J.-C. Beacco

école et politiques linguistiques. Pour une gestion de la diversité linguistique, Les éditions Didier, Paris 2016.

L’analisi delle politiche pubbliche è un’area consolidata di ricerca e interessa ormai vari campi di azione, dalla promozione della salute alle strategie per l’occupazione, dai modelli di sviluppo urbano alla sostenibilità ambientale, dalla gestione della mobilità agli investimenti sulle infrastrutture. Nel contesto di questi studi la considerazione delle decisioni, dei programmi di intervento e delle posizioni degli attori in campo nell’area delle lingue come public policies ha aperto da alcuni anni (Schiffman,1996) nuovi orizzonti rispetto ai paradigmi più consueti nell’analisi delle lingue e delle loro evoluzioni e, più generale, nello studio dei sistemi linguistici. Un terreno, quello delle politiche lingue, peraltro reso fertile per lo meno da tre diverse tradizioni di ricerca scientifica.

In primo luogo importanti e consistenti territori di indagine quali quelli sviluppati dall’Applied linguistics (Davies e Elder, 2004), la disciplina indipendente che ha unito l’esperienza pratica e la comprensione teorica dello sviluppo del linguaggio e delle lingue in uso, hanno offerto spunti per la ricerca sulle politiche per le lingue toccando una grande varietà di temi. L’attenzione si è concentrata, per la verità, sull’applicazione della linguistica ai dati della comunicazione e sull’uso del linguaggio del mondo reale per risolvere problemi sociali, sull’insegnamento delle lingue e sull’acquisizione della lingua seconda. Già nel 1973 Stephen Pit Corder, nel suo classico volume di introduzione al filone di ricerca (1973:12ss), riconosceva che nel campo delle lingue ogni intervento si risolve in una total language – teaching operation per la varietà dei processi che genera, la pluralità dei soggetti, individuali e collettivi, che coinvolge e l’attivazione degli interventi a livelli diversi, da quello politico a quello linguistico, d a quello sociolinguistico a quello pedagogico, all’interno di quella che l’autore definiva una cooperative adventure (1973:14). La costruzione sociale delle politiche linguistiche e il loro rapporto con i dati di realtà, pur così autorevolmente colti già agli albori dell’applied linguistics, sono rimasti, tuttavia, più impliciti che esplicitamente tematizzati.

Un secondo contributo deriva dal filone del language planning che ha messo in evidenza la complessità della gestione del fenomeno linguistico. In questa direzione la pianificazione linguistica, nei diversi significati attribuiti all’espressione (Cooper,1989:29-45; Dell’Aquila e Iannaccaro, 2004) ha esaminato il corpus planning, lo status planning e l’acquisition planning, categorie diventate classiche nel settore. Il language planning riguarda interventi espliciti, razionali, deliberati, ragionati, istituzionali (nel senso che ci sono istituzioni per la messa in opera), prospettici (la pianificazione precede l’implementazione) e rientra nell’analisi delle politiche che tuttavia abbracciano un orizzonte più ampio fatto di agenda e non agenda, di interventi e di inerzie, di decisioni e di deficit di implementazione. L’analisi delle politiche linguistiche copre un territorio più ampio e comprende l’insieme di principi, degli interessi e delle rappresentazioni sociali e culturali che ispirano e determinano decisioni e processi di implementazione che riguardano come una comunità si relaziona al suo potenziale comunicativo e al suo repertorio linguistico. Sono oggetto di studio le posizioni interventistiche e quelle del laissez faire, l’agenda come la non agenda, le scelte implicite e le strategie manifeste.

La terza fonte di conoscenze è la sociologia del linguaggio che nella definizione classica di Fishman, “examines the interaction between these two aspects of human behavior: use of language and the social organization of behavior” (1971:217). In questa area rientra l’intero gamut dei temi legati all’organizzazione sociale del comportamenti linguistici, comprendendo l’uso della lingua, ma anche gli atteggiamenti nei confronti dei diversi codici linguistici e degli utenti delle varie lingue. Per questa ragione la sociolinguistica è probabilmente la fonte maggiore di conoscenze e di evidenze rilevanti per l’analisi delle politiche linguistiche, come dimostra lo studio delle situazioni diglossiche, la loro evoluzione nel tempo e i diversi modelli di gestione.

Queste direzioni di indagine – applied linguistics, language planning e ricerca sociolinguistica – per quanto utili alla comprensione delle strategie politiche non sono focalizzate sui processi di policy-making. In esse continuano a prevalere le scienze della lingua e delle lingue sulle scienze del policy making con il protagonismo degli scienziati delle lingue e l’enfasi su paradigmi propri dell’analisi linguistica. Non a caso Grin scrivendo nel 2005 un rapporto sull’insegnamento delle lingue straniere come politica pubblica esordisce affermando che ciò che manca “c’est une analyse des enjeux sous l’angle de l’analyse de politiques” (2005:3) per cui “L’application d’une approche intégrée de type «analyse de politiques » à la question de l’enseignement des langues étrangères constitue un développement nouveau” (2005:5).

L’adozione dell’ottica delle politiche pubbliche, una disciplina che si è andata consolidando (Ricento, 2006; Spolsky, 2012) introduce un importante punto di partenza. L’azione pubblica è l’insieme degli interventi che vari attori mettono in atto attorno ad un problema di interesse generale: diventano così oggetto di studio temi comuni ai citati contenuti delle aree adiacenti di investigazione scientifica ma sotto il profilo dei processi di costruzione dell’agenda, di formazione delle decisioni e della loro implementazione.

Pur non avendo conosciuto a oggi uno sviluppo paragonabile a quello delle ricerche sociolinguistiche o nell’ottica del language planning, l’applicazione della policy analysis nell’arena delle lingue è in divenire come area di specializzazione e rivela promettenti potenzialità in termini di comprensione di come si costruiscano socialmente e culturalmente scelte di rilievo, si adottino misure per raggiungere obiettivi definiti, si incida sui processi reali di comunicazione nei tessuti sociali a crescente densità multilinguistica. Considerate come un tipo di public policies le politiche linguistiche presuppongono l’emergere di nodi critici sotto forma di issues, di rivendicazioni o di proposte di azione, l’affiorare di problemi di rilevanza generale e il moltiplicarsi delle pressioni per l’azione, comportano in un momento o in un altro l’intervento dello Stato accanto ad altri attori (Siiner, Koreinik e Brown, 2017), comprendono misure regolative in uno svariato numero di settori (dalla toponomastica alla lingua ufficiale…), sono determinate dai mezzi finanziari disponibili nel budget, impiegano risorse umane per i processi di messa in pratica, hanno bisogno di strutture di implementazione e possono essere soggette ad analisi di accountability. I problemi sono numerosi e molti sono comuni a più paesi per cui l’approccio comparativo diventa indispensabile (Grin e Gazzola, 2011).

