Scuole autonome e strategie nazionali delle competenze

La metereologia delle riforme scolastiche

Le riforme scolastiche sono come i fenomeni meteorologici: previste e annunciate,
scrutate all’orizzonte e descritte in transito,
perse di vista nel loro svanire verso est. L’immagine suggestiva cattura la successione, senza fine, di proposte sull’istruzione. È, tutta
via, distante dalla realtà della scuola che, sotto climi mutevoli e turbolenze impreviste, permane nel tempo. L’immagine, inoltre, non interpreta la vita delle classi in cui, senza un’ora di prove, sono in scena a giocarsi il futuro oltre 7 milioni di cittadini di domani.

Spingere lo sguardo a fondo, oltre le impressioni, dentro il mondo dell’istruzione è un’impresa ardua. Ci vuole coraggio. Negli Usa, Diane Ravitch (The Death and Life of the Great American School System. How Testing and Choice are Undermining Education, 2010) ha ripercorso criticamente anni di impegno accademico e di consulenza politica, smitizzando il movimento degli standard e aggrappandosi, in conclusione, all’idea inossidabile della scuola pubblica di tutti. Proprio mentre Linda Darling-Hammond (The Flat World and Education. How America’s Commitment to Equity will Determine our Future, 2010), figura di rilievo nella ricerca educativa, ha riscritto sul tema dell’equità il futuro per la scuola dell’amministrazione del presidente Obama.

La rotta mancante

Di scuola parliamo tutti, se non altro perché qualche anno in classe ci siamo stati. La storia recente della scuola italiana è affollata di fallimenti e di sporadiche buone notizie. Stime attendibili fissano a oltre il 30% la quota di studenti che concludono il primo ciclo senza la preparazione attesa (Invalsi, Esame di Stato 1 Ciclo 2009-2010, 2010), mentre secondo i risultati Pisa 2009 ben il 31% dei quindicenni delle scuole del Sud non raggiunge il secondo livello (su sei) in matematica. Negli ultimi quindici anni tentativi di mutamento robusti e promettenti si sono arenati, ben lontani dai traguardi previsti. D’altra parte, tuttavia, la rivisitazione appena decollata della formazione liceale e dell’istruzione tecnica e l’ingresso sistematico della valutazione standard segnano un importante giro di boa. La presenza, inoltre, in alcune aree del Paese di scuole con buone performance e i segnali di miglioramento recentemente registrati in altre confermano potenzialità reali e ambizioni sostenibili, pur in uno scenario a prima vista del tutto deludente.

In un paesaggio a così forti contrasti riesce difficile ritrovare la linea di rotta della navigazione in mare aperto negli ultimi decenni. In un momento in cui policy-makers, amministratori, dirigenti scolastici, insegnanti e, soprattutto, studenti sono globally challenged, mancano narrazioni chiare sulle intenzioni di viaggio. Peraltro sia il catastrofismo senza riscontro sia l’ottimismo di maniera denotano una conoscenza, approssimativa e lacunosa, delle nostre scuole.

Nonostante il grande vociare del dibattito, zone d’ombra hanno per molto tempo prolungato l’oscurità su nodi cruciali. C’è voluto quasi un decennio di test Pisa (2003, 2006, 2009) per una lettura indipendente dei livelli di apprendimento dei nostri studenti; così solo in tempi relativamente recenti, con il Quaderno bianco sulla scuola del 2007 (Oecd, Pisa 2009 Results, Vol. 1, p. 133), si è iniziato a far chiarezza sulle risorse impegnate e sul loro rapporto con gli esiti scolastici. Le scuole del Nord, buone ed eccellenti, alleviano le preoccupazioni per valori nazionali sotto quelli medi nelle comparazioni internazionali; tuttavia la disomogeneità territoriale, variamente descritta, rimane da comprendere nei processi che l’hanno generata e nelle direzioni di lavoro per superarla.

La geopolitica dell’educazione in transizione

Per riscoprire il senso della gestione strategica avviene così che, escludendo i Paesi del Nord Europa, dobbiamo uscire dalla tradizione occidentale e rivolgere lo sguardo a quelle asian tigers salite all’attenzione internazionale per i risultati elevati e persistenti nel testing internazionale (cinque dei primi sette Paesi per risultati in matematica sono Paesi asiatici). Nelle mappe ridisegnate dalla transizione geopolitica in corso, il nostro Paese, moderatamente innovatore a livello generale, non rientra tra i sustained improvers, Paesi in grado di realizzare, in un ciclo medio-lungo, miglioramenti costanti nei risultati scolastici.

L’azione pubblica nell’istruzione: un’angolazione da coltivare

L’analisi delle politiche pubbliche

L’area dell’istruzione si presta a una pluralità di analisi. La storia illustra le stagioni del passato, mentre la riflessione pedagogica alimenta le menti di chi ragiona degli universali dell’educazione. Le scienze amministrative sezionano l’azione delle burocrazie scolastiche mentre quelle del diritto costruiscono, interpretano e fanno evolvere il corpus delle regolazioni. Le scienze dell’organizzazione alternativamente tracciano profili idealtipici di management o illustrano i legami deboli che caratterizzano le istituzioni scolastiche, lasciando all’analisi so- ciologica l’esame dei processi che legano la scuola alle società.

