Un Paese alla sbarra

Rimane un libro non facile il volume del professor Ernesto Galli della Loggia dedicato alla scuola (“L’aula vuota”) edito per i tipi della Marsilio Editori nel 2019. Difficile da classificare, anzitutto. Un saggio storico? Un esercizio di analisi? Un pamphlet polemico? Una raccolta di appunti distesi lungo una narrazione pluridecennale? Spezzoni assemblati del dibattito culturale e giornalistico? Note sulle vicende dell’istruzione nell’arco di quasi due secoli? Impegnativo da decodificare, inoltre: lo storico di rango si sovrappone al polemista avvezzo alle schermaglie[1] e l’osservatore attento ai dettagli della cronaca all’uomo di cultura al capezzale della nostra scuola. I contenuti risultano così eterogenei, dall’esame di Jean-Jacques Rousseau alla puntigliosa citazione del CV di un interlocutore, dalla ripresa delle affermazioni di un ministro rilasciate a un giornale alla disanima del messaggio pedagogico dell’abate di Barbiana, dalla critica ai dirigenti della Confindustria di Cuneo all’esegesi dei programmi del 1979 per la scuola media. Il richiamo alle radici si salda con l’attualità in un discorrere che può anche avvincere il lettore come affaticarlo.

Di fronte al declino dell’Italia che ha “non poco a che fare con il declino dell’istruzione”(p.15) nell’ultima parte del Novecento l’intero Paese è messo alla sbarra con i suoi attori delle politiche educative, dai politici ai funzionari ministeriali, dagli esperti al servizio del Miur agli accademici silenziosi, dal PCI ai sindacati, dagli insegnanti ai dirigenti di scuola. L’orizzonte rimane fondamentalmente nazionale sia per la forte attenzione ai processi d’identità del Paese[2], tema al centro di altri volumi del professore di storia, sia anche per la denuncia dell’invasione delle direttive europee sulla scuola nazionale.

Il testo appare, senza dubbio, ambizioso nell’abbracciare in poco più di 200 pagine l’intera vicenda storica della nostra scuola, scandita in tappe secondo un andamento cronologico, ma anche marcata da sottolineature tematiche, per la verità talora più esemplificative che esaustive. La documentazione è varia, pur se limitata, e i riferimenti sono puntuali anche se essenziali. La prosa generalmente scorrevole può risultare, tuttavia, anche pesante, qualche volta ridondante.

Risulta divisivo in un paese abituato alle categorie della “reazione” e del “progresso” (p.47) e ha suscitato interesse in vari ambiti[3], critiche feroci[4] ma anche consensi ragionati[5]. Le prime indotte dal consueto scenario di contrapposizione tra presunti conservatori e cosiddetti progressisti. I secondi allineati alle adesioni che i cahiers de doléances sulla scuola tendono a generare, soprattutto quando la vis polemica tocca il comune sentire, dalle riforme fallite al sovraccarico dei docenti, dalla retorica della pedagogia all’inazione della politica, dall’inerzia burocratica all’affondamento della cultura.

Sintetizzata nel sottotitolo (“Come l’Italia ha distrutto la sua scuola”) la tesi del noto storico e editorialista è manifesta. Abbandonata al suo destino dalla politica disinteressata per opportunismo, con un’opinione pubblica “ineducata, rimasta per gran parte incolta” (p.16) e il silenzio colpevole delle élites culturali, “l’aula”, pur affollata come non mai, si è svuotata di senso. E il declino del Paese ne è seguito di conseguenza (p.15). L’ideologia e la politica hanno cancellato quella scuola italiana, scrive l’autore, dove “la maggior parte di noi è cresciuta e si è formata” (p.28).

La tesi, in realtà un’ipotesi di lettura, è suggestiva e attraente: perché la nostra scuola non abbia saputo affrontare la modernità che il Paese non ha fatto “in tempo a metabolizzare” (p.20), perché sia caduta nella mediocrità da cui non riesce a risollevarsi, sono interrogativi cruciali cui mancano ancora oggi risposte convincenti. Da questo punto di vista Il libro è l’occasione per ragionare sulla nostra scuola. A prescindere da considerazioni di metodo[6], di stile[7], di efficacia argomentativa e di condivisione, può essere letto allo scopo di riflettere e, possibilmente, migliorare la comprensione delle opere e dei giorni del nostro sistema di istruzione[8].

L’autore, accademico di rango e polemista ben noto, mette in campo, con toni talora irriverenti per non dire caustici, sarcastico, quasi dispregiativi, il suo sapere di storia e di ricostruzione dei processi con le posizioni, più volte espresse, di forte critica rispetto alle politiche recenti e correnti dell’istruzione[9].

Sette gironi infernali attorno alla scuola

Sette sono le tappe lungo le quale si snoda, secondo l’autore, la via crucis dello smantellamento della scuola[10], una sequenza storica a maglie larghe che fa da canovaccio per approfondimenti tematici tra di loro distinti, di volta in volta affrontati, con una navigazione per lo più controcorrente.

Contenuti

1. Miti e realtà

Le scuole in ogni paese devono fare i conti con il proprio passato e quasi sempre si dibattono tra memoria e speranza. L’assunto di un’età dell’oro è ricorrente, ma i sostenitori del “c’était mieux avant!”[11] si contrappongono agli ottimisti di maniera o di convinzione (“Non siamo mai stati così bene…”). In un paesaggio attraversato da polemiche, peraltro, rimane sostanzialmente stabile il livello di fiducia degli italiani rispetto alla propria scuola[12], pur se la distanza tra le situazioni oggettive e le percezioni diffuse non accenna ad attenuarsi.[13] Nel caso della scuola italiana il rapporto con il passato ha a che vedere, secondo Galli della Loggia, con la profonda frattura che si è generata con il 1968 con la metamorfosi dall’istruzione all’educazione che si snoda lungo più direttrici.

La cultura umanistica e oltre

La fine del mondo di ieri e il suo ricorrente ritorno sono parte della tradizione occidentale come testimonia il mito della cultura classica che richiama discussioni di lungo corso[14]. Le ragioni dell’importanza della storica formazione umanistica sono ribadite da Galli della Loggia. Apprendimento del ragionare, apertura di orizzonti, apprendistato cognitivo, gli argomenti sono riproposti[15] e messi alla base non tanto di una considerazione nostalgica quanto piuttosto di una lettura critica sulla scomparsa della scuola. Il paradigma classico, secondo l’autore, non è più il motivo ispiratore della nostra scuola in cui la pedagogia è diventata la vera padrona culturale (p.147). Si può condividere o meno l’ipotesi della distruzione della scuola e il richiamo all’eredità classica, tuttavia, la valenza delle materie umanistiche, discipline che, insieme alla matematica e alla fisica, racchiudono “il senso della vicenda umana”(p.55) sono l’ossatura di ogni ciclo scolastico

è da ricordare, anzitutto, che siamo il paese che ha più studenti di latino e di greco antico[16], che[17] il liceo classico continua a raccogliere percentuali significative di studenti, che la scuola italiana ha alle spalle una tradizione accademica ancora oggi in posizioni di assoluta eccellenza[18]. Il dibattito, peraltro, non è scomparso[19] e nuove voci si aggiungono continuamente[20] mentre oltre all’estensione dell’insegnamento delle lingue classiche ci si interroga anche sulla qualità della preparazione degli studenti[21]. .

Forse non è venuto meno il valore della cultura umanistica, ma si sono ridotte le vie di accesso e di socializzazione per le nuove generazioni, sono stati abbandonati canali precoci di approdo al latino. Senza vero impatto anche i tentativi di rivisitare le prospettive; le proposte “per pochi”, proprie della tradizione, si sono trovate in affanno nell’assicurare proposte “per molti” in assenza di soluzioni innovative sul piano della metodologia didattica.

L’apprezzamento per l’unicità del liceo italiano, in particolare per quello classico, non porta inevitabilmente a ignorare la formazione professionale né l’unicità dell’autentica scuola del nostro Paese può rimuovere la tradizione dell’istruzione tecnica. Il nodo della modernità mal gestita (p.28) sta nel fatto di non aver compreso il cambiamento in corso, fallendo nel necessario equilibrio tra le culture dell’istruzione con il risultato del “deperimento del retaggio umanistico” (p.28) e l’affidamento all’ “ideologia modernista e scientista imposta dai tempi” (p.28).[22] Il ‘nulla culturale’, riconosce l’autore, è confermato dall’assenza di una “significativa, avveniristica cultura tecnico-scientifica” (p.32).

La gigantesca menzogna

L’accusa, per quanto provocatoria, della scuola come terreno di cultura della menzogna tocca aspetti insopprimibili: la realtà, scrive l’autore, è stata frequentemente coperta dalla retorica, rimossa talvolta dall’ideologia, e, nell’insieme, ignorata a livello generale. é innegabile, infatti, che nonostante le diagnosi periodiche, nazionali e internazionali, le analisi approfondite e gli appelli ricorrenti, le debolezze del nostro sistema d’istruzione sono state sottostimate o affogate in una generica crisi della scuola senza puntualizzazioni e senza dare identità ai singoli problemi. L’impresentabilità comparativa dei livelli di apprendimento dei nostri studenti, rilanciata periodicamente dalle indagini PISA, non ha scosso la cultura politica dell’istruzione; non ci sono tracce di quel PISA shock che ha scatenato in altri paesi energie e strategie di miglioramento. La stessa pubblicazione dei rapporti Invalsi è diventata un’occasione rituale, anche per il loro impianto notarile, per qualche esercizio retorico.

Il professore Galli della Loggia ha buon gioco, quindi, nel citare i numerosi casi di rimozione e di messa in penombra (di fronte alla palude della realtà si alza però la montagna maestosa della retorica p.32). Lo scarto tra il tasso di diplomati agli esami e i livelli di competenza dei test Invalsi è documentato da tempo, così come le diversità territoriali nei livelli di preparazione degli studenti. Sono problemi non solo italiani, ma nel nostro Paese assumono pesi rilevanti ed è oggettivamente grave che non si affronti radicalmente la questione. Di qui la convinzione diffusa che la scuola non interessi; disinteresse documentato nell’andamento della spesa per l’istruzione e, soprattutto, nella contrazione di risorse effettuata al termine del primo decennio del secolo.

L’egemonia pedagogica

In questa fragilità di interesse l’egemonia pedagogica si afferma, continua l’autore nella sua diagnosi. Il discrimine riguarda lo spazio che il discorso sulla scuola, sul senso profondo dell’insegnare, sugli approcci metodologici e sulle tecniche di lavoro in classe può legittimamente avere. Si aprono interrogativi di cui non c’è traccia di risposta. L’affermazione della pedagogia è criticata per i suoi contenuti, per la sua inadeguatezza, per la sua inconsistenza o viene messo in discussione lo status di un corpo di conoscenze identificabile come pedagogia? Può esistere una pedagogia che dia senso all’azione educativa? Quali sono i determinanti di qualità del discorrere di istruzione?  Sotto forme diverse il parlare di istruzione ha bisogno di un suo linguaggio, di una sua comprensione di quanto avviene, di una elaborazione anche sul piano generale.

La posizione dell’autore tocca entrambi i versanti del problema. Lo stato di minoranza della pedagogia o delle scienze della formazione non aiuta, anzi si riflette nell’inconsistenza, pur nella versione anglosassone più attenta all’analisi di realtà, diremmo epistemologica. I testi curricolari risentono di queste incertezze e la retorica diventa la via percorsa quasi senza freni. Nelle politiche educative si ritrovano alleanze diverse tra esponenti della cultura pedagogica, a prescindere dalle scuole di pensiero di riferimento, responsabili politici e alte burocrazie ministeriali. La riflessione di Galli della Loggia sembra non condividere gli sviluppi della preparazione alla professione docente che include ormai un percorso articolato in cui la visione dell’educazione e l’approccio metodologico hanno conquistato uno spazio proprio. La sola conoscenza delle discipline non viene più considerata sufficiente, per quanto necessaria e fondamentale: in tutti i sistemi di istruzione si è ormai generalizzata una preparazione professionale specifica. Il capitale professionale di cui le scuole si avvalgono comprende la padronanza delle rispettive discipline, ma anche delle dimensioni sociali e di quelle decisionali.[23]

La debolezza della pedagogia, comunque, riporta l’attenzione al mondo dell’accademia, alla ricerca scientifica di settore e alla credibilità delle culture educative. Un semplice sguardo alle classifiche internazionali mostra una collocazione impresentabile delle facoltà di scienze dell’educazione del nostro Paese, soprattutto se confrontate con l’elevato riconoscimento delle facoltà umanistiche (La Sapienza è al top per gli studi sulle antichità classiche, mentre per trovare una posizione in scienze dell’educazione bisogna scendere al 150 posto per l’Università di Bologna). In questo ambito l’autore sembra farsi portavoce di un’ammissione di colpa per il silenzio delle élites accademiche di fronte alla decadenza stigmatizza, l’irrilevanza della questione scuola nei circoli culturali del Paese e la mancanza di presa in carico di una responsabilità non scritta ma determinante per sopperire a una pedagogia debole ma dilagante.

Il declino della lingua nazionale

Sul declino delle competenze linguistiche in italiano e sulla sua presunta lenta agonia si è scritto molto. Galli della Loggia non aggiunge nulla di nuovo ai cahiers de doléances se non nel cogliervi un indicatore di decadimento della scuola nel suo insieme. Peraltro un’analisi accurata dei dati invalsi e del progetto Pisa avrebbe portato informazioni puntuali e comparative sui nostri studenti evitando il ricorso, presente nel testo, a dati di seconda mano di Save the children e integrando le testimonianze dirette.[24] La perdita della lingua è un’emergenza non solo italiana: è comune, peraltro, in paesi come la Francia[25].

La discussione è aperta con qualche voce fuori dal coro[26] e oggetto di denuncia pubblica e di rapporti allarmanti. Raramente seguono indicazioni di lavoro sulla scia di quanto si sta facendo in vari contesti sia per la ripresa dei fondamentali[27] sia per la didattica della lingua italiana nelle scuole superiori.[28]

L’autorità persa

L’avversione alla predella[29] assorta a emblema dell’autorità smarrita degli insegnanti riporta l’attenzione a un problema, letto con gli occhi di ieri, ma quanto mai attuale. L’attribuzione dell’erosione del rispetto e delle deferenza nei confronti di chi insegna e, più in generale della scuola, al tramonto di forme e mode di ieri, difficili da ripristinare, tende a essere diffuso. La denuncia dell’autore, in parte, coglie nel segno. La non assiduità, il tasso di assenteismo degli studenti quindicenni italiani e la difficile gestione delle classi hanno indicatori preoccupanti[30] su cui, tuttavia, la riflessione è carente e l’inerzia dominante. I tempi persi nella gestione della classe, la disaffezione dei confronti dell’impegno scolastico e le varie forme di bullismo sono il risultato di fattori interni ed esterni al mondo della scuola. Nonostante la retorica altisonante delle comunità scolastiche, forme rigide di governo delle scuole, indotte da separazioni tra chi dirige e gli insegnanti, minano la coesione e la condivisione ma lasciano a lato trasformazioni importanti sopravvenute nel mondo della scuola.

