili. Il rendere conto pubblicamente dei voti obbliga ad una più attenta riflessione anche se può avere effetti negativi non intenzionali di condizionamento della discrezionalità dei docenti.

[155] Cfr. la proposta di introdurre l’insegnamento della filosofia negli istituti tecnici o l’iniziativa dei ministri dell’istruzione di Francia, Italia, Grecia e Cipro per un piano europeo per l’insegnamento del latino e del greco di cui si è parlato nel corso del Colloquio “Europe et langues anciennes: nouvelles questions nouvelle pratiques” (https://etudiant.lefigaro.fr).

[156] Paola Mastrocola in un’intervista ha dichiarato di guardare con interesse alle modalità adottate in Inghilterra.

[157] Sull’ambivalenza dei genitori nei confronti della scuola Paola Mastrocola ha scritto pagine illuminanti in La passione ribelle, Laterza, Bari-Roma 2015, pp.67-73.

[158] Questa annotazione dovrebbe essere integrata da altre evidenze che indicano un livello inferiore di attese dei genitori italiani nei confronti della scuola e del futuro dei propri figli se confrontate con quelle dei genitori in altri paesi (OECD, Ready to Learn: Students’ Engagement, Drive and Self-Beliefs VOLUME III, OECD 2013, pp.141ss.

[159] Negli anni più recenti Dacia Maraini, La scuola ci salverà, Solferino, Milano 2021; Mariapia Veladiano Oggi c’è scuola. Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare, Solferino Milano 2021; Giuseppe Bagni e Giuseppe Buondonno, Suonare in caso di tristezza. Dialogo sulla scuola e sulla democrazia, PM, Varazze 2021, Liana Lomiento e Antonietta Porro, Liceo classico, un futuro per tutti, Carocci Roma 2021.

[160] Anche nella stroncatura di Argentin e Giancola si legge di un libro “alla cui lettura completa non ci si può sottrarre, se si studia la scuola italiana e si partecipa al dibattito pubblico su di essa” (2022).