Rispetto a questi approcci (per una visione della ricerca negli Usa si veda D.K. Cohen, S.H. Fuhrman e F. Mosher, The State of Education Policy Research, 2007) l’analisi delle azioni pubbliche ha introdotto lo scrutinio dei processi di formazione dell’agenda e di costruzione delle decisioni, ha illustrato i labirinti delle dinamiche di implementazione, ha sviluppato schemi per ricostruire l’interazione tra gli attori e i meccanismi di composizione degli interessi e, soprattutto negli anni più recenti, ha affrontato il rapporto tra decisioni politiche e prassi di scuola. In quest’ottica, diventata tradizione di ricerca in vari Paesi (nel Regno Unito il «Journal of Education Policy» ha un’anzianità di oltre dieci anni), il corpus di conoscenze, di teorie e di strumenti di indagine esprime ormai un sapere importante.

È diventato così più facile leggere e capire le azioni collettive che danno la fisionomia alle esperienze scolastiche evitando diffuse distorsioni. La maggiore conoscenza dei processi ha probabilmente migliorato la capacità strategica degli attori, mentre l’utilizzazione di solide basi conoscitive ha sostenuto l’adozione di decisioni efficaci permettendo l’elaborazione di visioni sull’istruzione senza cadere nell’inutile, pur accattivante, retorica.

Per quanto impegnative, ci sono ormai letture affidabili, ufficiali e non, dello stato di salute delle nostre scuole. Le condizioni strutturali, l’andamento degli indicatori di base e le variabili di contesto sono oggetto corrente di rapporti analitici di varia estrazione. Senza un’ottica diacronica e dinamica che consideri le strategie dei soggetti, tuttavia, anche le fotografie, statiche e descrittive, corrono il rischio di risultare inadeguate. Per questa ragione molti interrogativi sono ancora senza risposta.

Già agli inizi degli anni Novanta il Ragioniere generale dello Stato affermava che «finora la politica scolastica è stata prevalentemente (con l’eccezione dell’istituzione della scuola media unificata) una politica di spesa per l’occupazione nell’insegnamento, che va ora ricondotta alle compatibilità generali e alle esigenze della società» (Andrea Monorchio, La riqualificazione della spesa pubblica e il controllo delle sue principali componenti: sanità, pensioni, enti locali, istruzione, 1992). Com’è stato possibile dare peso centrale nelle politiche scola- stiche alla gestione degli organici e mantenere nel tempo modelli operativi inadeguati per una efficace strategia delle risorse professionali per le scuole? La risposta è nella ricostruzione, a oggi incompiuta, di quell’iron triangle, costituito da alta burocrazia, organizzazioni sindacali e vertici politici, che ha retto le decisioni sul personale per decenni sullo sfondo di un ruolo sociale attribuito al pubblico impiego.

Un recente rapporto dell’Unicef Innocenti Research Centre di Firenze (The Children Left Behind, 2010), sul benessere di bambini in vari Stati, per l’indicatore education wellbeing colloca il nostro Paese al 21° posto su 24 esaminati. Qual è oggi il bilancio delle scelte lungimiranti, in termini di inclusione e di equità, compiute in passato a fronte di valutazioni così fortemente critiche? Il contrasto tra la buona scuola dell’infanzia e le criticità dei servizi per la fascia 0-3 anni va ricercato nella scomposizione delle competenze, nelle culture professionali di settore e nella diversa sensibilità territoriale.

Le istruttorie carenti

Nei toni accesi del dibattito politico e delle contrapposizioni diventa anche difficile rintracciare le capacità di miglioramento (nel- l’attivismo delle burocrazia? nella progettualità politica? nelle amministrazioni territoriali? nelle potenzialità delle scuole autonome? nei gruppi di protesta?) o discriminare chi siano oggi i difensori dello status quo (gestione centralistica degli organici, espansione delle variabili, dai docenti al tempo scuola, alle discipline, resistenze ed esercizio del potere di veto…) e gli agenti di cambiamento (cultura del merito, obbligo dei risultati, valutazione standard dei livelli di apprendimento, sussidiarietà…).

Senza la considerazione delle dinamiche di policy le diagnosi possono essere approssimative e parziali. L’inazione, ad esempio, di fronte a derive conosciute, quale il contrasto tra le scuole del Nord e le scuole del Sud, o la tolleranza di disfunzionalità documentate, quali la non attendibilità delle votazioni scolastiche in intere aree del Paese, affondano le radici nella carente istruttoria sui processi sottostanti.