Lo stato di disagio di chi insegna e la decadenza di una professione non certo facilitata da altre derive (retribuzioni impresentabili, sovraccarico di incombenze amministrative, accanimento ricorrente delle riforme…) completano il quadro. L’istanza del rispetto di chi insegna, peraltro, è arrivata oggi anche a proposte di legge, senza seguito, per considerare aggravante le aggressioni nei confronti del personale della scuola.

Le nozioni necessarie

L’autore richiama gli essenziali della scuola, dal suo essere indipendente dalla società in cui si trova al suo essere aperta ai tutti, non riservata ai “pochi”. Non appiattita sul contesto la scuola è “irriducibile” alla società e, attraverso l’ossatura dell’istruzione, la lingua, la letteratura, la storia, la matematica, la fisica e la geografia, opera per “strutturare la soggettività dell’individuo”. Di conseguenza tutte le attività di vario genere non rivolte alla formazione della persona ne tradiscono la natura. La storia dimostra che la scuola è stata “uno straordinario strumento di emancipazione personale” (p.57).

Non si tratta di un auspicato back to basics funzionale; l’ossatura dell’istruzione che Galli della Loggia richiama è un’esigenza ineliminabile che, tuttavia, dovrebbe oggi essere rivisitata con nuovi apporti quali la biologia, le lingue straniere o l’alfabetizzazione digitale.

L’anti-nozionismo è una categoria di ieri; oggi il contesto è cambiato. Il bagaglio d’informazioni che i programmi prevedono non è minore di quanto ci si aspettava in passato. I test standardizzati, diventati ormai prassi corrente, presuppongono informazioni puntuali e fattuali pur essendo orientati anche a considerare le ‘teste ben fatte’ non solo le ‘teste piene’. La questione dei contenuti è stata da tempo riconsiderata rispetto alle polemiche del passato.

C’è, inoltre, da considerare, la maggiore facilità di accesso alle informazioni e alla conoscenza da parte degli studenti di oggi con un impatto determinante sull’insegnamento. Per altro pratiche comuni di ieri come la memorizzazione (vedi la diffusione delle mnemotecniche), la ripetizione, il dettato[31] o il riassunto non sono del tutto assenti nelle pratiche didattiche. Naturalmente inserite in contesti contemporanei.

Lo studio individuale

Lo schema “lezione, studio individuale e interrogazione” è talvolta indicato come il modulo della scuola tradizionale coniato soprattutto sul modello del liceo, con uno spazio riconosciuto al lavoro del singolo studente (prevalentemente al pomeriggio dato il carico orario contenuto). Vari fattori hanno modificato questo schema che tuttavia sopravvive pur non riflettendo in modo esauriente l’esperienza reale degli studenti delle superiori o anche del primo ciclo (si veda la ricorrente discussione sui compiti a casa).

é senza dubbio improprio pensare a un semplice tramonto, più o meno lento, di questo schema. In realtà il problema del lavoro individuale, della partecipazione dello studente al proprio percorso di formazione ha assunto termini ben più ampi. In primo luogo la categoria dell’apprendimento indipendente ha aperto un terreno di riflessione sulle informazioni acquisite fuori dall’aula. L’autorganizzazione dell’apprendimento è stato oggetto di indagini e esperienze[32]. La personalizzazione dei percorsi, le attività di orientamento e la diversificazione dell’offerta formativa hanno inciso, pur in modo non uniforme e generalizzato, sull’esperienza scolastica degli studenti.

I modelli indotti dalla disponibilità delle tecnologie della comunicazione, come la flipped classroom, non sembrano rientrare nei frills tecnologici. Peraltro la stessa valutazione standardizzata ha spostato l’attenzione sul singolo studente in misura che non ha precedenti con il passato. I percorsi dei singoli studenti, inoltre, sono diventati tracciabili e oggetto di analisi longitudinali e la percezione dei progressi compiuti è considerata una dei fattori più influenti nei processi di apprendimento[33].

2. La politica inventa l’istruzione pubblica: la trama profonda

La storia e la politica sono indispensabili per capire il senso della scuola (pp.65-66). L’invenzione dell’istruzione presuppone una cultura educativa, una visione, un’idea di che cosa significhi istruire, insegnare e di che cosa s’intenda insegnare. L’organizzazione dell’istruzione ha bisogno di una cultura che dia significato alla scuola, che fornisca il linguaggio per parlare dell’attività d’insegnamento, che indichi le finalità che si perseguono. Da questo punto di vista le grandi sintesi sono come larghe pennellate che attraversano grandi tele veicolando messaggi e ipotesi interpretativi. La trama delle idee sull’educazione, oggetto del secondo girone, da l’émile ou de l’éducation (1762) di Jean-Jacques Rousseau a il Cuore di Edmondo de Amicis, è intrigante e certamente ardita come chiave di lettura di processi di lungo corso.[34]

Nella storia delle filosofie educative Rousseau occupa, senza dubbio, un posto non marginale come ha riconosciuto la storia delle teorie educative moderne[35] anzi punto di partenza di un movimento di idee, colorate dal romanticismo, capace di ispirare realizzazioni di rilievo nell’800 e nel primo ‘900, da quelle di Friedrick Fröbel a quelle di Johan Heinrich Pestalozzi, di riemergere nelle prospettive costruzionistiche e di entrare in quell’amalgama di idee, principi, orientamenti che va sotto il termine di progressismo, integrato nelle politiche scolastiche in vari paesi occidentali.

L’émile ha un ruolo determinante nel pensiero occidentale con il suo messaggio di base: l’essere umano è capace di vivere e di apprendere in un ambiente naturale. Galli della Loggia ritrova nella pedagogia di Rousseau la contrapposizione tra ‘natura’ e ‘società’, tra “l’indole pura del fanciullo” e l’obbedienza prescrittiva (p.71). Arriva a cogliervi anticipazioni di posizioni recenti (anti-culturalismo, sottovalutazione del libro, centralità dell’interesse del bambino, learning by doing, scuola-lavoro…, pp.70-75).

Le borghesie occidentali nel varare i progetti di istruzione riprendono la tradizione classica che aveva formato per secoli le aristocrazie. Le rivisitazioni, nel tempo, sono state numerose e, con il succedersi delle stagioni, i contesti sono mutati. Rimane traccia, tuttavia, nel confronto ancora attuale tra progressisti e conservatori in educazione basati sulla dicotomia tra approcci centrati sullo studente o sull’apprendimento e impostazioni basate sui contenuti o sull’insegnamento. L’influenza nel tempo è da approfondire anche se non tutti i paesi hanno ospitato con ugual calore i dettami del filosofo ginevrino, più popolare negli USA che non in Francia.

Progressismo e tradizioni educative

Anche il filone del progressismo in educazione, come l’approccio convenzionale centrato sulla trasmissione dei contenuti, ha una lunga storia, con John Dewey capofila dagli anni 1930 in poi e l’ondata dei suoi epigoni. Categoria di riferimento, è stata con il tempo alimentata da esperienze e rielaborazioni diventando oggetto di analisi critica sul campo, contrastata da feroci polemiche e ripresa criticamente in più contesti.

Le tradizioni educative hanno un impatto diverso nelle singole realtà nazionali. La ricerca TALIS, condotta dall’OECD sulle pratiche d’insegnamento nelle scuole medie, connota la peculiarità della situazione italiana per la permanenza dell’impostazione tradizionale in misura superiore a quella registrata negli altri paesi. Mentre l’impostazione costruttivistica dominante nei Paesi nordici che è presente in tutti i paesi dell’area OECD anche in quelli asiatici, in Italia ha una penetrazione minore.

Lo spazio che l’autore riconosce al libro, cult si direbbe, di Emondo de Amicis e del novecento italiano, appare non solamente insolito ma anche decisamente disallineato nel panorama europeo. La filosofia del libro Cuore, un riferimento culturale e professionale di tradizione per la scuola italiana, introduce elementi distanti dal dibattito metodologico contemporaneo e successivo. Traduce le intenzioni politiche del tempo centrato sulla costruzione di una scuola nazionale, riflette, in modo manifesto, tratti propri di una cultura patriottica, solo apparentemente socialmente aperta. Conserva, infatti, una visione ideologica che consolida le differenze esistenti salvo esemplificare il merito, i buoni costumi, la solidarietà borghese. Innestando nell’analisi un riferimento inconsueto nelle teorie pedagogiche, Galli della Loggia ha così modo di saldare il dibattito ideologico e metodologico con la preoccupazione per la funzione costruttrice della scuola rispetto alla società, ai suoi valori, ai suoi progetti.

Indirettamente l’emergere di una peculiarità delle culture educative nel nostro paese deriva probabilmente dall’assenza di una considerazione approfondita dell’evoluzione delle teorie pedagogiche che ha caratterizzato l’evolversi delle nostre scuole, come il movimento dell’attivismo e delle nuove scuole.

La politica, l’istruzione e la cultura umanistica

L’ipotesi del declino del Paese derivante anche da quello della sua scuola merita gli approfondimenti dell’analisi di Galli della Loggia che tuttavia, presenta alcune aporie. La prima è la distanza del passato rispetto all’oggi; una discontinuità non solamente in termini di decadenza, bensì anche di nuovi contesti di riferimento, politici, economici, valoriali e sociali.

L’istruzione deriva da una invenzione della politica (p.63): le monarchie illuminate, prima, i protagonisti dell’illuminismo, successivamente, e la borghesia liberale in seguito avvertono la funzione della scuola per la preparazione del cittadino, del nuovo cittadino per il presente e per il futuro. Sulla base rousseauiana s’innesta, così, un’istanza storicamente presente nei paesi occidentali (con esclusione dell’Inghilterra).

In questo contesto la cultura umanistica, anche per il prestigio nella formazione delle aristocrazie del passato, viene considerata come la leva in grado di rispondere alle attese, mentre l’esigenza di formare il cittadino è ricondotta al libro Cuore (1886) di Edmondo de Amicis. Con un approccio di sapore patriottico ma anche con una forte venatura di solidarietà tra i gruppi sociali, dall’alta borghesia alle fasce più deboli, e con un’impronta nazionale che pervade le letture mensili (dal “tamburino sardo” al “piccolo scrivano fiorentino”), il libro che diventa un testo cult per decenni nelle scuole elementari del Paese. E’ la “pedagogia civico-nazionale” coerente con il disegno di “fare gli italiani” (p.88-89). E’ difficile trovare le fila di continuità con le nostre scuole di oggi.

La grammatica della scuola

La seconda aporia riguarda l’organizzazione. Manca in Galli della Loggia una considerazione della permanenza dei sistemi di istruzione. Decifrare la costruzione culturale della scuola è un passaggio obbligato, indispensabile per capire il presente e ragionare sul futuro. La varietà delle posizioni accumulate nel tempo, la molteplicità degli stampi culturali cui ricondurre le molte facce dell’agire scolastico, la sovrapposizione con le stagioni delle impronte ideologiche non impediscono, tuttavia, quella che è stata definita la grammatica della scuola. Un modello organizzativo basato su classi per gruppi di età, su aule con i banchi rigidamente disposti (la lavagna come componente costante nella sua versione in ardesia come in quella tecnologica), con edifici scolastici disegnati come falansteri a cui corrisponde l’idea di programmi di insegnamento scanditi temporalmente, l’impostazione di percorsi ritmati da tappe annuali e sanciti da diplomi terminali, nonché la previsione di libri di testo per l’uniformità ritenuta necessaria.

Questo imprinting comune, diremmo oggi globale, ha regolato le scuole accomodando ideologie diverse e, talvolta, anche contrapposte, ma tracciando uno schema tuttora in vigore, solamente scalfito da quale irruzione innovativa quasi sempre senza durata nel tempo. Questa impalcatura organizzativa, funzionale e istituzionale, ha ospitato categorie pedagogiche diverse mentre prospettive ideologiche alternative non si traducono in reali alternative a questa grammatica consolidata, si potrebbe dire anche sopravvissuta all’invasione tecnologica degli ultimi decenni.

Una grammatica che si presta a processi di riuscita come alla deriva delle patologie o all’appiattimento della mediocrità. Una grammatica al plurale con sistemi scolastici di durata variabile, scansioni non omogenee (due o tre componenti), con tronchi comuni o filiere differenziate. Ed è forse oggi all’origine dei problemi della scuola di oggi: sono cambiati gli attori, soprattutto gli studenti, sono mutati i processi di comunicazione, l’approccio e la costruzione delle conoscenze è variato. Attorno a questa grammatica si sono indaffarati i riformisti della scuola, quasi sempre incapaci di incidere sulla matrice culturale dell’istruzione e, per questa ragione, prigionieri dei modelli organizzativi e funzionali.

Culture della scuola e processi reali

La distanza, che include coerenze e incoerenze, tra culture fondative e prassi operative è difficile da eliminare. Tuttavia, l’esame del crogiuolo culturale in cui prende forma la concezione dell’educare e della scuola fornisce una chiave di lettura importante. Pur disallineati, la filosofia educativa del Rousseau ginevrino e la “pedagogia civico-nazionale” di De Amicis, ispirata al patriottismo e all’interclassismo, portano l’attenzione sui componenti delle culture di scuola e sugli impliciti dei sistemi di istruzione che nel tempo si impongono, si evolvono, talvolta tramontano o vengono rivisitati.

In questa ottica va considerata la formazione del cittadino come compito che lo Stato si assume, pur con qualche contraddizione con le idee rousseauiane di libertà e d’indipendenza. In realtà l’enfasi individualistica del filosofo ginevrino rimuove ogni significato ai processi di trasmissione culturale all’interno di una comunità da parte di una generazione rispetto alla successiva. La conoscenza perde il suo significato educativo. Così, pur a distanza di tempo, l’educazione civica diventa una materia tra le altre. Entrambi insistono sugli impliciti dei sistemi di istruzione, in realtà un complesso culturale da decifrare. Fino a che punto i paradigmi rousseauiani possano rendere conto del modo di operare della scuola, dei suoi criteri organizzativi, dei postulati metodologici è un terreno che richiede verifiche sul campo. Forniscono spunti per la comprensione della cultura della scuola ma non si traducono in indicazioni operative puntuali.

La rivoluzione pedagogica rousseauiana registra un “rovesciamento basilare” (p.85). In Italia si registra una “parabola secolare”. La volontà (“ingenua ma non bugiarda”)  di costruire la nazione con emancipazione civile, dopo mezzo secolo ”storicamente condizionata e sommersa” (p.88), risulta nelle pagine di Menichello. Forse la gesuitica Ratio studiorum ha avuto un peso maggiore come paradigma di riferimento, più implicito che manifesto, nell’impostazione e nella formalizzazione dei programmi di insegnamento.

Entrando in classe, girando per i corridoi, parlando con gli insegnanti, leggendo le carte scritte, ci si trova di fronte a tessere appartenenti spesso a mosaici diversi, a universi di significato e mondi di vita scolastica appartenuti a stagioni diverse, stratificazione, pratiche che si conservano, come i voti, soluzioni che si rivisitano, modalità che sopravvivono all’usura del tempo, opzioni che vengono rilanciate da operazioni retro, procedure alimentate dalla tecnologie ieri non disponibili o accessibili.