L’esigenza di questo approccio nasce dal fatto che le questioni linguistiche hanno occupato un crescente spazio e ricorrono in diversi contesti di azione, territoriali, nazionali e internazionali, con l’emergere di seri problemi di gestione della diversità, di superamento del piano legale e di esame dell’effetto reale delle politiche, con la necessità di studiare lo sviluppo e l’implementazione di specifiche politiche linguistiche e in presenza di scenari alternativi possibili.

I policy documents che illustrano linee e strategie di azione nel campo delle lingue sono numerosi, soprattutto a livello di organismi internazionali o intergovernativi (Bottani, 2011). Non sono, tuttavia, più sufficienti per rispondere anche a criteri di analisi e di accountability dato il peso rilevante che hanno le ideologie nella loro formulazione e le culture linguistiche acriticamente condivise e la percepita discrasia che si avverte tra le politiche esplicite e i dati di realtà o, per usare una espressione corrente tra il policy talk e l’institutional practice (Tyack, 1991). Accanto all’analisi comparativa la valutazione delle politiche linguistiche, incomincia a imporsi all’attenzione di studiosi ed esperti per fornire risposte funzionali a crescenti dilemmi e incertezze.

La proposta del prof. Jean-Claude Beacco

L’avanzamento degli studi sulle politiche linguistiche richiede una cross-fertilization tra le scienze del policy-making e quelle delle lingue: una strada impegnativa perché presuppone l’intreccio tra approcci e metodi diversi. Senza sottovalutare altre significative valenze, in questa ottica, di grande interesse e di forte attualità, può essere letto il recente volume del prof. Jean-Claude Beacco, professore emerito della Sorbonne Nouvelle di Parigi, école et politiques linguistiques. Pour une gestion de la diversité linguistique. E’ la testimonianza della transizione in corso verso una più approfondita comprensione di quanto si decide e si fa sul terreno delle lingue adottando il paradigma della policy analysis. Edito nel 2016, contribuisce all’impresa, senz’altro attesa, più volte tentata e in crescente espansione, di interrogarsi sulla natura, sui principi, sull’articolazione e sulle caratteristiche di uno spazio di azione di grande rilevanza collettiva, con forti ripercussioni per i cittadini e per le società e con un indubbio impatto a livello dei rapporti tra i paesi e delle dinamiche globali, quale è quello delle politiche e delle strategie linguistiche. Attraverso i dodici capitoli in cui si snoda il libro l’autore getta un ponte tra le scienze delle lingue, rappresentate da accademici e studiosi e organizzate in aree consolidate di ricerca, e le scienze delle politiche pubbliche i cui esponenti affrontano l’analisi dei processi di policy making in varie aree dell’agire sociale.

Questa operazione si avvale della profonda ed estesa conoscenza dei vari aspetti del problema di cui dispone Beacco, da anni impegnato su vari fronti (esperto di primo piano delle politiche del Consiglio d’Europa, protagonista nella promozione della lingua francese, esperto di analisi delle politiche linguistiche in vari paesi tra cui il Libano, consulente per il progetto in corso Trentino trilingue) e autore di monografie e collaborazioni in volumi che hanno segnato l’evolversi dell’analisi, della discussione nonché l’innovazione a tutto campo nel settore delle lingue. Il lavoro, come scrive Beacco nell’incipit dell’Avant-propos, “vient de loin” (p.7) perché raccoglie esperienze maturate nel tempo e attraversanti varie epoche, riflessioni dello studioso e del consulente internazionale e conoscenze non superficiali di numerosi contesti specifici.

Non è, in senso stretto, un libro di metodologia perché si ferma sulla soglia dell’ambito delle scelte tecniche e didattiche di chi lavora in aula; per esplicita e consapevole affermazione l’autore non pretende di esaurire i temi presenti sul campo pur affrontando questioni di assoluto rilievo. Ispira il lavoro la ricerca dell’interazione, dei legami e delle sconnessioni tra le decisioni di politica linguistica e l’ingegneria curricolare che Beacco identifica come quella terra di mezzo tra le scelte strategiche dei policy actors e lo operazioni in classe. Privilegia il legame con la scuola, attore chiave nell’arena delle politiche linguistiche, senza evitare, tuttavia, di affrontare a tutto campo le diverse valenze di una politica, quella delle lingue, che è un mezzo per scopi diversi e interessa un terreno composito di azioni pubbliche a geometria variabile.

Beacco si rivolge, in primis, agli insegnanti per un approccio a temi significativi per il loro lavoro e per il loro essere cittadini. In realtà i nodi sollevati, l’ampiezza dell’orizzonte e la coerenza nei legami tra i settori di un’area composita e frastagliata fanno del libro un companion prezioso per chiunque si occupi, a vario titolo, di lingue.

Senza l’appesantimento di riferimenti eruditi l’autore rivede accezioni del passato (Kaplan e Baldauf, Fodor, Hagège, Spolky) e traccia il perimetro dell’arena oggetto di studio fornendo un approccio alle politiche linguistiche di carattere ampio e comprensivo. Riprendendo una definizione già formulata in un rapporto del 2007 per il Consiglio d’Europa (Beacco e Byram, 2007:17) la politica linguistica viene intesa ” comme une action volontaire, officielle ou militante, destinée à intervenir sur les langues, quelles qu’elles soient…dans leurs formes… dans leurs fonctions sociales … ou dans leur place dans l’enseignement”.

L’approccio che guida l’intero volume mette alla base delle politiche linguistiche lo Stato con le sue responsabilità di intervenire, pur notando che non sempre la questione è in agenda, che l’atteggiamento tradizionale del laissez-faire continua e, soprattutto, che l’azione pubblica non è da limitare all’intervento statale. Le politiche pubbliche sono l’insieme delle azioni degli attori, di sistema e non di sistema, di fronte a un problema di carattere generale. L’interventismo è presente in vari campi, dall’integrazione linguistica dei migranti adulti alla promozione della lingua nazionale.

Dopo la formulazione della definizione, ampia e funzionale, dell’area in scrutinio (Cap.1), l’autore esamina i fondamenti dell’azione pubblica, dai bisogni linguistici, individuali, collettivi e nazionali, alle loro rappresentazione sociali (Cap.2) ritrovando poi due principi diversi, l’unificazione (Cap. 3) e la diversificazione (Cap.4), per interpretare le scelte compiute e per la gestione politica delle questioni linguistiche aperte.

Approfondisce poi le poste in gioco delle politiche pubbliche (Cap.5) in un’arena in cui s’intrecciano questioni diverse, dalla rivendicazioni linguistiche alle strategie di sostegno alle lingue nazionali, dalle discriminazioni generate da gerarchie tramandate tra le lingue ai fattori destabilizzanti, dagli equilibri politici alla base delle decisioni alle diverse dinamiche di legittimazione delle lingue.