La ricerca: una responsabilità culturale

L’analisi dell’azione pubblica apre nuovi orizzonti: le intenzionalità politiche, le culture professionali di settore, i gruppi di pressione, le posizioni delle associazioni professionali, le strategie di medio e lungo periodo delle organizzazioni sindacali, il peso dei maitres à penser, il contrasto politico di posizioni, l’allarme dei mass media come il peso dell’alta burocrazia diventano le variabili da considerare. L’apporto e i condizionamenti delle macchine consultive (dal Consiglio di Stato al Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione), le irruzioni della magistratura amministrativa e le procedure dei lavori parla- mentari sono parte dei processi di costruzione delle decisioni.

La mancata presa in considerazione delle azioni pubbliche nella loro articolazione sposta l’attenzione sulle decisioni politiche nazionali privando di interesse la pratica nelle scuole e nelle classi. Ne deriva spesso una considerazione fondamentalmente legalistica del cambiamento per cui la produzione legislativa e la definizione delle regolazioni applicative diventano il momento cruciale con scarsa attenzione alle dinamiche di implementazione. In questa prospettiva si perde di vista che il destino della maggior parte delle riforme scolastiche si gioca nelle classi, là dove l’intenzione generale può tradursi in pratica. Si dimentica che nella scuola non esistono innovazioni a prova di insegnante. Cresce così la frattura tra chi costruisce scelte, definisce norme e va- ra stanziamenti a livello nazionale e chi si occupa nelle scuole di insegnamento, chi dirige le istituzioni, chi opera nei servizi tecnico-professionali collegati. Questa separazione mina alla radice le intenzioni in- novative, impoverisce i progetti di cambiamento e si riflette nell’isola- mento degli insegnanti. Nella ricerca Talis il 55% (valore Oecd, 13%) degli insegnanti italiani di scuola media dichiara di non aver avuto alcun feedback al proprio insegnamento negli ultimi cinque anni (Oecd, Creative Effective Teaching and Learning Environments, 2009).

Senza uno sguardo profondo e a largo raggio il fascino, e l’urgenza, della strumentalità, delle architetture istituzionali e delle ingegnerie organizzative possono ridurre l’interesse per la missione propria della scuola, inavvertitamente diventata una panacea per molti problemi sociali. E così ci si accorge del divorzio in atto tra le routine scolastiche e le contemporanee teorie dell’apprendimento, mentre analisi sul campo evidenziano il prevalere di concezioni conser- vative tra gli insegnanti. Non stupisce allora l’interrogativo se le scuole stiano ancora educando (F. Furedi, Wasted. Why Education Isn’t Educating, 2009, trad. it. Fatica sprecata. Perché la scuola oggi non funziona, Vita e Pensiero, Milano 2012).

Senza tener conto delle intenzioni dei molti attori in campo i processi di medio e lungo periodo sono di difficile comprensione. L’autonomia delle scuole è il più grande sforzo di allineamento a tendenze internazionali che sia stato compiuto nel nostro Paese. Il significa- to di dieci anni di lavoro in cui s’intrecciano contraddizioni e potenzialità ancora è da ricostruire. Avviene così che in un regime di autonomia in cui sono gli insegnanti a scegliere la scuola e non la scuola a scegliere le proprie risorse professionali, si aprono varchi di discrezionalità che allentano il centralismo di tradizione senza però che a oggi esistano evidenze empiriche per ricondurre l’esperienza autonomistica al miglioramento dei livelli di apprendimento degli studenti.

Le dimensioni delle classi, il rapporto studenti/docenti, la retribuzione degli insegnanti, il tempo scuola sono variabili del disallineamento esistente tra la scuola italiana e quelle di altri Paesi; non sono, tuttavia, semplici indicatori comparativi, bensì il risultato di impostazioni, di scelte di priorità, di orientamenti condivisi, di resistenze al cambiamento.

A contrastare le approssimazioni, per affrontare le difficoltà di lettura di policy cycle e a ricostruire il peso e la salienza di indicatori correntemente riportati nei rapporti, la ricerca sulle politiche educative può fornire un aiuto di rilievo. Analizzare l’arena e gli attori in campo, esaminare la formazione dell’agenda, ricostruire gli interessi e le intenzionalità delle policy communities, ripercorrere i processi di implementazione, sottoporre a scrutinio il rapporto tra le decisioni politiche e le pratiche a scuola e nelle classi sono i compiti della ricerca in questa ottica. Una cultura rinnovata, costruita su percorsi rigorosi e arricchita dal confronto con la ricerca già consolidata, potrebbe accrescere la comprensione dei processi e, nel medio periodo, elevare la conoscenza e la padronanza strategica degli attori in campo, dagli amministratori ai policy-makers, dai dirigenti ai docenti (si veda il volume recentemente pubblicato da Vita e Pensiero, a cura di R. Viganò e C. Lisimberti, Politiche pubbliche e formazione. Processi decisionali e strategie, 2011)

Emerge oggi la domanda di senso della scuola. La non conoscenza dei processi dell’azione pubblica nei termini abbozzati potrebbe spegnere la speranza di miglioramento. Sviluppare la ricerca sulle politiche educative colma una lacuna nelle culture dell’istruzione e può essere un servizio non secondario per quegli strategic leaders che avranno in mano le redini delle nostre scuole e, pertanto, di una parte cruciale del futuro del nostro Paese.