3. Giovanni Gentile e le stagioni successive

Breve ma articolata, con lacune importanti precisazioni storiche, è la presentazione dell’intento di Giovanni Gentile di fare della tradizione umanistica la matrice dell’educazione alla cittadinanza. Per la riforma ispirata dalla filosofia idealistica alternativa al positivismo e definita in poco più di un anno, Galli della Loggia rifiuta la definizione della “più fascista delle riforme” e richiama il fatto che fosse auspicata dalla “migliore intellettualità italiana” (p.93). Lo scopo era quello di formare la classe dirigente il cui prototipo era una “personalità nutrita del retaggio della cultura greco-romana travasata nella tradizione delle humanae litterae, considerate entrambi come fonti della modernità occidentale e dell’identità nazionale” (p.94). Una riforma che riconosce la centralità dell’insegnante cui viene riconosciuta più libertà di quella tollerata dal regime. Una riforma resa possibile dalla centralizzazione delle decisioni e dalla determinazione del Ministro nel costruire la propria squadra, avvalendosi di esperti di fiducia e di levatura culturale e scientifica e nel procedere a una ‘feroce scrematura del corpo insegnante all’insegna del merito” (p.96). Senza dimenticare la simpatia ritrovata tra chi l’ha frequentata nel lungo dopoguerra.

Per la verità la “scarsa considerazione in generale per il sapere scientifico” e “la poca attenzione a costruire percorsi scolastici professionalizzanti alternativi a quello liceale” sono riconosciuti dall’autore come “aspetti negativi di non poco conto” (p.94) dell’impostazione della riforma.

Allo stesso tempo Galli della Loggia richiama le difficoltà incontrate nella messa in opera, il suo successivo adattamento negli anni seguenti con erosioni, normalizzazioni e correzioni. Ricorda anche lo sconcerto suscitato dagli esiti della prima edizione del nuovo esame di Stato (“una strage con il 54% di promossi alla maturità classica e giudizi “devastanti” delle commissioni). Su questo punto annotando che “Se ci si metteva … ad accertare ‘effettiva preparazione degli studenti, sì e no la metà superava la prova” (p.97) l’autore lancia “qualche cattivo pensiero” all’oggi (“quando la percentuale dei promossi sfiora il 100 per cento”)[36].

Giuseppe Bottai e la “scuola formativa”

La reazione con vari provvedimenti correttivi (p.98) alla riforma Gentile trova in Giuseppe Bottai e nella sua Carta della scuola la più forte espressione di quella “scuola formativa” che rifiuta, secondo Galli della Loggia, il concetto liberale di scuola e si riaggancia alle prospettive rousseauiana, per la verità, “non già.. in funzione della vagheggiata democrazia comunitaria… bensì della realtà di un regime totalitario” (p.100). La dimensione sociale della scuola, luogo di elezione per formare “la coscienza umana e politica delle nuove generazioni”, emerge come asse di fondo con la valorizzazione del lavoro associato allo studio, la previsione della scuola media unica[37] e la collaborazione tra scuola e famiglia. Si ritrova nella Carta l’anticipazione di quella “nuova scuoll raggiungimento dei “gradi più alti degli studi” diventa un diritto dei “capaci e meritevoli (non di chiunque e unicamente di questi)”(p.107).[38]

4. La trasformazione democratica e la scuola

Il 1968 vide la scuola ‘epicentro’ della grande svolta con effetti duraturi nel tempo, più di quanto avvenne in altri settori, segnando il ritorno della politica sulla scuola.

Il nuovo contesto ideologico-politico

Nella ricostruzione di Galli della Loggia la trasformazione della CGIL in CGIL-scuola (1967), da un lato, e la strategia del PCI del fare politica attraverso la scuola, dall’altro, modificano profondamento lo scenario dell’istruzione: la prima privando il mondo degli insegnanti della rappresentazione settoriale dei propri interessi e creando il sindacato di una istituzione, la seconda introducendo una nuova ideologia del collettivo e della partecipazione. Di questa decisa sterzata i collanti diventano l’antifascismo e la Costituzione.

Nell’ottica tracciata da Galli della Loggia la scuola, e l’istruzione in genere, giocano in qualche modo un ruolo di second’ordine: non tanto priorità quanto piuttosto strumento nobile per ragioni di affermazione politica. è da notare che dagli anni 1970 in poi la preparazione degli studenti italiani, in chiave comparativa, appare e permane critica rispetto agli altri Paesi, e contemporaneamente la professione insegnante è investita da una proletarizzazione con perdita di status e di posizione economica che durerà nei decenni successivi.

La gestione sociale della scuola

La gestione democratica[39] richiama una pagina di storia della nostra scuola che ha visto introdurre modalità della cosiddetta partecipazione sociale che il tempo ha eroso, adattato ma che nessuno dei numerosi tentativi successivi è riuscito a modificare. Per la verità non c’è traccia di un miglioramento della qualità degli studenti attraverso le forme, numerose, pesanti e diffuse, di partecipazione, salvo in qualche misura quelle che hanno coinvolto i docenti nel coordinamento del proprio lavoro. La riforma degli organi collegiali è entrata spesso, in passato, nell’agenda di governi che si sono succeduti, per poi sparire definitivamente nei tempi più recenti.

La svolta della scuola media

L’adozione di un tronco comune dopo la scuola elementare rispetto alla diversificazione dei tracciati è indicata come una decisione significativa di politica scolastica. Per l’autore, con il passaggio del latino da materia curricolare a materia opzionale per venir esclusa nel 1977, ha significato la fine dell’asse classico umanistico proprio dell’istruzione secondaria (p.117).

L’altra faccia dell’autonomia scolastica

Di autonomia scolastica si è parlato a lungo nel corso degli ultimi venti anni anche se è mancata ad oggi la celebrazione dell’età matura di una scelta preparata per quasi dieci anni e varata agganciata a provvedimenti di riassetto dell’amministrazione pubblica[40]. In linea con le trasformazioni che hanno modificato il paesaggio scolastico l’autonomia scolastica, secondo Galli della Loggia, è uno degli ultimi capitoli di una vicenda di deresponsabilizzazione nei confronti della missione della scuola come asse portante della vita di una società. A farsi carico di quello che il sistema di istruzione deve occuparsi viene chiamato il singolo istituto scolastico all’insegna dell’autonomia che secondo l’autore diventa il feticcio ideologico dell’intero edificio dell’istruzione pubblica(p.128). Alla più convenzionale presentazione dell’autonomia come affermazione del protagonismo della singola scuola, della sua leadership, nell’elaborazione di una proposta formativa calibrata sul territorio l’autore rovescia l’ottica: l’attribuzione di discrezionalità alle scuole svela uno “sganciamento strategico” (p.130) del centro e, più in generale, l’”abdicazione della politica” (p.131) generando una vera svolta caratterizzata dallo spaesamento per chi lavora nella scuola. La scuola esce dall’agenda del Paese.[41]

Tra gli effetti deleteri Galli della Loggia richiama l’ambivalenza del rapporto con il mondo circostante che determina “l’assoggettamento al contesto” p.134) e la “gerarchizzazione classista ” tra le scuole derivante dal regime di concorrenza: processi osservati anche nel mondo dei collèges francesi e criticati dall’esperto canadese Michel Fullan[42]. Scrive la mancata evidenza di un miglioramento della qualità dell’insegnamento cosa che, peraltro, trova conferma nella sostanziale stabilità dei risultati OECD-PISA tra il 2000 e il 2015, gli anni dell’autonomia (ad eccezione per la matematica). Viene meno l’esigenza di un’identità culturale della scuola italiana (p.136) che, al contrario, diventa fattore di divisione sociale e di discriminazione e, in sintesi, si “colpisce al cuore l’unità del paese” (p.136).

5. La modernità impazzita: i programmi d’ insegnamento e la loro retorica

Nella vicenda della scuola italiana la transizione alla modernità è stato un passaggio critico, sostanzialmente non riuscito o fuorviato. Tra i diversi aspetti del mutamento, dall’afflusso in massa di nuovi insegnanti all’esplosione della popolazione scolastica, dalla crisi delle strutture edilizie alla demolizione delle barriere lungo l’itinerario scolastico, richiama la nuova dimensione della “formazione” e “democrazia” da cui scarturiscono, poi, le scelte dei singoli campi di azione, dai programmi di insegnamento alla nuova didattica.

Dall’istruzione alla formazione i programmi Non si parla della organizzazione, rimangono le materie, ma cambia il loro significato, con qualche aggiunta corretta pedagogicamente. Questo cambiamento viene illustrato, come vedremo, con il caso della storia, una materia tradizionalmente al centro del modello umanistico letterario basato su schemi storici.

Le pagine indicano uno dei nodi dei programmi scolastici, devono dialogare con le comunità disciplinari, possono essere spinti a rivedere impostazioni e priorità, devono trovare modalità di sintesi

Il nanerottolo saputo

Le mode culturali e metodologiche attraversano tutte le discipline, dalla storia alla matematica, dalla filosofia alla fisica con scuole di pensiero che si scontrano, prospettive nuove che si aprono, orientamenti che tramontano. La scuola deve interagire con queste transizioni e stabilire interazioni dinamiche con le diverse e rispettive comunità accademiche per definire i programmi per le singole discipline. Può avvenire che il dialogo s’interrompa, che le versioni dei programmi durino più del dovuto, che i contenuti e gli approcci appaiano datati.

Negli studi storici è avvenuta una singola interazione nei decenni passati. Galli della Loggia la riassume così: “Nel quarantennio che va all’incirca dal 1935 al 1975 la ricerca ha conosciuto importanti novità, più o meno tutte riferibili che sempre più spesso è stata attribuita al ruolo agli aspetti economici, e in genere strutturali, nonché ai fattori socio-antropologici, a scapito del ruolo tradizionalmente, invece, alle ideologie, alla dimensione nazionale, agli aspetti militari, alle istituzioni e ai fatti politici nonché alla personalità degli attori” (p.148).

Nel caso della storia la scuola si è adattata ai nuovi orientamenti mantenendoli anche quando essi sono tramontati. Ha rivisitato l’insegnamento alla luce di uno studente trasformato in ricercatore, combattendo il nozionismo. E ipotizzando la costruzione della conoscenza storica per successivi passaggi bottom up.

Se è essenziale il dialogo tra la scuola e le comunità accademiche, un breve sguardo alle successive stagioni pare confermare le critiche del professore Galli della Loggia: le formule delle élite accademiche (Vertecchi, Frabboni o Corradini), del gotha degli esperti raccolti nella Commissione dei saggi di berlingueriana memoria o delle aggregazioni faraoniche (oltre 250 membri) del ministro De Mauro non sembrano aver dato esiti significativi nella compilazione dei programmi scolastici.

Il caso della storia

Il caso della storia si presta soprattutto a illustrare un’altra dimensione del difficile compito di integrare le discipline nei programmi della scuola. C’è da premettere che tradizionalmente la storia ha fornito lo schema di tutta la cultura umanistica. ha colto l’occasione per stravolgere il senso dell’insegnamento della storia combattendo il nozionismo, da un lato, ma soprattutto rifiutando la funzione identitaria giocata per lungo tempo dalla scuola. Che cosa è avvenuto?

é venuto meno un ruolo che secondo Galli della Loggia aveva svolto in passato[43]. L’esempio viene ripreso dall’insegnamento della storia che ha subito un profondo cambiamento. I programmi sono parte di un contesto e non sono torre d’avorio protetti contro le turbolenze culturali d’ambiente. E’ indubbio che la preoccupazione di consolidare una nazione può affievolirsi mentre processi di globalizzazione modificano i quadri sociali e culturali di riferimento, incidendo sulle concezioni nazionali spesso tramandate dalla tradizione. Le reazioni non sono le stesse in ogni paese e forse in Italia la debolezza dello Stato ha accentuato.

Da considerare lo scarto tra i programmi e le conoscenze degli studenti a conferma di problemi di implementazione, ma soprattutto l’assenza di un metodo storico e l’enfasi sugli aspetti economici a scapito di altre componenti del comportamento umano, singolo e collettivo, nel tempo.

Il titanismo pedagogico

Scrivere i programmi per la scuola rimane è uno spartito per un’arte con varie interpretazioni.[44] Trovare il codice efficace è difficile; più facile oscillare tra l’abbondante retorica, con la ridondanza del linguaggio, spesso impreciso, e l’adozione di tassonomie di dettaglio imbrigliando i contenuti e le forme dell’insegnamento atteso nelle scuole. A questo si aggiunge quella terra di mezzo tra indicazioni operative e linguaggio scientifico che porta a creare, quasi artificialmente una lingua di settore. Ma è la considerazione del significato strategico dei programmi scolastici nei processi di cambiamento a fornire la chiave di lettura.[45]

Con il passaggio dall’istruzione all’educazione, sostiene l’autore, si mina alla radice il binomio istruzione e cultura, garanzia della civilizzazione attraverso la conoscenza, diventa dominante la preoccupazione della formazione con la conseguenza del necessario riorientamento delle materie, soprattutto di cultura generale, da cui è difficile prescindere. Ed è “nel cambiare la prospettiva e il significato culturali delle singole discipline di un tempo”, che si pensa di inseguire la modernità e “si confondono i lineamenti e la specificità a pro di una continua istanza ’interdisciplinare’ e ‘transdisciplinare’” (148) più che non nell’aggiunta di nuovi insegnamenti[46].

Il professore Galli della Loggia ha buon gioco a riportare brani di testi di programmi per evidenziare una sorta di neo-lingua all’insegna della dominanza pedagogica. Nel momento in cui i programmi cessano di essere centrati sui contenuti, il rischio è che la retorica prevalga. Rispecchiano il cambiamento di paradigma.

I programmi scolastici non sono testi da decodificare, bensì processi complessi di definizione e di messa in opera. Peraltro la loro implementazione rivela percorsi di reinterpretazione, di rivisitazione, di erosione e di riduzione con  dinamiche di segno diverse quando non opposto, come dimostra la ricerca empirica sulla messa in opera dei curricoli scolastici. Le critiche di Galli della Loggia vanno integrate con un approccio ai programmi come capitoli delle politiche pubbliche per la scuola.

6. La nuova didattica e le sue illusioni

Già abbiamo accennato alla svolta storica dei sistemi di istruzione verso le valenze tecnico-scientifiche e professionali: questa tendenza continua in forme diverse di volta in volta rinnovate. La transizione dal “sapere al fare” coglie una di queste tendenze che la felice coincidenza (p.188) “tra la istruzione fondata sulla cultura umanistica e l’educazione /formazione” (p.188) alla radice della tradizione italiana della scuola basata sul conoscere e non sul fare.

Questa transizione, secondo l’autore, ha stravolto l’intero impianto umanistico e con le riforme “democratiche” ha influenzato l’impostazione dell’insegnamento (dai contenuti alla loro applicazione), la valutazione degli apprendimenti (da profitto a competenze).