Lo spazio delle lingue è pluralistico con numerosi attori sociali (Cap.6) nazionali e internazionali (Cap.7), pur dovendosi riconoscere il peso del sistema educativo come strumento fondamentale delle politiche linguistiche (Cap.8)

Sulla gestione della diversità, la sfida di oggi, è centrato il successivo Capitolo 9 in cui si discute di ostacoli e di strumenti. Gli ostacoli hanno la loro origine anzitutto dalle idee ricevute sull’apprendimento delle lingue e dalle scelte amministrative che si compiono. Gli stereotipi derivanti dal permanere di concezioni proprie del monolinguismo, dagli atteggiamenti, impliciti spesso, di esclusione e dalle convinzioni diffuse dell’effetto di intralcio dell’apprendimento di una seconda straniera rispetto alla prima, sono alcuni dei fattori di freno. A questi vanno aggiunte le varietà delle situazioni reali in cui all’insegnamento formalizzato si associa l’insegnamento indipendente delle lingue e i rigidi schematismi correnti che mettono in primo piano, ad esempio, il profilo del parlante nativo come unico e dominante riferimento o si rivelano miopi di fronte alla pluralità dei contesti comunicativi. Di queste culture linguistiche esistenti Beaccò elenca puntualmente (p.138) le componenti, che offuscano la percezione di quello che è l’apprendimento delle lingue, a cui oppone, senza scendere nell’adesione acritica, il quadro europeo di riferimento di cui riconosce alcuni utilizzi approssimativi, e la Description de niveaux de référence (DNR), strumenti entrambi con flessibilità per “traduire en actes une politique linguistique éducative soucieuse de la diversité” (p.150). In particolare la DNR specifica il contenuto della lingua, così come era stato realizzato con il livello soglia ma a cui mancava, tuttavia, un quadro di riferimento comune come il CECR (p.146).  Sviluppata per alcune lingue come il tedesco, lo spagnolo, l’italiano, i francese, di cui viene illustrata con dettaglio l’articolazione, serve per passare dal quadro europeo ai veri e proprio programmi di studio. Si tratta, infatti, di fornire agli insegnanti come agli autori di manuali. Si propongono infatti di “décrire, sous forme d’inventaires de ‘mots’, des contenus possibles d’enseignement d’une langue donnée” (p.146).

Aspetti amministrativi – numero di ore per le lingue, contratti di lavoro e di servizio degli insegnanti, criteri per la formazione delle classi, rilevanza della richiesta dei genitori, esigenza di esami finali -, rendono talvolta difficile l’adozione di formule più flessibili e morbide. Naturalmente si tratta di scelte anche di carattere finanziario che riflettono l’importanza che viene data allo sviluppo della persona, alla coesione sociale e al dialogo interculturale (p.140).

Il Cap. 10 si concentra sulle forme per la diversificazione dell’insegnamento delle lingue straniere. Beaccò richiama la nozione di scenario curricolare (CECR Cap.8) come strumento di coordinamento dell’insegnamento delle lingue attraverso una comprensione olistica di tutte le componenti del curriculum e una organizzazione dei percorsi di apprendimento superando le logiche amministrative, degli studenti, con implicazioni sulla formazione dei docenti e sugli strumenti pedagogici di uso. Indica la trasversalità come frontiera per far “interagir des communautés de pratique divers souvent en tension” (p.167) facendo riferimento alle indicazioni fornite dal Consiglio d’Europa e suggerendo la ricerca di convergenze per far sì che l’insegnamento delle lingue non sia in parallelo ma renda possibile che l’apprendimento di una lingua contribuisca alla conoscenza delle altre. I progetti integrati fornendo anche esempi di iniziative lanciate o in corso in Svizzera, in Spagna e in Austria, rilevando la presenza di un movimento in corso sulla trasversalità tra le discipline e sulla longitudinalità dei percorsi di insegnamento, pur riconoscendo che “Nul ne peut préjuger des effets de programmes de cette nature sur les acquisitions et les représentations des apprenants” (p.170) e “Nul ne peut non plus prédire comment ces programmes seront reçus et mis en place par les enseignants” (p.170).

Gli schemi di analisi proposti sono messi alla prova nei successivi Capitoli 11 e 12 in cui sono presi in esame due casi di studio di notevole rilevanza e di diversa salienza, pur senza sottovalutare l’importanza di altre situazioni. L’integrazione linguistica dei migranti adulti e l’internazionalizzazione dell’insegnamento superiore  offrono lo spunto per un approfondimento delle strutture profonde delle discussioni e dei cambiamenti in atto.

In conclusione, accanto all’acribia dell’analisi e all’articolazione delle riflessioni Beacco si rivela, lungo le pagine del volume, un osservatore partecipante consapevole dei disastri del monolinguismo, dal fanatismo all’intolleranza, e delle potenzialità della conoscenza delle lingue per la coesione sociale. Questo messaggio rivolto agli insegnanti è, in primis, il valore aggiunto dell’intero lavoro che, tuttavia, non sarebbe compiutamente compreso se non letto con l’ottica delle public policies analysis. A una lettura in profondità il lavoro analitico del prof. Beacco permette di rintracciare le peculiarità delle politiche linguistiche.

Le peculiarità delle politiche linguistiche

Naturalmente anche per il settore delle politiche linguistiche sono applicabili le categorie dell’analisi delle politiche pubbliche (tipologie delle politiche, policy links, analisi dell’agenda e della non-agenda, deficit di implementation, regimi di quasi mercato … ). Come hanno sottolineato vari studiosi pur in presenza di fondamentali comuni tra le aree di azione pubblica, “policy determines politics” (Lowi, 1972): i contenuti specifici della politiche sono la variabile indipendente – problemi da affrontare e posta in gioco – rispetto alle strategie politiche variabile dipendente (la rete degli attori, la struttura dei processi di decisione e i tipi di relazione tra gli attori. Solamente scendendo sul terreno specifico di ogni singolo settore si possono cogliere le peculiarità degli interventi pubblici, che hanno caratteri comuni a quelli realizzati in altri settori, ma rivelano specificità quasi sempre non marginali. Forse per la propria atipicità nei filoni comparativi di ricerca sulle politiche pubbliche il tema delle lingue non è ricorrente e sembra essere quasi monopolio dei linguisti. Vediamo i tratti che ne fanno una sorta di unicum.

In primo luogo con le lingue siamo di fronte alla somma di più questioni apparentemente distanti tra di loro (insegnamento precoce di una lingua, utilizzo di una lingua minoritaria nella gestione della giustizia), più che ad un’area isolabile facilmente come potrebbe essere la politica sanitaria o la strategia industriale di un paese. Se consideriamo la composizione dell’arena appare evidente che non c’è un’unica policy community, bensì una pluralità di gruppi di pressione. Ha ragione Beacco nello scrivere che di fronte alla definizione di aree di azione pubblica “Le domaine des politiques linguistiques échappe en partie à cette description” (p.28). Per di più molte scelte date per scontate e non oggetto di confronto o dibattito (come lo spazio riservato dalla lingua inglese nei sistemi scolastici). Prevale una percezione confusa rispetto ad altri settori quali la sanità, il lavoro o il welfare, anche per la mancanza di indicatori condivisi e di analisi puntuali della realtà. I principi di azione sono per lo più impliciti, radicati spesso nelle ideologie; quando sono manifesti spesso hanno valore simbolico e non strettamente operativo come numerosi policy documents. Soprattutto molti interventi sono occasionali, quasi sempre reattivi e non pro-attivi rispetto ai mutamenti o alle emergenze, raramente ci sono processi di fact-finding (forse anche per la povertà dei dati statistici disponibili), difficile è quasi ritrovare tracciati coerenti tra decisione prese a livello centrale e iniziative avviare a livello territoriale.

