L’inizio della mia collaborazione con la Fondazione Giulio Pastore, come spesso accade nella vita, fu del tutto informale e quasi casuale. L’incipit nel 1974, comunque, è stato decisamente impegnativo seppur in un’atmosfera di grande rispetto, di reciproca cordialità e di grande, forse immeritata, fiducia: è stato per me come entrare in un mondo diverso, sconosciuto, in una fase, dopo una licenza in scienze sociali, di costruzione delle mie capacità di lavoro, di riflessione e di pensiero autonomo. A pensarci ora è stato un onore l’ingresso in un cenacolo speciale.

Il professor Mario Romani, allora pro-rettore dell’Università Cattolica e presidente della Fondazione, e il professor Vincenzo Saba mi proposero di occuparmi di un tema allora estraneo alle grandi questioni che occupavano il dibattito sull’educazione e sulla formazione. Il rapporto tra università ed educazione permanente era un tema insolito, sfuggente, anche se non del tutto estraneo nel panorama internazionale. Molto si incominciava a scrivere sulla permanenza dell’apprendere lungo tutto il corso della vita, un po’ meno scontato era allora pensare che l’università potesse avere responsabilità anche per i non studenti nel senso tradizionale. Solo con il tempo il terzo pilastro, accanto alla ricerca e alla didattica, della missione dell’università si è affermato compiutamente.

Fu l’inizio di una serie di temi di riflessione e di ricerca su cui sono stato coinvolto, sotto l’attenta e garbata vigilanza del Professor Vincenzo Saba, nel contesto delle collaborazioni che la Fondazione andava realizzando con istituzioni e agenzie italiane ed europee: dalle innovazioni nella formazione continua all’organizzazione del lavoro a turni nell’industria chimica, dalla ricognizione sulle ricerche in corso sulle condizioni di vita e di lavoro all’esame delle dinamiche socio-economiche delle aree interne del Mezzogiorno d’Italia, una varietà di questioni che ho potuto esplorare solo con una guida rigorosa, stimolante e aperta, quale quella che mi assicurava il Professor Saba.

Di questo apprendistato alcune lezioni si sono rivelate determinanti per le mie successive stagioni professionali.

Anzitutto ho scoperto la natura del lavoro intellettuale: un percorso di  fatica e di scoperta imparando, dal saper scrivere a chiare lettere all’argomentare in modo convincente, dallo studiare senza disperdere risorse all’annotare ai margini articoli e saggi, dal classificare i temi al cogliere i nuclei centrali; con l’accesso ad una biblioteca ‘meticcia, in cui accanto ai classici trovavano collocazioni le produzioni della documentazione grigia testimonianza del lavorio di istituzioni e attori istituzionali. Un metodo di lavoro puntiglioso, pronto a valorizzare tutto, aperto al confronto con uno sguardo all’Europa e al mondo delle istituzioni e dei soggetti collettivi quali le organizzazioni sindacali.

La priorità alle idee di fondo, alle convinzioni radicate e al pensiero profondo si lega alla passione per la storia avendo davanti la prospettiva di un sapere pratico che si sporca le mani: un sapere con radici nelle vicende vissute, distante da una conoscenza asettica, nell’alveo di stagioni fondative di storia sindacale e lungo il tracciato politico e culturale di una organizzazione degli interessi autonoma e non strumentalmente ideologica come la CISL.

Lavorando poi in un campo adiacente come quello dell’educazione mi è rimasto, come un imprinting duraturo, il lavoro umano, a qualunque livello trovi esplicazione, come categoria di riferimento nell’azione pubblica, la cui valorizzazione è garanzia di crescita personale e il cui rispetto è fattore insostituibile di coesione sociale.

Coerente era anche il fascino discreto della sede, allora in Via della Fontanella Borghese, signorile ma pur storicamente pregevole, silenziosa, quasi appartata ma non distante dai palazzi della decisione politica. Così è stato il mio apprendistato, lungo fino all’anno 2000, presso la Fondazione con il prof. Vincenzo Saba e con un segretario generale il dott. Benedetto Calì da cui ho appreso che i problemi esistono perché non si ha il coraggio di affrontarli a viso aperto.

Questi lasciti compongono il debito di riconoscenza che ho per la Fondazione Giulio Pastore e, in misura particolare, per il Professor Vincenzo Saba. Auguro a tutti coloro che si affacciano oggi sulla scena dell’attività di lavoro, l’opportunità di un’immersione in cenacoli in cui si coltivino cultura e scienza. é sulle spalle dei giganti, e il prof. Saba lo era, che si scorgono gli orizzonti prima di entrare nelle trame faticose della vita professionale.

Immensa è, ancora oggi, la mia gratitudine.

Roma, 25 novembre 2021

Mario Giacomo Dutto, PhD