Cruciale in questa evoluzione è, scrive Galli della Loggia, la dilagante influenza europea, alla radice ispirata ad una concezione funzionalistica dell’istruzione, disallineata rispetto alle tradizioni nazionali di stampo umanistico. La sostituzione del profitto con le competenze veicola una diversa concezione della stessa istruzione, rinnegando, con un approccio orwelliano secondo l’autore (p.183) e con il legame del percorso scolastico alle domande del sistema produttivo, la “poliedrica versatilità” (p.184) dello studente. Portando, inoltre, l’attenzione sulle softskills, terreno recente di intervento, le organizzazioni internazionali “stanno prendendo in mano il destino anche culturale, e direi perfino mentale, dell’Occidente” (p.185) trovando ascolto e seguito, nel nostro Paese, nelle burocrazie ministeriali e nell’Invalsi. Con l’orientare le hard skills verso il saper fare, inoltre, si sancisce definitivamente “un sostanziale ostracismo al conoscere ‘inutile’ e ‘disinteressato’” (p.187-8).

In questo ambito la cultura scientifica è inglobata, secondo l’autore, nella tendenza al predominio di quanto “è quantificabile”, “scientifico” e “tecnico” (p.188) sotto “l’impulso scientista-tecnocratico”(p.185).

Le “competenze” sostituiscono il “profitto

Il movimento europeo delle competenze ha invaso il mondo dell’istruzione nel nostro come in altri paesi, rimodellando prassi del passato e introducendo nuovi modi di considerare l’insegnamento. Il “pedagogismo formulistico” (p.185). Così il portfolio delle competenze può diventare “la fiera delle frasi fatte e delle formule di circostanza” (p.184). Peraltro la compresenza sovrapposta di due approcci e di due modelli diversi non è che un ulteriore sovraccarico di lavoro, oltre che espressione di una confusione concettuale indotta dall’incapacità di scelte coerenti e, pertanto, escludentesi.

Gli insegnanti “… possono fare non proprio quello che vogliono ma quasi” (p.171)

E’ difficile non dare ragione all’autore se si leggono i paragrafi dell’autonomia contenuti nelle norme o nei documenti formali che le accompagnano: agli insegnanti e alle scuole viene lasciata una discrezionalità presso che totale[47]. In realtà i vincoli esistono negli ordinamenti, nelle risorse disponibili, nei criteri di gestione, nelle regole (classi di concorso, orari di lavoro, condizioni contrattuali…), nei programmi/indicazioni e negli esami di Stato, sia nelle aspettative delle famiglie, dei colleghi e della leadership di scuola. In un’indagine TALIS sulla scuola media i docenti del campione italiano hanno affermato nel 51% dei casi che negli ultimi cinque anni non erano stati oggetto di alcune ispezione o controllo diretto delle attività di insegnamento. L’autonomia si aggiunge alla mancanza di controllo amministrativo, nella tradizione assicurato dagli ispettori, come ricorda l’autore. In ogni caso, anche in chiave comparativa gli spazi di manovra nell’organizzazione dell’insegnamento sono apprezzabili.

Le materie umanistiche richiedono un insegnante che sia all’altezza del compito (p.56)

Tra il dire e il fare…”

Sapientemente nel testo ricorre spesso il richiamo alla distanza tra le affermazioni e le realizzazioni; questo è un divario costante nel campo educativo rendendo spesso difficile discutere di paradigmi o di criteri sapendo che poi non hanno traduzione operativa coerente nel quotidiano della vita di una classe o di una scuola. A partire dalla Carta della scuola di Giuseppe Bottai, approvata alla vigilia della guerra ma mai entrata in vigore di fatto (p.99).

Il Moloch digitale

Analizzato da vari punti di vista, soprattutto in termini di alternativa alle consolidate tradizioni, il nuovo scenario digitale dell’insegnare aggredisce alla radice il paradigma di base della cultura. La diagnosi della sottomissione italiana alle tendenze generali e alle indicazioni europee e del conformismo pedagogico non apre spiragli all’imporsi come strumento principe della didattica, non lascia scorgere vie di uscita[48]. La scuola digitale si rivela la “sovversione dell’intero apparato pratico-concettuale che ha sin qui presieduto all’istruzione” (p.192). Peraltro l’irruzione tecnologica è in atto da anni e, seppur piano piano, estende il mutamento delle nostre classi fino quasi a una loro radicale trasformazione in “insieme di individui”: pensiero logico-computazionale, insegnante facilitatore, ridimensionamento del libro, frantumazione dell’esperienza di classe, marginalizzazione della lezione in classe sono i nuovi termini.

Va, tuttavia, ricordato che l’Italia ha un livello di dotazioni tecnologiche nelle scuole comparativamente limitato, se si guarda in faccia la realtà. Il rapporto OECD[49] sul tema segnala che il divario è ormai incolmabile. Abbiamo, quindi, una scuola moderatamente sul sentiero dell’innovazione tecnologica, riflesso peraltro di un paese moderatamente innovativo.

Le competenze digitali dei nostri studenti, inoltre, sono limitate se comparate a quelle degli studenti di altri paesi (PISA): se si tratti di un colpevole ritardo o di una ragionevole resistenza rimane una domanda sub iudice.  L’autore denuncia un cambiamento “Senza che vi sia alcun controllo circa i risultati delle loro mirabili decisioni ’innovative’” (p.191)[50]

In questo contesto non sfuggono all’autore le trasformazioni in atto tra cui il ruolo di multinazionali dell’istruzione e del digitale[51] in grado di assorbire case editrici della tradizione italiana e dominare settori importanti del mercato dell’editoria, libraria e digitale, per le scuole (p.175).

A integrazione può essere utile ricordare che nella realtà convivono soluzioni e pratiche di stampo diverso: i voti, anche numerici, sono rimasti, che la disciplina, pur ribattezzata come management della classe, è tuttora un problema aperto, che per anni è esistita l’esclusione dagli esami di stato per condotta inadeguata. Così come la memorizzazione, il riassunto, lo scrivere a mano, i libri di testo non sono del tutto tramontati.

7. Don Milani e la Costituzione

Il settimo capitolo è il più denso, da leggere, essenziale per capire i precedenti. L’autore affonda la sua acribia di storico relativizzando la vulgata corrente. Sviscera la nozione di scuola di classe, propone una lettura, tranchant ma puntuale nei dettagli, della Lettera a una professoressa, rivisita il profilo dell’abate di Barbiana uscendo dall’immagine agiografica corrente[52]. Disbosca il concetto di democrazia e di scuola democratica, proponendo un approccio alla Costituzione, attento alla storia e critico nei confronti del suo utilizzo. Don Milani e la Costituzione offrono l’occasione per sintetizzare le proprie posizioni profonde sull’istruzione, sull’educazione e sulla scuola, già peraltro esplicitate nei capitoli precedenti.

La scuola di classe

Che l’esperienza di Barbiana, circoscritta e temporanea, non sia stata un evento transeunte è dimostrato da quanto nei decenni successivi in cui ha avuto luogo, che GDL descrive come santificazione e trasformazione del documento chiave in una bibbia per il riformismo italiano. Dà l’occasione all’autore per affrontare quello che chiama classismo, l’intero processo di accesso di tutti alla cultura e all’istruzione e alle strategie messe in atto per portarlo a termine.

Il tema dell’inclusione è a chiave di lettura del classismo della scuola. Non c’è riferimento, come avviene in altri testi, alle carenze strutturali, alle patologie della selezione e del reclutamento degli insegnanti, della drastica contrazione delle risorse, fattori non dimenticati ma non considerati centrali. Il nodo è la cultura dell’inclusione e il modello di democrazia che ha regolato l’impianto della scuola, la sua concezione e le azioni conseguenti.

La rilettura della Lettera a una professoressa

La rilettura, dissacrante e caustica, del manifesto di Barbiana da parte del professore Galli della Loggia è, senza dubbio fuori, dal coro. Propria dello storico uso all’analisi documentale, l’esegesi, tuttavia, si rivela puntuale: si evidenziano le contraddizioni, si fanno emergere posizioni abitualmente rimosse e si recuperano contenuti ignorati facilitando per il lettore una comprensione contestualizzata di un testo diventato con il tempo manifesto politico. Rintracciando premesse determinanti, dal “miraggio terzomondista” (p.202) al “populismo cristiano”(p.203), elencando posizioni spesso dimenticate, dalle classi differenziali (“quando funzionano sono la cosa più bella”) al celibato dei professori, dai sette giorni di scuola settimanali all’orario giornaliero, precisando letture affrettate, dalla bocciatura non esclusa nella scuola post-obbligo (i ragazzi di Barbiana sostengono lo sbarramento in caso di preparazione inadeguata), Galli della Loggia più che scuotere un mito intangibile, mette a nudo i processi di interpretazione che nel tempo ha subito la Lettera a una professoressa, con “numerosi travisamenti e tradimenti”(p.198), per rimarcarne l’“impressione della sua assoluta inattualità”(p.197).  apprezzando l’enfasi sulla lingua da possedere, Ma oltre

Già precedenti nella scelta di un’unica scuola elementare rispetto ai tracciati diversi attivati in Francia nello stesso

tempo. Cuore. Non solo tutti promossi, nota con puntualità che anche i ragazzi di Barbiana sostengono lo sbarramento in caso di preparazione inadeguata

Don Milani ha vinto”: in che senso?

Tutt’altro che iconoclasta del Priore santificato e tradito (p.203), Galli della Loggia riconosce “pagine di maggior efficacia e di maggiore, drammatica verità” quelle in cui “si denunciano le mille forme insieme grossolane e sottili che prende la discriminazione classista” (p.204), confessando che “chi ha l’età di chi scrive e ha frequentato quella scuola classista, senza ovviamente accorgersi di nulla, non può non leggere con un senso di vergogna le statistiche raccapriccianti… sull’entità della falcidia che da un anno all’altro del ciclo dell’obbligo veniva operato dal meccanismo apparentemente imparziale della bocciatura” (p.204). La scuola italiana, seguendo il vangelo di Barbiana, ha issato la bandiera dell’inclusione nell’ufficialità, ma non ha raggiunto l’obiettivo che si proponeva e, in questo, l’ha tradito. La deformazione lassista e l’impoverimento dei contenuti hanno privato la riuscita scolastica delle valenze che dovrebbe avere per la formazione degli studenti, soprattutto se in condizione di svantaggio.

Anche se non è facile districarsi miti e dati di realtà, le pagine di Galli della Loggia su don Milani sono da leggere. Anzitutto ambivalente appare oggi la figura di don Milani “della cui vera lezione la più parte è andata perduta e molto è stato manipolato e travisato” (p.213). Riconoscendo che il testo della Lettera “è stato decisivo per aprire la scuola a strati sociali che prima ne erano ai margini ne erano esclusi” (p.214) lo storico ne colloca la traiettoria nel “destino di tutte le rotture” (“essere riassorbite attraverso la loro parziale, anzi parzialissima attuazione”(p.214). Infatti, dopo la fase calda della rivendicazione contro la scuola di classe, scrive l’autore, non si è proceduto ad assicurare al maggior numero possibile dei benefici della scuola e dell’istruzione, bensì si è agito per “mutare la natura e l’organizzazione del sapere che si somministra nelle aule scolastiche” (p.215). All’insegna della sostituzione della “scuola borghese o di classe” con la scuola democratica, l’insuccesso scolastico diventa uno spettro che apre la strada della mistificazione (p.219) in cui convergono l’attenuazione del “valore disciminatorio del merito” (p.221) e la “strategia dell’occultamento e della finzione” (p.221) sui risultati negativi degli studenti.

La Costituzione

Fanno riflettere le pagine dedicate alla Costituzione repubblicana: pur contestualizzato il testo presenta i segni, o le rughe, del tempo oscurate dal dilagante destino sacrale. Alla feticizzazione della Costituzione, “bibbia valoriale” di riferimento, Galli della Loggia oppone una esegesi senza pregiudizi: nel testo costituzionale non si rintraccia un’esplicita affermazione del diritto alla conoscenza e alla cultura di ogni singolo cittadino, non si assegnano al sistema scolastico fini espliciti (“di tale assegnazione …in realtà non vi è alcuna traccia” p.222). I temi educativi sono collocati nella sezione dedicata ai rapporti sociali senza un robusto e autonomo spazio e riguardano le condizioni di accesso e l’organizzazione.

Pur trasformata in oggetto disciplinare di studio, il testo si rivela, quindi, datato. Non si può non dare atto all’autore di questa sottolineatura inconsueta che sembra richiedere un’opportuna rivisitazione della carta costituzionale sul tema dell’educazione.

Il destino del testo è intrecciato con l’evoluzione della cultura di scuola.

Istruzione ed educazione

In tutto il volume uno dei temi sottostanti e qui e là tematizzati esplicitamente è il dualismo tra istruzione e educazione. le cui radici affondano nella svolta rousseauiana (p.67). La distinzione, o contrapposizione, polarizza il dibattito. La svalutazione della pedagogia e il disprezzo per le questioni metodologiche, da un lato, e il richiamo della valenza formativa dello studio dei contenuti, dall’altro non sembrano conciliabili. L’autore sottolinea la fallacia di facili formule quali imparare ad imparare se private di uno specifico contesto di conoscenze e denuncia l’esclusione, implicita nell’”evocare nell’ambito della scuola l’educazione insieme all’istruzione” (p.230), di ogni funzione educativa attribuibile al sapere e all’istruzione, derivante da una concezione riduttiva del sapere come “somma di nozioni inerti prive di anima” (p.230). In quest’ottica la retorica[53] della “comunità educativa” ispirata ai principi del “Buon cittadino” “è solo il miraggio” data la incapacità di comunicare alle giovani generazioni “un retaggio storico e un’identità civile” (p.231).

Rimane, tuttavia, il dubbio che i messaggi pedagogici di una filosofia progressista abbiano realmente occupato le menti degli insegnanti e ispirato l’agire nelle classi in misura estesa. Ci sono ondate che vengono reinterpretate dai docenti e, proprio per il fatto annotato dall’autore della relativa discrezionalità lasciata agli insegnanti, i modelli di insegnamento sono probabilmente più ibridi di quanto si possa pensare. La promozione facile e l’indulgenza valutativa non sembrano impedire agli studenti di talento di raggiungere livelli di eccellenza, seppur non con la diffusione che si vorrebbe.

Un libro da leggere

Il volume è leggibile, banco di prova per chi pensa di sapere di scuola. Caustico, militante si direbbe, tagliente, appassionante a tratti, acerbo in giudizi al limite dell’intolleranza. Galli della Loggia costruisce una narrazione fatta di riflessioni, con l’attenzione dello storico alle vicende fattuali, sensibile alle diverse fondi di conoscenza[54], documentata anche sui prodotti della burocrazia ministeriale, ricco di informazioni aggiornate, non senza qualche “descrizione polemicamente sommmaria” (p.79) e qualche interessante spaccato di realtà[55]. Contro la “discussione povera e asfittica“(p.66) la prospettiva storica aiuta a capire.