In secondo luogo a diversità di altre issues, quali la sanità o l’economia di un paese, il dibattito sulle politiche linguistiche, come le decisioni che vengono assunte, raramente investono le grandi questioni di fondo: più spesso sono centrate su singole questioni di settore che, non per questo, non hanno rilevanza di carattere generale, le scelte sono spesso non percepite o derivano da istanze amministrative (p.118). Peraltro raramente il dibattito è acceso fatta eccezione per alcuni casi, come il carattere elitario degli insegnamenti bilingui o quello delle lingue classiche. Non c’è un’unica agenda, bensì una pluralità di campi di intervento con una forte diversità di processi di formazione delle decisioni. A fare sintesi non sono gli attori politici ma spesso i linguisti impegnati sul campo.

In terzo luogo, inoltre, c’è una prevalenza delle dimensioni pedagogiche e didattiche sul profilo delle politiche linguistiche. E i linguisti, delle diverse specializzazioni esistenti, affollano l’arena più di altri. “Le débat est plutôt de nature pédagogique et didactique qu’abordé dans le cadre de la politique linguistique générale de la nation” scrive Beacco (p.118). Non c’è confronto tra quello che si conosce ormai nell’analisi delle lingue, dei livelli di competenza, dei profili di abilità oltre che dei processi di apprendimento, e quanto si conosce sulla base di evidenze per la formazione e implementazione delle politiche linguistiche.

In quarto luogo l’area delle politiche linguistiche riguarda contesti di azione molto diversi (dalla promozione di una lingua nazionale alla normazione ortografica, dalla definizione di curricula di scuola al sostegno alle lingue di minoranza) e comprende situazioni molto diverse tra di loro (dalle strategie di scuola alle politiche dell’Unione Europea). Un’area composita, difficilmente unitaria, spezzata, non compatta, trasversale.

In quinto luogo, l’assenza di indicatori di risultato è significativo di una qualche criticità insita nel settore e la polisemia del ‘successo nell’insegnamento e nell’apprendimento delle lingue’ (Pit Corder, 1973:14). Mentre per le politiche della manodopera o della sanità si hanno dati statistici di risultati ottenuti da mettere a confronto con obiettivi formulati, nel campo delle lingue straniere le informazioni disponibili sono parziali (si vedano i dati Eurostat). Mancano iniziative di testing simili a quelli messi in atto a livello internazionale da agenzie quali IEA o programmi dedicati come il programma PISA dell’OCSE, del tutto iniziali o territorialmente limitati i tentativi di valutazione delle competenze degli studenti (Portogallo, Trentino, First survey…).

In sesto luogo, c’è un mercato delle lingue in cui entra pure lo Stato (p.119). Non è solo nella scuola; non c’è una base istituzionale ben identificabile: ci forme multiple di presenza dell’insegnamento delle lingue dentro e fuori la scuola. Non è solo come la gestione, diretta e indiretta, della sanità o dell’educazione: il sistema è più complesso e i punti di contatto sono vari (vedi Portogallo)

A queste peculiarità vanno aggiunti gli elementi di complessità che caratterizza l’area: una cosa è il multilinguismo sociale, cioè la presenza di locutori con un bagaglio plurale di competenze, una cosa sono le politiche per il multilinguismo cioè le decisioni esplicite assunte. Una cosa sono le situazioni de iure che trovano formalizzazione nei documenti nazionali o internazionali, una cosa sono le situazione de facto, cioè il comportamento linguistico dei parlanti e delle singole comunità. Ci sono realtà multilingue che sono il frutto di decisioni politiche, ma anche si trovano politiche che sono state definite per far fronte alla diversità linguistica esistente e non è sempre chiaro il legame causale tra i fattori.

Queste peculiarità rendono difficili, e inevitabilmente laboriosi, i tentativi di sintesi. D’altra parte senza una lettura integrata diventa arduo cogliere, senza approssimazioni, il significato delle azioni pubbliche nel campo delle lingue e rispondere in modo funzionale ai problemi che si pongono con crescente evidenza.

 Alla ricerca dei principi

Le peculiarità delle politiche linguistiche obbliga ad un’attenta analisi dei processi di costruzione sociale, politica e ideologica delle decisioni che vengono prese in questo campo. Le politiche pubbliche hanno origine da problemi generali, percepiti e fonte di preoccupazione, fonte di pressione, oggetto di rivendicazione. Cercando elementi fondanti l’autore parte dai bisogni linguistici, individuali e collettivi, e dalla rappresentazione sociale dell’apprendimento delle lingue per ritrovare la chiave di volta di analisi e di comprensione.

La nozione di bisogni linguistici non è politica, ma pedagogica e didattica e richiama la necessità di una formazione linguistica necessaria nell’immediato o nel futuro con riferimento a specifici contesti (posto di lavoro, borsa di studio all’università, turismo e viaggi…) Un concetto che può essere tradotto in procedure di analisi sul campo dei fabbisogni, ma che conserva elementi di incertezza perché non di rado non si ha una idea puntuale di quali saranno i contesti comunicativi. Così il caso degli insegnamenti riservati ai giovani o ad adolescenti.

I bisogni collettivi di un Paese possono essere termini di riferimento (Beacco cita un paio di rapporti del 2008 e del 2014 sul valore economico del francese), anche se sono spesso le rappresentazioni sociali delle lingue a influenzare le strategie degli individui, delle famiglie e, talvolta dei decisori politici. Formate da informazioni e opinioni, con carattere di stabilità, condivise anche per i valori sottostanti, resistenti al confronto con la realtà e fuori discussione, rendono possibile la comunicazione sociale, tendenti a perpetuarsi nel tempo.

Le rappresentazioni contengono elementi valutativi di vario genere (p.36) che determinano anche il tasso di simpatia o antipatia delle lingue, riflettendo evoluzioni storiche e caratteri nazionali attribuiti con diversi degrés d’extraneité (p.38) attribuiti alle singole lingue. Queste rappresentazioni incidono sull’insegnamento delle lingue con un serie di credenze correnti (padronanza nativa come riferimento con esclusione di competenza parziale, priorità attribuita all’orale, apprendimento individuale e non cooperativo, assenza di convergenza e trasversalità per evitare interferenze, l’esclusione della lingua materna nell’apprendimento di altre lingue…). Queste rappresentazioni sociali influenzano le aspettative dei singoli, gli orientamenti degli insegnanti e non di rado sono più influenti nelle decisioni politiche dei pareri di esperti o di specialisti (p.40).

Unità versus diversità linguistica

Unità e diversità non sono due categorie solo teoriche, sono due paradigmi che fotografano la transizione in corso che Beacco interpreta in modo circostanziato. La modernizzazione delle politiche linguistiche passa attraverso la gestione della diversità linguistica. Questa è la sintesi di ipotesi di importanti documenti degli organismi internazionali, ma anche l’evidenza che si coglie nell’analisi di come le questioni linguistiche si vanno oggi ponendo.

Le ideologie sono sistemi compatti e integrati, con pretesa di interpretazione ampia delle questioni in campo. Beacco non teme di inoltrarsi, con la perspicacia di chi ha attraversato discussioni e diatribe linguistiche, in un terreno accidentato e sensibile non solo per il linguista, ma anche per il cittadino ordinario, perché si devono sottoporre a scrutinio convinzioni radicate, implicite o manifeste, e rivedere stereotipi che sono accettati acriticamente.

L’ideologia della non uguaglianza tra le lingue con implicazioni nelle scelte che si compiono è quanto mai radicata. La propria lingua ha sempre qualche valore aggiunto rispetto alle altre. Dagli Inuit delle regioni artiche ai greci della tradizione classica la prospettiva etnocentrica porta a considerare la vera lingua la propria, relegando le altre a lingue incomplete e povere. Se dal punto di vista delle scienze della lingua ogni lingua è un sistema di comunicazione, il fatto che ci siano valutazione diverse non dipende dalla loro natura in quanto lingue ma dallo status di cui godono a sua volta dipendente dall’impiego da parte di gruppi sociali dominanti, dal livello raggiunto di standardizzazione, dalla legittimità storica e culturale costruita nel tempo e, soprattutto, dall’essere lingua di insegnamento nella scuola come nell’università.

Variamente intrecciate sono le lingue con l’ideologia della nazione. Molto spesso la lingua, e la sua conoscenza, sono indicatori di appartenenza nazionale, probabilmente i più forti e penetranti. La lingua diventa spesso “l’une des incarnations de la nation et de l’esprit national” p.49 e appare minacciata dal pluralismo linguistico che rischia di corrompere l’unità originaria e identitaria. In genere il monolinguismo di Stato non si è ancora giunti, nota Beacco, a dissociare la lingua parlata dai cittadini dalla cittadinanza come è avvenuto con la separazione tra credenze religiosa e appartenenza a uno Stato (p.50). L’implosione dell’Europa non è estranea a questa ideologia.

Più sotterranea e ramificata è l’ideologia economica che attraverso il dibattito politico e le strategie sulle lingue. Torre di Babele della Bibbia al dono, per contrasto, della parola della Pentecoste, la lingua si porta dietro una maledizione: “la multiplicité des langues est un handicap” (p.50) e ‘la multiplicité des langues coûte cher” (p.52). Di qui i tentativi di una lingua d’origine, unica e semplice, e in tempi più recenti l’uso veicolare dal tedesco al russo, al portoghese, di una delle lingue esistenti, lingue di servizio, ruolo oggi attribuiti all’angloamericano, la prima lingua franca con una audience planetaria, diventata anche modello culturale mondiale.

Le culture linguistiche e al loro interno le diverse componenti ideologiche rendono arduo il percorso della gestione della diversità linguistica: anzi si tratta di andare controcorrente. Alternativa alle ideologie che in un modo o nell’altro, mirano alla unificazione delle lingue, al monolinguismo nazionale o globale con una lingua franca, è la prospettiva della diversità e della gestione della diversità. Le ragioni alla base sono legate a quanto avviene ormai in realtà: presenza di più lingue, contesti multilingui, mobilità delle persone. Il parlante plurale

Su questa base sorgono principi alternativi: così la considerazione della diversità linguistica e della necessità di una gestione strategica che vada oltre il laissez-faire. Ed è in questa direzione che Beaccò sviluppa una parte consistente del suo volume (cap.9 e cap.10).

La gestione della diversità linguistica

Rivolgendosi agli insegnanti per aiutarli a capire il contesto, in termini di politiche linguistiche, in cui operano Beaccò pone al centro il problema di come affrontare la diversità linguistica in modo coerente e funzionale. A questo scopo ricostruisce l’arena con i suoi attori e le loro relative strategie operative, toccando aspetti relativi alla fattibilità e alla implementazione delle decisioni, entrando nei dilemmi e nelle incertezze del settore e soffermandosi sull’ingegneria curricolare come la variabile chiave per l’evoluzione delle soluzioni possibili.

Attori di sistema e attori non di sistema

Come abbiamo già ricordato Pit Corder parla di cooperative adventure dal punto di vista del linguista che considera i diversi piani di azione nel language planning. Agli occhi degli analisi delle politiche pubbliche la realtà appare più complessa e meno lineare: le dinamiche delle policy communities possono essere ispirate da spirito collaborativo, ma non escludono conflitti accesi tra gruppi e istituzioni, le soluzioni incrementali delle decisioni prese sono più frequenti dei processi meramente applicativi e le scelte formali compiute, spesso con strumenti normativi, non escludono deficit di implementazione.

Beacco abbandona una visione irenica delle politiche linguistiche e ne esplora i labirinti con disincanto, senza tuttavia perdere di vista l’evoluzione, auspicata e già radicata in alcune tendenze, del management della diversità che condivide esplicitamente. Lo Stato interviene in vari campi delle politiche linguistiche, spesso con le norme ma anche con altri tipi di misure (investimenti finanziari, distributive..) e il sistema educativo è lo strumento dominante che non ha confronti in termini di influenza e di impatto sia per l’innovazione sia per la conservazione. Non ci sono, tuttavia, né in un caso né nell’altro, situazioni di monopolio o posizioni di esclusività.

In taluni casi, peraltro, l’equilibrio all’interno di un stato nazione spesso con monolinguismo ufficiale tra i parlanti e le loro lingue è soggetto a mutamenti data anche la varietà di situazioni (pag.75-76), con rivendicazioni, movimenti collettivi e seri conflitti, anche se la répression linguistique (p.79) è ormai archiviata come soluzione politicamente troppo onerosa.

A diversi organismi internazionali e intergovernativi, dall’Unesco al Consiglio d’Europa, si deve l’avanzamento dell’idea della diversità linguistica e delle sue implicazioni politiche. Evidente è l’impatto, ad esempio, sulla legittimazione delle lingue di minoranza o regionali, anche nel sistema di istruzione, pur non mancando contrasti tra le posizioni transnazionali e le politiche nazionali con divergenze significative tra un paese e l’altro. La Francia, ad esempio, non ha ratificato la Carta delle lingue di minoranza o regionali perché ritenuta incostituzionale dal Consiglio di Stato (p.83).

Le famiglie, le associazioni e i partiti spesso si contrano su lingue particolari non sulla diversità linguistica (p.88) Le famiglie entrano in campo nell’esprimere una domanda e nell’influenza le scelte da parte degli studenti tra le lingue offerte.

Le imprese sono spazi multilingue con una pluralità di contesti diversi. Beacco distingue tra le esigenze funzionali di competenze linguistiche legate anche alla globalizzazione dei mercati e quelle, più di carattere simbolico, che risentono delle strategie di marketing. Costante e diffusa è la richiesta di migliori livelli di padronanza delle lingue da parte dei giovani.