Che il nostro Paese non abbia saputo ricostruire la propria scuola affrontando e portando a termine la modernità alla fine del Novecento è convinzione di molti analisti ed esperti nonostante, o proprio a causa, di giganteschi cambiamenti (il 90% alle superiori, docenti da 300.000 a 700,000; mutamenti nella popolazione scolastica) hanno travolto il sistema scolastico, tradito dalla politica, dall’ideologia e dall’opinione pubblica. Il volume dello storico Galli della Loggia trova posto nello scaffale dedicato alla letteratura critica sulla scuola accanto ad autori di rango: una letteratura non strettamente accademica che ha accompagnato e accompagna il divenire della nostro scuola.

Si può discutere se il libro sia d’interesse, se rispecchi le posizioni di chi legge o se, al contrario, le contrasti. Senza dubbio trovare rispecchiati i propri pensieri può accrescere la propria autostima; ma è altrettanto vero che gli scarti tra quello che si legge e i propri pensieri genera curiosità, stimola l’argomentazione e spinge a fare dei passi in avanti con nuove ipotesi, con nuovi argomenti, con posizioni rafforzate con dubbi insinuati. Da questo punto di vista una lettura senza pregiudizi de L’aula vuota non manca di sollecitare alcuni approfondimenti benefici[56].

1. Spigolature

Oltre che per la tesi dell’affondamento della scuola che unisce i suoi sette capitoli, il volume tocca trasversalmente questioni di fondo che non possono non appassionare chi lavora o riflette sulla scuola. Disseminati qua e là nelle 235 pagine emergono, infatti, temi per un dibattito più ampio, generale e sensato.

La scuola non serve a nulla

C’è qualcosa di profondo, di filosofico, di richiamo all’essenza dell’educare nell’affermazione, apparentemente provocatoria, che la scuola “non serve a nulla”. La cultura ha valore in sé, non è strumentale[57] e materie come il greco e il latino sono “uno strumento prezioso di crescita intellettuale e culturale”innanzitutto perché sono inutili” (p.22). Il significato della scuola non va cercato nella sintonia con la società attuale (p.55), bensì nello “strutturare la soggettività dell’individuo, arricchendola, dandole molteplicità di contenuti, contraddizioni, spessore” (p.55). A questa considerazione che attiene alla natura dell’apprendere profondo occorre però accostare la reale fenomenologia della scuola nel tempo. In tutti i paesi occidentali si è avuta una svolta storica della scuola o di interi settori verso obiettivi di carattere professionale nell’ottica di un capitale umano da predisporre per il progresso e lo sviluppo economico. In molti sistemi la vocazionalizzazione della scuola secondaria ha preso piede in forma prevalente[58]. D’altra parte la scuola non può rimanere inerte rispetto ai cambiamenti delle professioni e del lavoro. Non è un caso che anche il professor Galli della Loggia citi i casi virtuosi degli ingegneri che negli anni 1950 che hanno costruito l’Italia.

L’eccesso dell’assolutismo nelle teorie (la scuola disinteressata) è sempre un rischio, come cedere all’abbaglio di fronte alle retoriche; quando errori collettivi e sbandate storiche si verificano, l’inversione di marcia per quanto difficile diventa d’obbligo.

In ogni caso la lettura delle pagine dello storico Galli della Loggia potrebbe essere un antidoto contro quell’ educational gospel che ha ispirato ed ispira scelte politiche diffuse e quella filosofia implicita secondo l’autore alla radice del Brussels effect, per la ricerca di un equilibrio più avanzato tra l’accesso alla cultura non elitistico ma sensibile al pragmatismo delle traiettorie personali di vita sotto tutti gli aspetti, Rivendicando che “la scuola deve pensare a sé stessa come qualcosa di diverso e in fondo irriducibile alla società” (p.54).

L’insegnante nell’angolo o al centro?

Secondo la sapienza comune la qualità della scuola non sarà mai superiore a quella degli insegnanti che in essa lavorano. Com’è l’insegnante dell’aula vuota? Quale profilo di chi insegna? Quale immagine di chi opera in classe? Per la verità se nel volume è breve il capitolo sugli insegnanti (138-143), il tema è presente direttamente o indirettamente, in vari passi. La risposta agli interrogativi richiede la raccolta di annotazioni sparse.

Premiato dall’autonomia che gli consente discrezionalità, libertà e possibilità di riscatto, l’insegnante in realtà non traduce queste potenzialità in pratiche concrete: sovraccaricato d’incombenze, si concede al mercato dei luoghi comuni nella compilazione dei portfolio come nella valutazione degli scrutini. Secondo l’autore, in questo con uno sguardo al passato, perdendo il potere di bocciare, l’insegnante subisce un crollo di status e si presenta disarmato di fronte agli studenti. Impotente nella lezione in classe per l’abbassamento della soglia di attenzione degli studenti (p.194), è bersaglio di polemica nella Lettera a una professoressa e portato alla ‘smaccata indulgenza’ (p.201) nel valutare gli studenti al termine della scuola media.

La fatica degli insegnanti dovrebbe essere diversamente orientata (p.221). Di un ruolo, tuttavia,  riconquistato degli insegnanti si legge nei paragrafi conclusivi (p.233) del testo: la scuola oggi “sopravvive, quando riesce a farlo – solo grazie alla buona volontà di un certo numero di insegnanti che poco o nulla possono contro l’insieme impressionante delle forze avverse: ordinamenti sbagliati, adempimenti burocratici soffocanti, cronica mancanza di mezzi, una pervadente demagogia, l’impreparazione e l’infingardaggine di molti loro colleghi, la losca politica dei sindacati interessati solo al mantenimento del loro rovinoso potere”(p.233).

L’autonomia professionale sganciata dall’assoggettamento alle istanze esterne è all’origine dell’apprendimento autentico. La deriva democratica di cui parla l’autore è più la deriva di una pseudo democrazia impropria mai compiutamente analizzata e criticamente rivisitata. E la valenza individuale non può, oggi, essere considerata in antitesi con la capacità collettiva (collective teacher efficacy) che si rivela fattore determinante per la qualità degli studenti. Ovviamente la cooperazione tra insegnanti presuppone atteggiamenti professionali e spessore culturale, condivisione di obiettivi, non si esaurisce alimenta solo con pratiche collettive.

Dopo le ondate di pedagogizzazione dell’insegnamento è probabilmente tempo non tanto di un ritorno al passato quanto ad un nuovo equilibrio tra l’insegnante persone di cultura e metodologicamente professionale (Fullan, like a pro). In questo senso alcune pagine/arringhe di Galli della Loggia sono importanti.

Ogni 200 italiani c’è un insegnante, è quindi probabile che nelle famiglie di intellettuali, le tracce lasciate dalle maestre in famiglia siano ancora numerose, come la nonna Nerina (p.10) per il Professor Galli della Loggia, a mantenere viva la memoria di un’aula che si è svuotata, ma anche di un impegno civile che attraversa la storia della professione nelle successive epoche.

L’autonomia come apriori

Nella ricostruzione del passato non poteva mancare uno sguardo all’autonomia, parola chiave di qualche decennio di politiche educative nel nostro Paese. Le annotazioni dell’autore riservano sorprese e sollecitano riflessioni rare fino ad oggi, pur a distanza di 20 anni dalla svolta berlingueriana. Fare chiarezza è un modo per capire più a fondo un capitolo recente della storia della nostra scuola.

Senza dubbio collegare l’autonomia scolastica del biennio 1997-99 ai decreti delegati degli anni 1970 è un po’ azzardato, dato il diverso contesto, il contenuto disomogeneo, pur in presenza di principi ispiratori comuni, quale il ridare uno scrollo al regime scolastico e operare un’erosione dell’impianto centralizzato. Fondamentalmente la gestione sociale delle scuole, in realtà, incide sui meccanismi interni alla scuola nelle forme di partecipazione dei diversi soggetti coinvolti, mentre l’autonomia successiva riguarda più il funzionamento della singola unità scolastica rispetto al potere e all’amministrazione centrale e periferica.

La debole autonomia italiana nel panorama globale appare evidente: non incide significativamente sulla gestione del personale e non riguarda, se non in misura molto limitata, le decisioni sulle risorse finanziarie e e sugli aspetti strutturali, pur aprendosi spazi sull’organizzazione dell’insegnamento, all’interno di vincoli che rimangono. Si recidono, senza dubbio, lacci e lacciuoli che imbrigliavano le procedure amministrative e si alleggerisce l’organizzazione territoriale con la sostituzione dei Provveditorati agli studi con strutture leggere. In ogni caso a una lettura comparativa la celebrata autonomia italiana dal biennio 1997-99 in poi è un modello minimalista rispetto al movimento globale che per qualche decennio ha dominato nelle agende politiche[59] molto distante anche dal manifesto di Sabino Cassese del 1990 da cui ha origine il dibattito e l’elaborazione sull’autonomia[60].

Rimarchevole, tuttavia, è la lettura, proposta dall’autore, della stagione dell’autonomia come abbandono da parte del centro di un ruolo propulsivo e abdicazione rispetto alla necessità di una politica nazionale. Da questo punto di vista Galli della Loggia, non senza ragione e perspicacemente, pare indicare la vera carenza non tanto nella discrezionalità riconosciuta alle singole istituzioni scolastiche quanto piuttosto nella non ridefinizione del ruolo del governo in un regime di scuole autonome. La deresponsabilizzazione del centro non è un esito inevitabile[61].. Mancando una rivisitazione dell’azione politica generale, in assenza peraltro della definizione prevista dalla legge di alcune condizioni come i livelli minimi di prestazione, il ministero ha continuato, pur in forma attenuata, ad agire come se nulla fosse avvenuto. Per di più con un uso strumentale, richiamato da Galli della Loggia, della stessa discrezionalità lasciata alle scuole.

L’idillio di una scuola triste

Gli effetti del 1968, “gigantesca frattura culturale” (p.19) sono stati certamente a banda larga. Nell’ottica dell’autore la scomparsa dello sforzo, la sottovalutazione del merito, il tramonto dello studio e la facile promozione sono componenti tra di loro integrate dell’abbandono dell’aula di quella scuola che le élites della generazione a cui appartiene l’autore hanno frequentato. Per la verità nella scuola di oggi canoni del passato non sono estinti, sopravvivono ed esistono rivisitati. E’ in atto certamente una transizione metodologia e didattica da cui non sono escluse, tuttavia, le discipline, le pratiche di memorizzazione o lo studio dei contenuti, il riassunto e l’allungamento dei tempi di scuola, anche se nuove soluzioni sono entrate nell’attività in classe, dal ricorso alle tecnologie alla verifica degli apprendimenti con interventi valutativi standardizzati nazionali e internazionali.

L’idillio del presunto benessere degli studenti senza sforzo non trova supporto nei dati di ricerca. I rapporti OECD PISA parlano di una scuola italiana i cui studenti hanno livelli di soddisfazione e di motivazione inferiori a quelli dei coetanei europei, accanto a tassi di assenteismo dalla scuola del tutto fuori misura rispetto quelli registrati negli altri Paesi.

Reduction ad unum”: un’ipotesi sostenibile sul ruolo dell’Europa?

Nel panorama italiano la dimensione europea ha conosciuto forti oscillazioni, da miraggio condiviso a sintomo di debolezza nazionale e d’invasione impropria. Sostenere che le direttive di Bruxelles imprigionano la nostra scuola non richiede argomentazioni, è posizione facilmente condivisa a prescindere da analisi puntuali. Galli della Loggia parla di una reductio ad unum come strategia degli eurocrati rispetto allo spettro dei sistemi scolastici nazionali (p.145 nota 1) con il convergere del punto di vista pedagogico-educativo e dell'”ideologia scientista-tecnocratica egemone negli uffici di Bruxelles” (p.146). Questo sarebbe il risultato di interventi regolativi miranti a contrarre l’indipendenza[62]. E’ proprio così?

Fin dalle origini dell’Europa l’educazione non è un terreno d’intese formali, è esclusa dal progetto europeo; solo la formazione professionale, per i legami con il mercato del lavoro, rientra nell’impianto iniziale. Così i sistemi di istruzione rimangono con le loro peculiarità nazionali, gelosamente custodite dai rispettivi governi: gli ordinamenti sono diversi, come la scansione dei percorsi e i modelli di governance; i curricoli rimangono nazionali come gli esami e le certificazioni, forti delle singole tradizioni nazionali.

Con il tempo l’educazione entra nell’area di azione europea con programmi specifici come i PON o Erasmus, con l’ingresso dell’istruzione nel sistema statistico europeo e singole posizioni vengono assunte su tematiche ad hoc. Per il nostro Paese dall’Europa arrivano le condizioni vincolanti per evitare il precariato dei docenti, ma si tratta di misure che riguardano le condizioni di lavoro.

La definizione dal 2000 in poi di obiettivi comuni da raggiungere fa compiere un ulteriore passo in avanti, anche se vengono ridefiniti e rivisitati in chiave più realistica sempre rimanendo nel campo delle intese non vincolanti. Facilitando lo scambio, le reti di incontro, i progetti condivisi a tutti i livelli, la cooperazione europea. È sufficiente uno sguardo comparativo ai risultati PISA per cogliere la varietà di situazioni in Europa e, soprattutto, la posizione non preminente dei Paesi che originariamente hanno dato vita al movimento europeo.

Senza dubbio La UE come l’OECD sono nel tempo diventati attori di processi di convergenza in un orizzonte globalizzato e in questo nuovo contesto ideologie e orientamenti metodologici, come ilpovimento delle competenze trovano l’humus fertile per prosperare e diffondersi.

La politica: “quella povera cosa che sappiamo…”

Nel discorrere e nell’argomentare nel testo aleggia e ritorna la “politica” invisibile ma determinante, come attore imprecisato che incombe, come capro espiratorio delle involuzioni, come fonte di decisioni inappropriate o di inerzie conclamate. Che cosa s’intende per politica? La definizione rimane per lo più implicita anche se in un passaggio si legge “intendendo per politica, com’è ovvio, quella povera cosa che sappiamo, senza programmi, senza idee, senza visione del futuro e senz’anima” (p.220), una politica che non subisce la contestazione degli studenti (per la verità la contestazione non è sparita da un paio di decenni come si legge p.220) e che non dispiace ai genitori per la ‘fantastiche percentuali di promossi sfornati annualmente” (p.220).

Si trovano così i ministri con i loro esercizi di retorica auto-gratulatoria (p.220), le burocrazie e il mondo di pseudo esperti che vi ruota attorno, i partiti politici e i sindacati. In forma aggregata l’élite politico-burocratica e l’oligarchia accademico-burocratica con un’opinione pubblica disattenta e ignorante non si dimostra capace di un “disegno politico-educativo”, senza demagogia, ma con un “cervello direttivo” e con l’assunzione di responsabilità (p.15).