Il panorama delle associazioni che influiscono sulle politiche linguistiche come gruppi di pressione è ricco e vario: da quelle a carattere culturale a quelle espressione di movimenti di rivendicazione linguistica.

Da questo panorama deriva una concezione pluralistica dell’azione pubblica, non limitabile all’intervento dello Stato, in linea con le analisi del policy making. Di pregio da sottolineare sono alcuni punti importanti. Beacco riconosce che l’origine delle scelte linguistiche non è sempre il governo o lo Stato; spesso è il terreno della didattica a generare nuove ipotesi. Le logiche top-down si intrecciano con quelle bottom up e anche le ipotesi degli scienziati delle lingue necessitano di interpretazioni da parte degli insegnanti per diventare realtà. I cambiamenti, in ogni caso, sono di lungo periodo.

Rispetto ad altri settori adiacenti come l’educazione, nel caso delle lingue si verifica una situazione di quasi mercato, là dove l’iniziativa privata e indipendente ha occupato grande spazio nel dare risposta alle domande di competenze linguistiche e alla loro certificazione e dove lo stesso Stato è sceso in campo nelle dinamiche di competizione tra i providers di percorsi formativi.

L’implementazione

Beaccò accenna in diversi passaggi i problemi legati alla messa in opera di politiche linguistiche e, più in particolare, della gestione strategica della diversità accennando qui e là, alle dinamiche della policy implementation. La faisibilité (p.130) è uno dei criteri di cui tener conto nel varare strategie di gestione della diversità,

L’insegnabilità delle lingue è un fattore cruciale in termini di fattibilità. L’impostazione della formazione linguistica non parte mai da una tabula rasa: si innesta su complessi sistemi esistenti dove per alcune lingue esiste una consolidata tradizione di insegnamento, esiste un sistema tecnico-professionale di riferimento (insegnanti, percorsi di formazione iniziale, know-how, sussidi e materiali, prassi diffuse, condivisione del genitori e del contesto) e, in genere, una legittimazione culturale e politica. Gli avvii ex-novo presuppongono capacità operative e investimenti consistenti. Non a caso la sostituzione delle lingue, ad esempio dalla lingua francese alla lingua inglese come prima lingua straniera nei programmi di insegnamento in Italia, è avvenuta progressivamente nel medio e lungo periodo dagli anni 1970 in poi.

L’organizzazione esistente si basa su modelli amministrativi che determinano tempi e modi del lavoro del docente, fissano i regimi di qualifica professionale per accedere all’insegnamento e regolano aspetti operativi dalla determinazione del monte ore per le lingue nelle scuole alla composizione delle classi. Non solo gli u-turn sono rari, anche gli sviluppi sono spesso legati a modelli sommativi e soluzioni aggiuntive più che a rivisitazioni della formazione linguistica.

In terzo luogo la variabile tempo è un fattore incidente nelle misure sulla gestione della diversità linguistica. Occorre visione, lungimiranza, flessibilità nelle soluzioni. La possibilità di mettere in campo nuovi modelli è legata alla disponibilità di risorse professionali la cui preparazione presuppone cicli medio-lunghi di intervento. Il teacher shortage nel settore delle lingue è un problema avvertito in molti paesi, come il surplus di insegnanti di una lingua non più richiesta è uno stumbling block per il rinnovamento delle strategie. La riconversione professionale dei docenti è complessa perché implica la padronanza a livello elevato delle lingue.

Soprattutto ricorre frequentemente il richiamo ai processi di negoziazione che sono insiti nella costruzione delle decisioni sulle lingue: tra lo Stato e i gruppi che rivendicano uno status per lingue regionali, tra la decisione politica e la didattica nelle classi, tra gli organismi internazionali e gli attori nazionali. Se “les relations entre politique linguistique éducative et didactique des langues ne sont pas aussi simple que ce que ce ‘rôle techinique’ de la didactique pourrait laissez entendre” (p.130) l’interazione è dialettica i diversi attori: la pertinenza delle finalità assegnate dalla politica all’insegnamento delle lingue, la loro adeguatezza ai cambiamenti in corso, il loro valore per la formazione degli studenti appartengono alla discrezionalità professionale di chi insegna. Beacco nota che l’educazione plurilingue o interculturelle “dans bien des contextes n’a pas été ‘apporté’ par le politique, mais par la didactique” (p.131). Dalla pratica didattica sorgono innovazioni, riprese, disseminate o istituzionalizzate dalle decisioni politiche, che cambiano i sistemi di istruzione.

Nell’interfaccia tra politica e didattica Beacco non manca di puntualizzare “l’inertie propre à des systèmes complexes comme les systèmes éducatifs peuvent en retarder ou enbiaisier l’implementation”(p.135) e con realismo e prammatismo  che “en tout état de cause, les programmes sont réalisés effectivement dans la classe et le dernier mot revient toujours aux enseignants”(p.135) come importanti ricerche sul cambiamento in educazione hanno messo in evidenza.

Le ambivalenze e i dilemmi

Sotto una prosa che risente degli stilemi dei documenti internazionali ritorna frequentemente l’annotazione critica, la sottolineatura di rottura, il richiamo alle evidenze e l’emersione degli apriori. Sono i passaggi più autentici delle pagine in cui lo studioso e il consulente internazionale che è preoccupato delle azioni, che crede nella possibilità di scelte ragionevoli e, soprattutto, vede le vie di soluzione a problemi dibattuti senza esito. La complessità delle scelte che si compiono e la dialettica tra opinioni diffuse, decisioni prese e problemi da risolvere richiama pagine rinomate delle analisi delle politiche. Queste criticità appaiono con più evidenza e frequenza nei casi di interventismo rispetto al laissez-faire di ieri.

Nel corso del testo sono puntuali e ricorrenti gli esempi dell’ambivalenza delle misure che si adottano nel campo delle politiche linguistiche. Per un migrante apprendere la lingua è funzionale alla possibilità di interazione comunicativa, ma l’accertamento della competenza è anche un possibile sbarramento (p.173) con una sorta di coercizione simbolica. A questo riguardo, ricorda Beacco, il rischio di pratiche discriminatorie è stato denunciato dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa. Così se le imprese sono sempre più spazi plurilingui, il ricorso alla lingua inglese nelle aziende risponde, infatti, ad una pluralità di esigenze, sociali, culturali, di marketing, di status globale e di modernità manageriale da esaminare con attenzione critica alle singole situazioni (pp.94-95).

Per altro la stessa integrazione linguistica non appare chiara e univoca non appena si scalfisce la superficie. Beacco dopo aver messo in discussione il rapporto tra conoscenza linguistica e appartenenza nazionale, distingue forme diverse di integrazione linguistica (p.177) che dipendono dallo statuto nelle diverse lingue e dai progetti di vita personali. Buona padronanza della lingua e integrazione sociale riuscita è un’ ‘équivalence ideologique’ (p.179) da rivedere come l’attenzione va posta sulla qualità dei test (p.184) e sulla confusione corrente tra i bisogni linguistici effettivi dei migranti e gli stereotipi su quanto un buon migrante deve sapere (p.184) oltre alle incertezze legate alla nozione di ‘buona conoscenza’ della lingua o alle criticità dei corsi standard senza attenzione al repertorio linguistico del singolo migrante.

I vincoli che condizionano il management delle lingue e della loro diversità sono numerosi e vengono richiamati nel corso del volume. Anzitutto di tempo. Se l’università deve rispondere ai bisogni del sistema nazionale di istruzione non può tener conto solo delle lingue che sono attualmente insegnate perché a fronte di un possibile fabbisogno diverso i tempi sono lunghi se non si ha a disposizione un primo ‘vivier’ di insegnanti (p.192).

Accanto alle scelte esplicite le non decisioni hanno il loro peso nei processi di policy-making aldilà delle retoriche correnti. Beacco fa notare, ad esempio, che non sempre le università giocano il ruolo di attori delle politiche linguistiche e il periodo universitario non si traduce spesso per lo studente in una seconda possibilità di arricchire il proprio repertorio linguistico (p.195)

Se le evidence-based decisions sono aspetti di qualità nella formazione delle politiche pubbliche, nei processi reali il ruolo delle basi conoscitive è di assoluto rilievo. Beacco sottolinea che “les politiques linguistiques ne sont pas très fréquemment élaborées à partir de choix tecniques effectuées en connaissance de cause a partir d’études des spécialistes ou d’experts” (pag.18) e che le decisioni politiche “ne sont prises que très éventuellement en concertation avec les conseillers, techniciens ou experts linguistes” (p.18)[1]. Entrano in gioco le rappresentazioni sociali che eletti e responsabili hanno della lingua e delle lingue; spesso prevalgono le idee ricevute sui dati oggettivi; valori, principi e ideologie giocano la loro parte. Peraltro anche le ricerche condotte in modo rigoroso non portano a scelte obbligate: i problemi analizzati possono essere affrontati in modo diverso e lo stesso ricercatore è portatore, come cittadini, di valori e di interessi. Così può avvenire che in mancanza di istanze scientifiche e di lavoro rigoroso di analisi “ce sont les représentations sociales et les idées reçues sur les langues qui tendront à servir de base et de justification aux décisions” (p.201). Questo stupisce particolarmente, annota Beacco, quando questo avviene in contesti come quelli accademici che si ammantano di scientificità.

I dilemmi che si aprono nella decisioni sono ricorrenti. Un caso attuale e pertinente è l’internazionalizzazione dell’istruzione superiore attraverso il ricorso alla lingua inglese come veicolo di insegnamento. Se le lauree in inglese nelle università possono favorire, in una situazione di declino demografico, l’immatricolazione di studenti stranieri anglofoni e generare un vantaggio economico oltre a contribuire a migliorare il posizionamento di una istituzione universitaria nel ranking internazionale, il rischio di “faire perdre à la langue nationale son statut de vecteur de la science, ce qui constitue une perte de légitimité considerable” (p.199) non può essere sottovalutato.

Interrogandosi sulla natura, sugli obiettivi e sui caratteri delle iniziative prese in molti stati per la formazione linguistica delle persone migranti Beacco puntualizza i dilemmi (“appui ou entrave?” p.173), le possibili contraddizioni, le scelte non chiarite e le carenze funzionali e tecniche di molte misure pur condivise. Le facce dell’inerzia rispetto a una gestione strategica della diversità sono numerose.

Sotto traccia in tutto il volume c’è un atteggiamento critico dello studioso e dell’osservatore partecipante, rivolto a disvelare gli intrecci latenti, i collegamenti ignorati, i significati non manifesti e gli stereotipi. Per questi aspetti il testo di Beacco si avvicina anche alla letteratura sui “miti linguistici” (Bauer e Trudgill, 1998; Johnson, 2013), dal native speaker come modello di riferimento (Davies, 2003) all’enfasi incauta sul CLIL (Paran 2013).

L’ingegneria linguistica: la blackbox da aprire

A scuola entra in gioco l’ingegneria linguistica, una terra di mezzo tra le decisioni politiche e le metodologie dell’azione didattica, raramente oggetto di analisi, quasi schiacciata tra la salienza simbolica e la rilevanza funzionale delle decisioni politiche e l’enfasi ricorrente e l’attrattività nei dibattiti delle opzioni di metodologia didattica, di impostazione dell’insegnamento e di controversie curricolari. Ed a proposito di questo terreno intermedio, troppo specifico per gli analisti di politiche e poco accattivante per gli esperti linguisti di metodo, che si trovano probabilmente le pagine più autentiche e più utili dell’intero testo di Beacco che capitalizza la sua vasta e duratura esperienza assieme ad una intelligente acribia nello sceverare i diversi piani di azione e le svariate facce delle questioni linguistiche.

Il destino delle disquisizioni metodologiche o del dibattito politico si infrange non di rado contro i processi di messa in opera che sono spesso canalizzati lungo le strettoie delle correnti organizzazioni, curricolari e professionali, dell’insegnamento. Le indicazioni per gli attori contenute nel testo sono chiare e decise: “décloisonner les formations linguistiques” (p.152) almeno tra le lingue straniere e tra queste e la lingua principale è una strada da percorrere senza rincorrere la spazio delle discipline a favore di corsi indistinti di ‘comunicazione verbale’. Di qui la nozione, e la relativa proposta, dello scenario curricolare (p.152ss), già elaborata in collaborazione con altri esperti da Beacco e contenuta nei documenti del Consiglio d’Europa(Guide pour le développement et la mise en oeuvre de curriculum pour une éducation plurilingue et interculturelle” CECR 3.8). Il paradigma proposto nasce dall’utilizzazione del Quadro comune per l’organizzazione dei curricula delle lingue in funzione della diversificazione, e può già contare su esempi di riferimento per l’insegnamento delle lingue in sinergia, richiamati e descritti come ‘prototipi, da adattare a una pluralità di contesti specifici. L’insegnamento delle lingue regionali (p.155) o la simulazione dell’insegnamento delle lingue nella formazione professionale (p.164) sono due prototipi che illustrano concretamente come vada ricostruita in funzione del contesto la strategie delle lingue con la piena valorizzazione delle potenzialità e il superamento degli ostacoli specifici. Le lingue regionali devono entrare in un rapporto di “fécondité réciproque” (p.156) con la lingua di scolarizzazione attraverso diverse ipotesi curricolari (lingue ponte verso altre, rafforzamento della coscienza linguistica  (Hawkins, 1984), utilizzazione anche per gli apprendimenti disciplinari). Nella formazione professionale l’insegnamento standard o la super-specializzazione sono errori da evitare, mentre la motivazione e l’ancoraggio della lingua alle competenze professionali sono le strade da perseguire.

Lo scenario curricolare sostituisce la mera giustapposizione degli insegnamenti delle diverse lingue secondo logiche amministrative; è uno strumento che permette di mappare tutte le strategie da adottare, tracciando i percorsi di chi apprende secondo coerenze longitudinali e integrazioni orizzontali. Naturalmente comporta la condivisione di un approccio flessibile all’apprendimento delle lingue, la concezione delle competenze linguistiche parziali e, soprattutto, una visione globale della formazione linguistica, articolata ma coerente, senza compartimenti stagno o gerarchie improprie.