2. Interrogativi

Per un lettore curioso di cose di scuola e appassionato di quell’armeggiare attorno all’utopia che caratterizza le vicende scolastiche di ogni Paese, il volume non è privo di spunti, mettendo tra parentesi diversità di opinioni e superando alcune approssimazioni. L’esame critico delle vicende di un sistema di istruzione non può evitare, attraverso la demistificazione, di introdurre stimoli alla riflessione. Così in un volume scritto a maglie larghe si rintracciano cose sensate, pur non determinanti nell’impostazione e pur marginali rispetto ai temi dominanti, che val la pena, tuttavia, di riprendere in conclusione.

E se adottassimo sul serio Il principio di realtà?

Da riprendere è lo spunto circa il principio di realtà, la necessità, cioè, di prendere in mano lo stato dei fatti (p.62)[63], di andare a vedere l’impatto delle decisioni e di adottare un approccio prammatico. Da questo punto di vista alcune pagine nel testo sono illuminanti, quanto mai attuali pur se, in qualche misura, non scevre di contraddizioni.

Alla prima edizione dell’esame di Stato nella versione introdotta da Giovanni Gentile, annota lo storico, il 40/50% degli studenti fallisce (p.97) a conferma che quando si fa sul serio, commenta l’autore, emergono i termini reali delle situazioni. E nasce la necessità politica di un qualche accomodamento per sedare la “rivolta delle famiglie” (p.97). La ricostruzione della riforma dimostra quanto sia difficile introdurre cambiamenti. é rischioso banalizzarle o ricacciarle nei luoghi comuni. Il destino delle rotture che si intendono apportare si allontana dalle aspettative: le intenzioni proclamate vengono riassorbite (p.214) e la ragionevolezza riconosciuta nei dettati formali scende a patti con la realtà nelle fasi di messa in opera. Lo stesso autore non può ad un certo punto non sollevare la questione della necessità di andare a vedere quali sono gli esiti delle decisioni che si assumono. E anche la considerazione delle riforme sbagliate va vagliata con attenzione e dei risultati pur contenuti che qui e là si riescono a raggiungere.

Qualche decennio dopo saranno i test standardizzati a mettere in evidenza dal 2000 in poi la disomogeneità non tanto nelle percentuali di promossi e bocciati che con il tempo si contrae e diventa quasi stabile in tutto il paese, ma dei livelli di apprendimento degli studenti in lingua, in matematica e in scienze, ma anche inattesi risultati positivi nelle regioni del Nord del Paese. Purtroppo senza tuttavia scatenare una reazione di riscossa alla consolidata mediocrità.

Il principio di realtà, se adottato, incrina posizioni presenti nel volume, ad esempio, nella critica alla scuola utile” e ai suoi “apostoli” (p.26). Il richiamo al responsabile di Confindustria di Cuneo autore di un invito agli studenti a orientarsi verso la formazione tecnica e professionale potrebbe non stupire. Nasconde, tuttavia, una qualche miopia pur largamente condivisa[64]. Nella provincia di Cuneo la disoccupazione si aggira attorno al 4.3 dopo le province di Bolzano, Trento e di Reggio Emilia a fronte del 6,4 di Milano, 9,8 di Roma e 24,2 di Napoli. L’orientamento verso i percorsi non umanistici significa il trionfo territoriale dell’ignoranza o la rinuncia alla cultura alta a favore di percorsi di preparazione operativa? La risposta è nella realtà. Non è un caso di low skills equilibrium I licei classici della provincia si trovano ai vertici nelle analisi comparative nazionali, la percentuale di studenti liceali è in linea con quelle delle altre province settentrionali. I consumi culturali, il primato nel terziario avanzato, il settore enogastronomico, in una regione, il Piemonte, a forte innovazione tracciano uno diverso scenario che varrebbe la pena di guardare in faccia. Dove il declino è contenuto e gli indicatori sono positivi bisogna avere l’intelligenza di analizzare i fattori e ponderare l’equilibrio tra cultura generale e preparazione tecnico-scientifica, prima di emettere verdetti aprioristici. Altrimenti prevalgono pregiudizi antistorici ieri, ma del tutto anacronistici oggi. Nella Svizzera di cultura solo il 30% degli studenti sceglie percorsi generalisti, ma tutti a 15 anni dispongono di competenze comparativamente soddisfacenti in lingua e matematica.

Guardare alla realtà significa anche analizzare l’esistente. Il fatto che il latino e il greco abbiano uno spazio maggior nel nostro paese rispetto a Francia, Inghilterra, Austria e Germania potrebbe essere un punto di partenza. Più che alimentare geremiadi passatiste perché non passare all’azione, provando a verificare i livelli di competenza in latino e in greco degli studenti (come avviene per le altre discipline), perché non rafforzare l’attenzione come è già raccomandata della cultura classica in tutti i percorsi, sostenendo i corsi opzionali di latino nella scuola media, potenziando ulteriormente i certamina che si stanno rivelando palestre per studenti di talento e esplorando ipotesi del tutto innovative.

Di fronte alla grande menzogna dei finti voti e della finta promozione (p.219) c’è da notare che la contrazione delle bocciature è generale e risponde anche ad analisi scientifiche che ne hanno dimostrato l’inefficacia, pur senza annullare l’effetto delle ideologie di promozione sociale o le esigenze di risparmio sulle spese che l’hanno accompagnata. Peraltro ci sono sistemi scolastici che non contemplano la bocciatura (anche recentemente in Francia la bocciatura è caso eccezionale). La disponibilità di dati Invalsi sui livelli inadeguati dovrebbe non fermarsi al livello di denuncia, ma aprire il dibattito per avanzare ipotesi di soluzione. La situazione è l’esito di un cambiamento di paradigma, ma anche dell’incapacità dell’approccio classico di far fronte alla generalizzazione nella scuola media e, successivamente, a livello di scuola superiore: discutere delle valenze e dei limiti di un tronco comune, esplorare le possibilità di forme più efficaci di differenziazione, dovrebbero accompagnare l’accresciuto sforzo per migliorare i livelli di preparazione che sono disomogenei nei Paese (a parità di tassi di promozione lo studente lombardo raggiunge risultati migliori rispetto ai coetanei siciliani e sardi.

Il principio di realtà, affermato ma non sempre coerente con quanto si legge nel volume, lascia inesplorate aree rilevanti delle dinamiche in corso.

Quali potrebbero essere le matrici culturali per la scuola di oggi e di domani?

Se c’è un aspetto che convince nella ricostruzione della lunga storia della nostra scuola è il ruolo della ideologia che viene sottolineato, non solo nel senso di posizioni culturalmente non argomentate e scientificamente deboli, ma anche nel significato di visioni culturali di cui la scuola ha bisogno. Sono indispensabili ispirazioni di fondo con un forte radicamento culturale. Se quelle che hanno accompagnato l’origine alla scuola si possono ricostruire, anche se spente e senza ritorno, quali sono le nuove basi di riferimento o il neo-umanesimo possibile in grado di ispirare la scuola, di dare senso all’agire dei suoi operatori, di rinnovare il significato del suo essere della società senza diventarne strumento servile?

Se le basi rousseauiane, pur riaffioranti ogni tanto, non sono adeguate, se Edmondo de Amicis non rientra nel Pantheon dei pensatori di scuola, se la Costituzione analizzata storicamente e collocata nel suo contesto con una lettura puntuale del suo contenuto appare impropria come base per la scuola, se il messaggio e la filosofia di don Milani risultano deboli e contraddittori, quale impianto teorico può oggi sorreggere l’istruzione? Quali teorie possono essere messe in campo? Se le prospettive tecnico-scientifiche impoveriscono l’apprendimento, se i nuovi soggetti sovranazionali sono mossi da preoccupazioni strumentali quali alternative sono disponibili? Se la storia e la filosofia hanno perso il ruolo di assi portanti per la cultura da trasmettere alle giovani generazioni quali le matrici dell’impianto dell’istruire oggi? Se è venuto meno il carattere della scuola come “custode elettivo del retaggio culturale” (p.20) quali alternative si propongono? C’è rimedio alla “miseria culturale” e alla ”patetica fragilità intellettuale” (p.28) imputate alla scuola?

Troppo semplice pensare che l’informatica sia il latino del XXI secolo e che la cultura tecnologica diventi nuovo cardine di istruzione, ricerca e politica culturale, pur se la cultura umanistica non è indifferente alla tecnologia che offre strumenti di ricerca del tutto inediti[65]. Quanto dovremmo attendere per un’alternativa alla deriva tecnologica?.

Ha buon gioco Galli della Loggia a richiamare e citare esempi della langue de bois che ha invaso la comunicazione ministeriale. Non può tuttavia evitare di esercitarsi in altra retorica nel momento in cui cerca di tracciare il significato della scuola (p.55 strutturare la soggettività dell’individuo). Un’annotazione, quasi di passaggio, colpisce nel segno quando scrive del “comando politico-burocratico ” “i cui titolari … sono sempre più incolti, e dunue sempre meno possono valutare il valore educativo dei singoli saperi” (p.67).

Quale equilibrio tra realismo e utopia per la nostra scuola?

 

Le pagine finali del saggio contengono segnali convincenti, inavvertiti forse ad una lettura frettolosa. L’ideologia è un fattore in campo quando si parla, si discute, si lavora attorno all’istruzione con un armeggiare continuo verso l’utopia (“un elemento utopico è connaturato a ogni prospettiva educativa”, p.234-5), attraverso compromessi senza fine tra realismo e idealità. Qualche traccia di nirvana pedagogico deve rimanere, come tratti di realtà vanno considerati. Se limitano lo spazio delle azioni pubbliche nel campo della scuola, non ci sono ricette a prova di messa in opera, molte riforme sono a somma zero nel senso che creano problemi quanto quelli che risolvono.

I nuovi termini della centralità dello studente nel senso dei suoi livelli di apprendimento sono importanti, ma solo parzialmente arrivano a orientare le complesse decisioni che il governo dell’istruzione impone. La scuola è invenzione della politica. C’è un nodo storico che l’autore delinea nel volume, una sorta di contraddizione tra due interrogativi. Che succede quando la politica si disinteressa della scuola? L’autore riconduce il declino all’abdicazione. Ma che succede quando la politica riprende interessarsi della scuola? L’autore vi ritrova un’ottica strumentale che soffoca l’orizzonte. Rimane, così, in sospeso quale prospettiva possa aprirsi per l’oggi e per il domani.

Possiamo fare a meno di metodi e tecniche nell’insegnamento?

 

Lo status minore della pedagogia non è un posizione solo di Galli della Loggia; c’è una diffusa minor credibilità della scienza dell’educazione rispetto a tutti gli altri settori disciplinari e dipende da molti fattori a influenza convergente[66]. Questo non impedisce, tuttavia, che il campo dell’educazione e dell’istruzione si strutturi attorno a soluzioni metodologiche, che si basi su orientamenti definiti dall’investigazione, che si dispieghi nell’adozione di tecniche per il lavoro docente. Possiamo dubitare della validità delle ipotesi di Maria Montessori? Possiamo mettere da parte l’impianto classico della cultura umanistica? Siamo certi che l’insegnamento delle scienze di tipo laboratoriale sia una versione minore dell’insegnamento per lezioni frontali? Chi potrebbe rimuovere l’effetto Pigmalione nella conoscenza delle dinamiche dell’interazione tra docenti e studenti? Possiamo veramente dubitare che l’investimento a livello della prima infanzia non svolga un ruolo determinante nella lotta allo svantaggio sociale e culturale?

La necessità di un riequilibrio dopo un’enfasi metodologica nel corso degli ultimi anni, è del tutto ragionevole. Si tratta, comunque, di dinamiche complesse perché, come scrive l’autore, si è di fronte a una “egemonia che, richiedendo l’eliminazione della fastidiosa concorrenza degli studiosi delle discipline tradizionalmente insegnate nella scuola (per lo più ignote ai pedagogisti), non può affermarsi se non attraverso il disprezzo dei contenuti
disciplinari e delle discipline stesse, che dovrebbero lasciare il posto ad attività interdisciplinari, rivolte non all’acquisizione di conoscenze, ma di generiche attitudini ad apprendere qualsiasi cosa”.

La divaricazione di teorie e modelli fa parte della dinamica storica e è difficile pensare ad un metodo universale, stabile nel tempo, una sorta di canone aureo per chi insegna. A diversità di altri campi dell’azione umana, le lezioni dei pensatori non hanno tempo e le idee, anche pedagogiche, sono soggette alla dialettica della falsificazione, dell’obsolescenza e del rinnovamento. Oggi le neuroscienze hanno denunciato i miti dominanti nell’educazione, come nel passato i profeti delle scuole attive avevano eroso le routine di tradizione o come periodicamente i capisaldi dell’agire in classe vengono rivisitati e rinnovati. In realtà, quindi, nelle scuole si trovano sistemi ibridi, composti e plurali in cui è possibile rintracciare componenti appartenenti a epoche pedagogiche diverse. Pensare a ipotesi definitive da tradurre in dogmi immutabili significa correre rischi con il tempo. pragmatismo di matrice anglosassone (Lucio Russo 2019)

Negli ultimi due decenni lo sviluppo qualitativo delle valutazione standardizzate di massa permette di conoscere più da vicino i risultati dell’esperienza scolastica come qualche elemento di ponderazione dei modelli adottati. La massa di ricerche condotte nel campo dell’insegnamento rrendono oggi possibile lavorare attorno alla produzione di sintesi delle conoscenze disponili; si trovano meta-analisi su molti temi e il lavoro di John Hattie ha riscosso, oltre alle critiche, notevole interesse.

All’insegnamento di tradizione dobbiamo molti risultati della nostra scuola, ma dobbiamo anche constatare che non ha retto alle trasformazioni della scuola. Così anche la ricostruzione della storia della nostra scuola, proposta da Galli della Loggia, evidenza la ricerca non conclusa della armonizzazione tra la selezione e l’equità e, in particolare, mette in evidenza le derive patologiche della finzione e dell’inganno nei regimi di valutazione scolastica volatili nel tempo.

Cultura umanistica e cultura scientifica?

La tradizione umanistica è un asse portante del sistema scolastico italiano, ma non è l’unico. Seppur di minor visibilità la scuola italiana ha dato spazio fin dalle origini alla conoscenza scientifica e alle filiere, come si dice oggi, professionalizzanti. Qualche perplessità sorge, per la verità, per il rischio della contrapposizione di questo patrimonio storico determinante della nostra tradizione educativa alle culture non umanistiche[67], riassunte genericamente nella formula tecnico-scientifico che sembra sottostare nello scorrere delle pagine del volume. In proposito dubbi e interrogativi affiorano immediatamente. Una separazione, se non una gerarchizzazione, così netta e apodittica, è giustificata? La dimensione dell’astratto rivendicata come carattere distintivo della cultura classica è qualcosa di sostanzialmente diverso dall’astratto delle scienze matematiche e fisiche? E’ sostenibile oggi una posizione dualistica? L’apertura ad altri mondi, inoltre, che la cultura classica assicura[68] non trova forse parallelismi nell’accesso ad altri universi di conoscenza che le scienze aprono agli studenti? E’ possibile stabilire gerarchie tra l’approfondimento delle culture classiche e l’immersione nella ricerca biologica, astronomica o delle neuroscienze? Il pensiero, e la formazione, non soffrono forse della creazione di compartimenti, dell’affermazione di dominanze e di esclusioni? Anche la contrapposizione tra sapere umanistico e cultura non umanistica sulla base dell’assenza o della presenza di verifica (p.23) potrebbe risultare fragile: c’è chi ha considerato la versione di greco come vera esperienza scientifica[69] proprio perché basata su ipotesi di significati, verifica di pertinenza e di coerenza, riformulazione di ipotesi in vista di soluzioni più appropriate. A margine, peraltro, non si può non notare che paradossalmente le ragioni del latino sono rivendicate con forza da Tullio De Mauro[70], oggetto di feroce critica per alcune posizioni assunte negli anni 1970 nelle pagine successive del volume.