Sulla trasversalità della formazione linguistica il volume di Beacco apre un orizzonte convincente e quanto mai attuale: è un invito, in un certo senso a studiare più in profondità come le ipotesi frutto di riflessione ed esperienza possano ispirare le politiche linguistiche, come i documenti che nello spazio intergovernativo trovano formulazioni attrattive e stesure avvincenti possano diventare assi di intervento a livello di singoli paesi. Per questa ragione i programmi di trasversalità tra le materie linguistiche, come scrive Beacco, “témoignent de la primauté des décisions de politique éducative sur le considérations didactiques” (pag.171), ma allo stesso tempo indicano la lunga strada da percorrere per la rivisitazione dei piani di studio e dei curricoli di formazione linguistica.

La consapevolezza che la diversità non è oggetto esplicito di azione, più subita che affrontata nonostante la sua rilevanza, unita all’abilità nel districarsi su questioni di alta complessità, di contraddizione e di non linearità, con attenzione a non confondere la cultura diffusa e le percezioni con le decisioni reali e i dati dati di realtà.

Sotto traccia ci sono policy links che legano le scelte di politica linguistica a decisioni più ampi o relative ad altri campi, dalle politiche migratorie dove l’integrazione linguistica affianca l’inclusione sociale (p.173) alle politiche nazionalistiche, dalla promozione del commercio internazionale alle culture del curriculum. Il legame con l’istruzione e la scuola è evidente, ma è un errore sottovalutare altri complessi legami. Le scelte linguistiche sono espressione di trame interconnesse e difficili da districare. Le opzioni semplici sono spesso mistificatorie, come le opinioni nascondono stereotipi.

La consapevolezza della rilevanza dei processi di implementazione, spesso fallaci, talvolta caratterizzati da fallimenti, derivanti dalle difficoltà oggettive di saldare misure concrete, ingegnerie curricolari e decisioni politiche.

Le lingue sono un’area in cui obiettivi si intrecciano con interessi in conflitto e e difese dello status quo. Forze di pressione dei gruppi per avanzamenti nella direzione della gestione della diversità e movimenti di la resistenza al cambiamento sono ugualmente in campo.

Linguisti e azione pubblica

Non si può certo dar torto a Pit Corder che scriveva negli anni 1970: “There can be no systematic improvementi in language teaching without reference to the knowledge about language which linguistics gives us” (1973: 15). Un’uscita dall’ambito ristretto dei linguisti per affrontare il mare aperto, tuttavia, è oggi una necessità, un imperativo e una sfida nel solco, si potrebbe dire, di quell’invito di Tullio de Mauro per una linguistica interventista con la consapevolezza della complessità dell’arena politica e tenendo conto delle esperienze di interazione tra policy-takers e linguisti nel medio e lungo periodo (Dubois, 2014) Il testo, documentato e supportato da riferimenti bibliografici puntuali, essenziali e aggiornati e da una sitografia che permette di risalire agevolmente alle fonti dei documenti citati, contiene alla base un messaggio chiaro.

Capire il processo di policy può aiutare a superare quello iato che separa le decisioni dalle conoscenze esperte non consultate, per rendere possibile la messa a regime delle proposte e delle elaborazioni degli scienziati delle lingue e del loro apprendimento e, soprattutto, per promuovere politiche evidence-based. Così può svilupparsi la scienza della gestione delle lingue e della loro diversità.

Jean-Claude Beacco riversa la sua straordinaria esperienza di ricerca, di studio e di lavoro sul campo, fornendo agli insegnanti uno strumento di cultura professionale e civica (p.8), ma dando ai lettori una chiave di accesso per approfondimenti e per esplorazioni oggi necessarie.

L’autore stesso sembra anticipare possibili espansioni del suo lavoro. Nell’introduzione l’autore riconosce la centratura sulle situazioni europee pur se non mancano riferimenti all’antichità classica e alle lingue orientali, e il non aver considerato lo statuto delle lingue regionali o di minoranza, a cui riserva comunque qualche cenno, riconoscendo la necessità di un volume specifico. Così come nella scelte dei casi la esclusione di altri temi, come l’accoglienza linguistica dei giovani immigrati o l’insegnamento delle materie in lingua diversa da quella nazionale (p.9).

Senza dubbio la distanza, più volte sottolineata, tra la consapevolezza delle questioni e della loro articolazione e le pratiche correnti, sia a livello di politiche linguistiche, sia a livello di innovazioni nelle ingegnerie curricolari indica, indirettamente, la necessità di seguire vie alternative. In più occasioni l’autore sottolinea le concezioni e le rappresentazioni riduttive, quando non errate. Da questo punto di vista il volume segnala quelle che potranno probabilmente essere le prossime pratiche: uno strumento, quindi, di comprensione approfondita e multipolare, dello status quo ma anche un’indicazione per i prossimi traguardi.

Per il lettore italiano può fornire chiavi di lettura e di analisi della transizione in corso, dal CLIL introdotto normativamente nel curriculum della scuola secondaria superiore e dell’avvio del testing di massa per la lingua inglese. Forse anche può risvegliare l’attenzione per le lingue di minoranza regolate da una normativa ormai datata o facilitare la comprensione critica delle iniziative per la formazione linguistica dei migranti. E’ anche un contributo ragionato al dibattito attorno all’introduzione di corsi di laurea in inglese nelle università[2] che ha coinvolto anche la giustizia amministrativa e la Corte costituzionale, nonché l’Accademia della Crusca.

Le numerose sollecitazioni che origina la lettura riflessiva delle pagine del Professor Beacco alimentano altri interrogativi per il futuro. Di assoluto rilievo, ad esempio, è il ruolo nelle lingue della ricerca scientifica, discusso nel volume a proposito dei corsi universitari in lingua inglese in paesi come la Francia. Così in un orizzonte ancora più ampio sorge la domanda di quale posto abbiano le lingue nelle trasformazioni globali della cultura e nella competizione globale dei contenuti (Martel, 2010: 417). Il volume di Beacco è una bussola preziosa per chi intende avventurarsi nella scienza del management di un’arena, quella della diversità linguistica, che si rivela spazio liquido dove il bouillonement delle lingue è una costante del suo divenire come dimostra il caso del Mediterraneo (Calvet, 2016).

 

Riferimenti bibliografici

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Spolsky, B. – The Cambridge Handbook of Language Policy, Cambridge University Press, Cambridge 2012.

 

[1] Si veda su questo tema Dubois, V. Le rôle des linguistes dans les politiques de la langue française (1960-1990): élements pour une analyse socio-politique. Dossiers d’HEL, SHESL, 2014, Linguistiques d’intervention. Des usages socio-politiques des savoirs sur le langage et les langues, pp.6. <http://dossierhel.hypotheses.org/>.<halshs-01115127>

 

[2] https://www.crui.it/home-ri/item/2511-corsi-in-lingua-inglese-master-universitari-dottorati-e-winter-summer-school.html