La contrapposizione tra la scuola del sapere e la scuola del fare è una semplificazione che non rende ragione dei processi reali che l’insegnamento nelle sue diverse possibili forme mette in atto. L’assegnazione del valore dell’astratto agli studi umanistici probabilmente è frutto di una visione, minimalista e datata, dell’epistemologia della conoscenza scientifica, matematica e tecnologica.

Peraltro il ruolo degli istituti tecnici nella storia del nostro Paese è riconosciuto anche dallo storico Galli della Loggia: E fu così che, già dalla fine dell’Ottocento, l’Italia poté contare su ottimi ingegneri, matematici illustri, filologi, medici ed economisti di vaglio (p.14). A Carlo Cattaneo, citato sullo stato penoso dell’istruzione nell’Italia del tempo, va riferita l’ottica dell’intelligenza operativa che ne ha ispirato il pensiero e le opere. C’è un intero movimento culturale e professionale alla base della rivoluzione industriale italiana dei decenni a cavallo del XIX e XX secolo che ha fatto della formazione (scuole tecniche e professionali, arti e mestieri…) un fattore di crescita, di sviluppo e di progresso. Al pari della tradizione umanistica e del pensiero degli intellettuali ha contribuito per lo meno in ugual misura alla costruzione del nostro Paese. Analisi recenti, peraltro, documentano livelli di preparazione degli studenti degli istituti tecnici del Nord del Paese superiori a quelli degli studenti dei licei delle aree del Centro e del Sud. Altra cosa è la strumentalizzazione della scuola al sistema produttivo in un contesto di equilibrio necessario ma non semplice da raggiungere tra le istanze del mondo produttivo e la missione culturale della scuola.

 

Se “Il destino della nostra scuola è ancora nelle nostre mani”…

 

Con un impianto cronologicamente vasto e con argomentazioni a più livelli e in svariati campi, le imperfezioni sono inevitabili e perdonabili anche a uno storico di rango. Così il merito distinto, un’istituzione cui oggi si potrebbe, guardare questa sì, con nostalgia, teneva certamente conto delle valutazioni del direttore didattico come si legge nel testo (p.139), ma era soprattutto il risultato di un concorso molto impegnativo. La datazione errata, inoltre, dei decreti delegati riferita al 1978 (p.123) è sfuggita all’autore nell’enfasi sui contenuti. Anche parlare, forse per distrazione, di bimbetti di 12-13 anni (p.11) non corrisponde all’esperienza di chi gestisce le classi oggi di scuola media e degli studenti ha altre percezioni. Confondere le scuole parificate con le scu22222222    ole legalmente riconosciute è un errore in cui incorrono in molti con poca familiarità con tortuosità normative del settore non statale dell’istruzione. Attribuire al ministro dell’università e ricerca l’introduzione dell’educazione alla cittadinanza e alla costituzione prescritta, si legge a pagina p.147, anche dalla scuola dell’infanzia nel 2008 dal Ministro Fabio Mussi per la verità al tempo ministro dell’Università, riflette la difficoltà a tener seguito all’alternarsi dei vertici politici e alle composizioni e ricomposizioni delle compagini governative.

Alcune istanze, pur condivisibili in linea di principio, non sembrano del tutto credibili e coerenti. L’appello al dibattito pubblico, per quanto ragionevole e necessario, risulta stonato. a fronte di un’opinione pubblica considerata incolta, di esperti e accademici ritenuti indebitamente silenziosi, di politici accusati di egoismo e d’interessi di parte? Avendo fatto piazza pulita di tutti, o quasi, degli attori in campo, nelle mani di chi è il futuro della scuola? La pars construens è in larga parte da scrivere se ci si rivolge non solo alla generazione che ha affollato le aule dei licei negli anni 1950 e 1960. Anche perché il passato non ritorna. A diversità di molta letteratura critica sulla scuola che quasi sempre rintraccia spiragli di positività, si fa fatica a ritrovare nelle oltre 200 pagine scritte da Ernesto Galli della Loggia le parole della resurrezione e della palingenesi. In questo il professore è accademico, disattento, o forse disinteressato rispetto alle strade da perseguire, alimentando la nostalgia del passato, anche di fronte ad una drammatica situazione non allievata da poche citazioni di scuole virtuose o di singoli docenti straordinari[71].

Dopo la sfiducia dell’aula vuota, un libro che non lascia indifferenti gli insegnanti[72], quale spazio ritrova il lettore per la speranza? Picconare le riforme, rottamare i tentativi di cambiamento e banalizzare gli sforzi degli attori in campo hanno come conseguenza una sfiducia dilagante a tutto campo. Se tutti sono alla sbarra, se l’Italia come Paese ha distrutto la propria (meglio di sua) scuola, chi potrà ricostruirla? Sarebbe illogico, infatti, ritenere che chi ha creato problemi possa diventare il miglior artefice della loro soluzione. Per certi aspetti le pagine del volume, nonostante gli spunti di consapevolezza richiamati, rischiano di alimentare una visione decadente della nostra scuola; sono una base di sabbia su cui, purtroppo, è difficile ancorché rischioso, aprire un cantiere. Se “Le maestre sono state l’avanguardia impavida che per prima ha affrontato e più ha continuato a combattere instancabilmente l’ignoranza nazionale” (p.10) non ci sono state altre avanguardie nei decenni successivi? Scrivere che è “il destino della nostra scuola è ancora nelle nostre mani” (p.235) non rischia di essere un alibi, tardivamente collocato nelle ultime righe del volume, per aver l’”osservatore interessato” (p.9), mancato di individuare i punti di appoggio e rintracciare le leve per risollevarne le sorti. Se l’analisi proposta corrisponde al vero le mani sono drammaticamente vuote, mentre altre aule continuano a riempirsi di studenti ogni anno. é triste riconoscerlo: sulle cose di scuola la riuscita editoriale raramente premia il pensiero positivo che, forse per questa ragione, continua a essere una rarità, rimane per lo più implicito o è affidato all’acribia del lettore. Chi può combattere “la buona battaglia” (p.235)? Se impietosa è la diagnosi, non meno impietoso è l’interrogativo che rimane al termine della lettura del saggio.

 

 

 

 

[1] Cfr. su questo blog Armeggiare attorno all’utopia.

[2] Cfr. tra gli altri Il tramonto di una nazione, Marsilio, Venezia 2017; L’identità italiana, Il Mulino, Bologna 2010; La morte della patria Editori Laterza, Bari Roma 1996.

[3] Cfr. Luca Tedesco (a cura di), L’aula è vuota? Alcune studentesse di Roma Tre rispondono a Ernesto Galli della Loggia, RomaTre-Press, Roma 2020. Si veda anche la recensione di Francesco Pistoia su La Civiltà cattolica, Quaderno 4070 Vol.1 (2020): 202-204.

“[4] Cfr. In “L’incredibile legittimazione di Ernesto Galli della Loggia nel dibattito sulla scuola“ (minima&moralia, 12 giugno 2019) la stroncatura di Christian Raimo, docente e scrittore: “un libro pessimo da tutti i punti di vista compreso quello della ricostruzione storica: Galli della Loggia, che è uno storico, ignora le basi minime della storia della scuola e del dibattito storiografico anche soltanto italiano; oltre ovviamente non padroneggiare minimamente le altre questioni che riguardano la pedagogia del Novecento e di oggi”.

[5] Si veda la recensione di Lucio Russo su www.anticitera.org, 1 settembre 2019.

[6] Pur riconoscendo la valenza delle testimonianze, non manca di stupire il richiamo ad una fonte biografica di informazione da parte di uno storico acclamato (“So di che cosa parlo perché ho avuto una nonna che faceva la maestra”, p.10) accanto ai ricordi di scuola (la professoressa De Sanctis p.12) e ad affermazioni un po’ generiche (“è sotto gli occhi di tutti”). La memoria di scuola è spesso presente nei libri sulle vicende dell’istruzione. Paola Mastrocola e Luca Ricolfi, costruiscono Il danno scolastico (La nave di Teseo, Milano 2021) su dati di ricerca ma anche sull’osservazione partecipanti dei propri itinerari formativi e professionali.

[7] Non manca una traccia di macabra immaginazione quando l’autore, puntualizzando criticamente la riduzione del docente alla “cupa figura del ‘facilitatore’”, annota: “sembra la qualifica di un addetto in un centro svizzero per l’eutanasia” (p.192).

[8] Galli della Loggia denuncia la prevalenza del “politicamente corretto” che avrebbe privato le politiche scolastiche di “alcun vero dibattito” e di una “ragionata opposizione di merito” (p.58). Una ricognizione attenta della letteratura critica sulla scuola e sulle riforme scolastiche potrebbe attenuare tale posizione.

[9] Si veda la lettera al Ministro redatta da Galli della Loggia e pubblicata sul Corriere della sera il 5 giugno 2018.

[10] L’autore condivide, con un esplicito riferimento, l’analisi di Adolfo Scotto di Luzio (La scuola degli italiani, Il Mulino, Bologna 2007) sul processo di demolizione di quella scuola italiana coltivata nella cultura liberale ed espressa nella tradizione nazionale, umanistica e letteraria. La categoria della distruzione della scuola è condivisa, seppur con ottiche molto diverse, da Luca Ricolfi (La società signorile di massa, La nave di Teseo, Milano 2019 pp.56ss) e Stefano D’Errico (La scuola distrutta. Trent’anni di svalutazione sistematica dell’educazione pubblica e del Paese, Mimesis, Milano 2019).

[11] Cfr. Michel Serres, C’était mieux avant, Le Pommier, Paris 2017.

[12] Secondo i sondaggi Demos sulla fiducia degli italiani nelle istituzioni, la scuola dal 2008 al 2018 ha mantenuto una posizione di rilievo, dopo il Papa, le Forze dell’Ordine e il Presidente della Repubblica e prima di tutte le altre categorie istituzionali (Magistratura, Comune, Chiesa, Unione europea, Stato, Regione…) Cfr. www.demos.it.

[13] Hervé Le Bras ha cercato di analizzare la contraddizione tra lo stato oggettivo di un Paese e il sentimento soggettivo dei suoi abitanti (Se sentir mal dans un France qui va bien. La société paradoxale, L’Aube Paris, 2019.

[14] Cfr. il dibattito ospitato qualche anno fa da Micromega (n.5 1996) e, più recentemente, l’intervento di Nicola Gardini sulla stessa rivista (Micromega, 5 2019).

[15] Cfr. I. Dionigi, Il presente non basta. La lezione del latino, Mondadori, Milano 2016.

[16] Sulla scena europea lo studio del latino, pur presente, non è obbligatorio in Belgio, Francia e Gran Bretagna, trova più tempo in Germania e Austria ed è presente nei Paesi Bassi. Cfr. per un esame, pur non recente, della situazione dell’insegnamento del latino in Italia con un confronto con altri paesi TreeLLLe, Latino perché? Latino per chi? Confronti internazionali per un dibattito, Questioni aperte/1, TreeLLLe, Genova 2008.

[17] Il mito della cultura classica, abbattuto varie volte, è periodicamente risorto, ridimensionandone l’ipotesi diffusa della morte. Risorse nel Rinascimento, risorse al tempo della Rivoluzione Francese e risorse ancora nel tardo Ottocento. Nel nostro paese un impulso allo studio dei classici greci e latini è derivato dalla riforma Gentile del 1923 che ha ribadito l’assoluta preminenza delle materie umanistiche.

[18] L’università romana La Sapienza è leader mondiale negli studi classici (Cfr. QS Ranking 2018).

[19] Se come scrive Attilio Oliva, presidente di TreeLLLe: «Nella nostra scuola la diffusione dell’insegnamento e il peso attribuito alle lingue classiche sono notevolmente più elevati rispetto a tutti gli altri Paesi europei e agli Stati Uniti», nel 2005 era costituita da 2 milioni e mezzo di studenti, oltre un milione, equivalente al 41 per cento, era impegnato nello studio del latino (in Francia dal 19 per cento nelle scuole medie al 3 per cento nelle superiori; in  Germania con il 5-8 per cento e in Gran Bretagna con l’1-2 e gli Stati Uniti con l’1,3 per cento), anche se arrivano al termine con «debiti» nelle lingue classiche il 40 per cento circa come per la matematica (TreeLLLe, 2008 cit.).

[20] Cfr. M. Bettini, A che servono i Greci e i Romani? Torino, Einaudi, 2017; L. Tomasin, Il caos e l’ordine, Einaudi, Torino, 2019, A. Marcolongo, La lingua geniale 9 ragioni per amare il greco, Laterza, Bari-Roma 2016.

[21] Cfr. TreeLLLe, 2008 cit.

[22] In più punti del testo l’autore riconosce, tuttavia, lo spazio dell’istruzione tecnica e professionale; parla di un programma di rilancio dei negletti istituti tecnici (p.25) in alternativa alla fallimentare secondo l’autore dell’alternanza scuola-lavoro.

[23] Cfr. il concetto di capitale professionale in A. Hargreaves e M. Fullan, Professional Capital. Transforming Teaching in Every School, Teachers College Press, New York 2012.

[24] A questo proposito anche Lucio Russo nella sua recensione condividendo il giudizio sull’attuale stato disastroso della scuola italiana” richiama l’esperienza: “Credo che chiunque abbia avuto modo di confrontare le conoscenze di chi oggi arriva all’università con quelle degli studenti di alcuni decenni fa non possa non avere verificato un terribile regresso culturale” (2019).

[25] Cfr. M. Fize, L’école à la ramasse, Archipel, Paris 2019: 49ss.

[26] La questione della decadenza della lingua è senza fine e presenta varie complessità pr l’analisi. Cfr. per contatto leggero con evidenze disponibili V. Della Valle e G. Patota, Viva il congiuntivo. Come e quando usarlo senza sbagliare. Sperling & Kupfer, Milano 2009.

[27] Si veda il progetto IPRASE su Imparare a leggere e scrivere. Efficacia delle pratiche di insegnamento, Rovereto 2019 o, più in generale, la recente politica francese per le prime classi delle primarie in questo blog.

[28] Sul tema si veda l’indagine condotta da Pietro Boscolo e Elvira Zuin sulla didattica della scrittura e sulle relative proposte in P. Boscolo e E. Zuin, Come scrivono gli adolescenti, Il Mulino, Bologna 2014.

[29] L’autore fa riferimento alla propria lettera al Ministro pubblicata sul Corriere della sera e oggetto di aspro dibattito da cui riprende due posizioni critiche ribattendo alle critiche contenute in esse (per un intervento dello scrivente sulla lettera del prof. Galli della Loggia cfr. www.mariogiacomodutto.it (Armeggiare attorno all’utopia).

[30] Cfr. Il triste primato dei quindicenni italiani in PISA in Focus 35 Who are the school truants, OECD, 2014, p.1.

[31] Cfr E. Farina, Il dettato nella scuola primaria, Franco Angeli Milano 2014.

[32] Si vedano gli esperimenti “Hole in the Wall” condotti da Sugata Mitra alla fine degli anni 1990.

[33] Cfr. J. Hattie pone la consapevolezza dello studente di essere in grado di affrontare un traguardo (self-reported grades) andando oltre le proprie aspettative come uno dei fattori determinanti del successo nell’apprendimento (Visible learning for teachers, Routledge London 2011).

[34] Si veda l’analisi delle premesse filosofiche e ideologiche del progressivismo in E.D.Hirsch, The Schools We Need. Why We Don’t Have Them, Doubleday, New York 1996, pp.69ss. e il volume di  J.Howlett, Progressive Education. A critical introduction, Bloomsbury, London 2013.

[35] Cfr. J.Darling, Child-Centred Education and its Critics, London, Chapman 1994.

[36] I risultati riportati da Galli della Loggia potrebbero essere messi a confronto con gli esiti dei test standardizzati le cui percentuali di livelli adeguati di performance non sono molto distanti dai tassi di promozione a distanza di molti decenni. Si legge in un rapporto del 1919: A livello nazionale, il 65,4% degli studenti raggiunge risultati almeno adeguati in Italiano, il 58,2% in Matematica. Per l’Inglese i programmi di tutti gli indirizzi delle scuole superiori prevedono il livello B2. Nella prova di Inglese‐lettura (reading) il 51,8% raggiunge il B2, mentre nella prova di Inglese‐ascolto (listening) tale
percentuale scende al 35%”
(INVALSI, I risultati delle prove INVALSI 2019 a colpo d’occhio, INVALSI, Roma,2019 p.2).

[37] L’autore richiama il fatto che era unica perché unificava il corso inferiore dei ginnasi, dei tecnici e dei magistrali, lasciando però a latere la scuola professionale triennale seguita dalla scuola tecnica. (p.102).

[38] Cfr. su questo blog la nota su “Incapaci e immeritevoli”.

[39] La sovrapposizione improvvida tra collegialità professionale e collegialità sociale di gestione è la chiave di lettura da cui originava un severo  giudizio critico sulle scelte compiute nei Decreti delegati dei primi anni 1970 da Giovanni Gozzer .

[40] M. Campione e E. Contu (a cura di), Liberare la scuola. Vent’anni di scuole autonome, Il Mulino, Bologna 2020.

[41] Galli della Loggia si sofferma sul “valore nazionale dell’istruzione – il suo essere uguale da Sondrio a Trapani” che “sta venendo meno” (p.233). Rimane il dubbio della solidità di tale forma di comune sentire nazionale, condizionato come appare dalle storiche relazioni del Ministero della Pubblica Istruzione (L’istruzione primaria e popolare in Italia con speciale riguardo all’anno 1907-1908. Relazione presentata da S. E. il Ministro della P. I. dal Direttore Generale Camillo Corradini, Roma, 1910-1912), dalle diagnosi sulla disomogeneità del servizio scolastico (A. Medina e G. Rossi, Uniformità e squilibri nel servizio scolastico italiano, Il Mulino, Bologna 1991) e dalle più recenti evidenze, negli ultimi venti anni, delle disomogeneità territoriali dei livelli di competenza degli studenti (progetto PISA, Invalsi)

[42] Michel Fullan critica l’autonomia delle singole istituzioni scolastiche per l’aumento che genera nella diversità tra buone scuole capaci di miglioramento e scuole in difficoltà destinate a sopravvivere nella mediocrità se non a peggiorare e, soprattutto, l’impossibilità di generare miglioramenti di sistema attraverso dinamiche circoscritte (M. Fullan, The principal. Three Keys to Maximizing Impact Jossey-Bass, San Francisco CA 201, p.42).

[43] Tra i format previsti il tema storico è da sempre la tipologia più ostica nella prima prova scritta all’esame di Stato. Nel 2010 si è registrato il minimo storico: solo lo 0,6% dei candidati che ha scelto la traccia storica che era centrata sul tema delle foibe. Negli altri anni le cose sono andate poco meglio: Hannah Arendt e lo sterminio degli ebrei è stato scelto solo dal 4,7% degli esaminandi nel 2012, dall’1,3% dei candidati nel 2013 (tema i Brics) e dal 3,8% nel 2014 quando è stato chiesto di comparare l’Europa del 1914 e quella del 2014. Le ragioni di questo flop non sono mai state indagate la fondo.

[44] Si metta a confronto, ad esempio, l’impostazione del National Curriculum in Inghilterra e la filosofia della costruzione dei programmi nazionali in Finlandia.

[45] I paesi che nei decenni finali del Novecento hanno rinnovato maggiormente i propri sistemi di istruzione hanno messo in piedi sistemi curricolari complessi, come dimostra il National curriculum nel Regno Unito, o elaborato proposte robuste e convincenti, come testimonia il Singapore Math preso a prestito in vari paesi. Il dibattito e la ricerca scientifica hanno messo in evidenza come la costruzione dei programmi di scuola lungi dal ridursi a un’esercitazione per esperti può rientrare nei processi di gestione e di coordinamento del sistema di istruzione.

[46] Il professore Galli della Loggia menziona l’ “Educazione alla cittadinanza e alla Costituzione”, erroneamente attribuendone la prescrizione al Ministro Fabio Mussi allora Ministro dell’università e della ricerca scientifica.

,[47] Pur tenendo conto della difficoltà di interpretare i dati provenienti da questionari compilati nelle indagini internazionali può essere interessante notare quanto emerge dalla ricerca TALIS (OECD). Alla domanda rivolta ai dirigenti di scuola media su quale fosse il ruolo dei docenti rispetto alle maggiori responsabilità relative alle politiche della scuola, del curriculum e delle attività didattiche, il 90% dei dirigenti italiani attribuisce un ruolo significativo agli insegnanti (valore medio OECD 40%), il valore più elevato tra i paesi partecipanti all’indagine (OECD, A Teacher Guide to TALIS 2018, vol II p.6, OECD 2020).

[48] L’autore precisa in nota la non contrarietà all’introduzione della cultura digitale (p.188 nota n.10)

[49] Sui limitati investimenti per le tecnologie nelle scuole e sulle difficoltà di implementazione di piani ambiziosi nelle scuole italiane cfr. Avvisati, F.et al., “Review of the Italian Strategy for Digital Schools”, OECD Education Working Papers, No. 90, OECD Publishing., 2013, p. 53ss.

[50] In realtà Invalsi e Ocse hanno messo sotto osservazione questi cambiamenti e sottoposta a verifica le competenze digitali degli studenti.

[51] Galli della Loggia cita il caso di un componente ministeriale che ha curato la pubblicazione riferita ad un progetto sponsorizzato dalla Samsung.

[52] Nella scuola è ricorrente la tendenza a demitizzare simboli, concezioni, orientamenti a sottolineare l’evoluzione delle concezioni, delle ipotesi interpretativi e delle vulgatae pur radicate. A titolo di esempio si veda A.Schleicher, Una scuola di prima classe, Il Mulino, Bologna 2020.

[53] L’autore riporta vari stralci della retorica presente nei documenti ufficiali relativi ai curricoli di scuola, all’insegnamento di Cittadinanza e Costituzione.

[54] Stupisce l’assenza di riferimenti ai risultati delle valutazioni comparative internazionali e nazionali, oggi cornici comuni nelle discussioni, nelle ricerche e nelle elaborazioni politiche sulla scuola e sui sistemi scolastici, senza motivarne l’esclusione. Dell’OECD Galli della Loggia sembra essere più interessato a svelare le latenti strategie di condizionamento globale che non a discutere le diagnosi costruite negli ultimi venti anni sullo stato di salute dei sistemi scolastici tra cui quello del nostro Paese.

 [55] Frutto forse dell’arte dello storico, alcune citazioni in nota aprono uno squarcio inconsueto sul passato. Così la reazione dei genitori ai risultati della prima edizione del nuovo esame di Stato gentiliano e la menzione di quanto scritto da un commissario dell’esame di Stato a proposito di livelli di competenza dei candidati.

[56] Per note ragionate e pur critiche sul testo di Galli della Loggia si vedano i commenti di Piergiorgio Giacchè “Tutto il peggio della scuola italiana. Come dire di più? Come spiegare meglio tutto il peggio della scuola italiana?” (Gli Asini 23 ottobre 2019) e di Claudio Giunta, “Su l’aula vuota di Ernesto Galli della Loggia” (Domenicale del Sole 24 ore, 17 novembre 2019).

[57] Cfr. il tema trattato da Nuccio Ordine in L’utilità dell’inutile. Manifesto, Bompiani, Roma 2013. Si veda anche Andrea Bajani (a cura di), La scuola non serve a niente, Edizioni Laterza, Roma 2014.

[58] Cfr. Laughlo,J. e K.Lillis, Vocationalizing Education An International Perspective, Pergamon Press, Oxford 1988.

[59] Il format dell’autonomia scolastica italiana è molto parziale rispetto allo spettro del funzionamento delle singole istituzioni scolastiche. Cfr.M.G Dutto, L’autonomia delle scuole in Italia e altrove. Al vaglio trent’anni di esperienze, Tecnodid, Napoli 2019.

[60] Sabino Cassese, ‘Playdoyer’ per un’autentica autonomia delle scuole, Il Foro Italiano, 1990, V, pp.147-154.

[61] Si veda come il movimento autonomistico sia cresciuto nel tempo con un neocentralismo sfociato in diverse funzioni dei ministeri e dei governi, meno amministrazione diretta e più management strategico, monitoraggio e valutazione.

[62] Galli della Loggia considerare l’Unione europea “dedita in quasi nessun altro ambito come quello dell’educazione a modificare e a rimodellare ogni cosa” (p.145, nota n.1). Analisti di rango hanno offerto un panorama ampio e significativo dell’azione europea di cui l’educazione è un capitolo minore. Jeremy Rifkind interpreta la vicenda europea in termini di visione culturale e politica (The European Dream How Europe’s Vision of the future Is Quietly Eclipsing the American Dream, Penguin London 2005). Più recentemente Anu Bradford  nell’esaminare le strategie globali di infuenza della UE concentra la propria attenzione sulle di policies relative al mercato e alla competizione, all’economia digitale, al benessere dei consumatori, alla sicurezza e all’ambiente (The Brussels Effect: How the European Union Rules the World, Oxford University Press, Oxford 2020).

[63] Ritornano nel testo i riferimenti alla conoscenza diretta, alla memoria legata alla propria biografia personale. In quest’ottica anche l’annotazione che “la deprecazione del passato” nasca in alcuni interlocutori per ragioni anagrafiche, “per lo più da un sentito dire” (p.49) più che da un’esperienza diretta e vissuta.

[64] Per la verità Galli della Loggia fa un cenno ad una questione di notevole rilevanza storia, economica e culturale e, pur non approfondendo, contrappone il corrente leitmotiv di Confindustria all’analisi del capitalismo a partire da Joseph Schumpeter (p.25)

[65] Cfr.Lorenzo Tomasin, L’impronta digitale, Cultura umanistica e tecnologia, Carocci Editore, Roma 2017.

[66] Secondo Lucio Russo L’atto di accusa verso i pedagogisti, che in larga misura sono i diretti responsabili del disastro attuale, è, a mio parere, uno dei punti di forza del libro”(2019).

[67] E a molti appare come un paradosso il fatto che persino nei licei scientifici l’area letteraria pesi per il 38 per cento, mentre quella strettamente scientifica si attesta attorno al 30. Insomma, permane il retaggio dell’impianto classico-umanistico voluto a suo tempo da Gentile per la formazione delle nuove classi dirigenti.

[69] A questo riguardo le riflessioni di Dario Antiseri tornano pertinenti. Scrive il filosofo: “E’ di Popper — pur se non soltanto sua — l’idea che unico sia il metodo della ricerca scientifica. Dovunque si faccia ricerca — in fisica come in sociologia e storiografia, in biologia e in chimica come anche in filologia o nella traduzione di un testo — non si fa altro che risolvere problemi tramite la proposta di ipotesi o congetture da porre al vaglio delle loro conseguenze, nella consapevolezza che l’errore individuato ed eliminato è il debole segnale rosso che ci permette di venire fuori dalla caverna della nostra ignoranza”. Cfr. anche quanto scrive Di Luzio sull’esercizio del tradurre (2007: 13).

[70] Questo risponde Tullio De Mauro a Carlo Bernardini, per il quale non si sa a che mai serva il latino. Dunque: serve ancora studiare il latino? Ebbene, la risposta di De Mauro è un chiaro sì. Anzitutto “serve come l’acquisire una buona pratica di una qualunque lingua diversa dalla nostra. L’effetto di spaesamento linguistico, lo sappiamo, è salutare alfine di migliorare il controllo del nostro stesso intendere”. Ma vi è di più: “Una lingua è fatta per mettere in contatto le generazioni” – e qui sta la ragione per cui “i giapponesi e cinesi d’oggi studiano nelle scuole il cinese classico, gli indiani il sanscrito, i persiani e gli arabi l’arabo classico; e questa è anche la ragione per cui da un capo all’altro dell’Europa e del mondo linguisticamente europeizzato si è studiato e si studia il latino”. Ed ecco la conclusione di De Mauro: “Il latino è parte profonda e viva della nostra storia. Solo chi crede di potere tagliare le proprie radici e tuttavia sopravvivere può immaginare che la nostra società, la nostra comunità nazionale possa rinunciare alla linfa che viene al nostro parlare e – pensare da un rapporto profondo non ristretto a pochi eruditi con l’eredità latina. Serve ancora il latino? Sì, a chi vuole essere contemporaneamente europeo e italiano” (Contare e raccontare. Dialogo sulle due culture, Laterza, Roma Bari 2003).

[71] Per la verità Galli della Loggia, con lo sguardo dello storico, non manca di esprimere un “grazie alle.. maestre” e di ricordarle quale “avanguardia impavida che per prima ha affrontato, e poi ha continuato a combattere instancabilmente l’ignoranza nazionale” (p.10). Non a caso, si potrebbe aggiungere, la scuola primaria del nostro Paese ha per molto tempo retto il confronto comparativo con le performance raggiunte da altri sistemi scolastici.

[72] Si veda il commento di un insegnante alla lettura del volume “Dalle prime pagine un senso di colpa mi ha preso, scoprire di essere stata una delle artefici della distruzione della scuola mi ha fatto soffrire…” (Giovanna Casapollo in sololibri.net pubblicato il 5 febbraio 2020).