Un fil rouge

Le parole di John Dewey in esergo (“…education must be conceived as a continuing reconstruction of experiences … the process and the goal of education are one and the same thing”) sono un incipit del tutto coerente con la conclusione iconica con cui Tara Westover chiude Educated, romanzo autobiografico pubblicato nel 2018 (Random House NewYork): “You could call this selfhood many things. Transformation. Metamorphosis. Falsity. Betrayal. I call it education…”.  L’educazione, infatti, è il filo rosso sottostante dell’avvincente memoir che ha scalato le classifiche dei bestseller negli USA [1]rendendolo qualcosa di più di un pur coinvolgente esercizio autobiografico, senza essere, tuttavia, una dissertazione pedagogica.

Il titolo originale Educated è più espressivo di quello scelto per l’edizione italiana (“Educazione”[2]): focalizza immediatamente l’attenzione su una vicenda personale, insolita e intrigante, e riflette la concretezza e la vivezza di un racconto a tratti straziante, talora depressivo, non di rado commovente, sempre comunque teso e controllato oltre che incalzante nel ritmo. Al confronto il termine educazione scelto dall’editore italiano suona come nozione astratta, troppo immateriale per rispecchiare processi reali e troppo a rischio, peraltro, di deriva retorica.

L’intera narrazione di Tara Westover lavora la matassa aggrovigliata di un microcosmo in cui si dipana la vicenda incredibile di una ragazza nata in una famiglia mormone di survivalisti sulle pendici montuose del Buck’s Peak nell’Idaho. Ricostruita in prima persona, la storia si snoda dalle sperdute e isolate vallate nel North-west americano (l’Idaho ha una densità demografica di 8,9 persone per chilometro quadrato con il 41% del territorio coperto da foreste) all’approdo al mondo occidentale mainstream delle università di pregio internazionale, da Cambridge nel Regno Unito ad Harvard nel Massachussetts. Il viaggio si svolge negli anni ’80 e ’90, da una infanzia realmente descolarizzata, vissuta dalla famiglia in attesa della fine del mondo accumulando provviste, senza certificato di nascita, senza mettere piedi fino a 17 anni in una scuola, senza vedere un dottore, al conseguimento, dopo intensi dieci anni, del dottorato di ricerca. Da persona inesistente per lo Stato e per il governo federale la protagonista diventa un’intellettuale riconosciuta e una scrittrice di successo.

Il libro[3] scava sul potere dell’educazione: nei meandri improbabili di una vita familiare fatta di dogmi e di fondamentalismi, di dottrina divina e di brani biblici ma anche di violenza e di soprusi Tara Westover traccia un’inattesa via di uscita, originale, fuori dai modelli propri delle dinamiche interne ai sistemi scolastici. Del tutto estranea alla contrapposizione tra formule tradizionali e soluzioni innovative nell’istruzione. Dalle oltre 300 pagine emerge un racconto etnografico di conquista e di rigenerazione personale nel solco della riscoperta della natura autentica dell’educazione: ricostruirsi facendo leva sulla forza trainante che risiede in sé stessi e nella propria autodeterminazione. Una visione chiaramente alternativa alla riduzione dell’educazione al convenzionale percorso scolastico.

La narrazione

La lettura è indiscutibilmente avvincente. Attrae chi legge lungo i sentieri di un labirinto di vita insolito la cui esplorazione cattura l’attenzione. La dimensione letteraria, motivo di pregio del lavoro di Tara Westover, è in qualche modo rivendicata dall’autrice stessa che si preoccupa fin dall’inizio con una nota preliminare (p.IX) di precisare che non ha scritto un libro sui mormoni, quasi avvertisse il rischio di una distorsione prospettica da parte di lettori sbrigativi o di critici disattenti. Più avanti nel testo precisa, inoltre, di non rientrare nella tradizione come una variante rivisitata dei  personaggi di Horatio Alger (p.250)[4], troppo modesti per reggere il confronto, e di non riconoscere, nella propria vicenda, una versione aggiornata dell’ American dream (p.249), stereotipo diffuso ma storicamente incerto[5].

Facilita la lettura di Educated la scansione in capitoli (40) generalmente con racconti brevi, raccolti in tre parti segnate da eventi cruciali nella biografia dell’autrice. La prima riguarda l’infanzia a partire dai primi ricordi a cui può risalire, la seconda è l’inizio di una nuova vita con l’uscita dalla famiglia e l’ingresso alla Brigham Young University (BYU) nello Utah e la terza inizia con l’aprirsi del cancello di legno del Trinity College di Cambridge (UK).

Ad alleggerire una trama narrativa complessa è il procedere per aneddoti, curati nei particolari e ricostruiti, anche grazie alla collaborazione dei fratelli Tyler, Richard e Tony, con cura certosina che porta l’autrice a richiamare, in nota, la divergenza nel ricordo di circostanze e nella comprensione di alcuni eventi del passato. L’impianto cronologico, comunque, non sminuisce il comune denominatore delle diverse fasi della vita di una bambina prima, di una ragazza dopo, di un’adolescente in seguito, e di un’adolescente donna nella parte finale: disseminate lungo tutto il volume scorrono pagine laceranti attorno all’ambivalenza dei rapporti drammatici con la famiglia d’origine, alle insanabili fratture delle relazioni interne, alle crudeltà subite ad opera di un fratello violento, alla contrapposizione, addirittura ideologica, tra le attese del padre e le scelte della figlia, con ripercussioni che sopravvivono a distanza di migliaia di miglia.

Il richiamo tacito delle radici serpeggia nelle pagine della studentessa di Cambridge e di Harvard; riduce le distanze geografiche e accorcia le miglia della transizione. La famiglia d’origine rimane a portata di mano e quando c’è un dramma in corso, la frettolosa ripartenza per le valli d’origine è d’obbligo, non rinviabile. Un rientro, peraltro, con il tempo sempre più controvento perchè l’autrice deve fare i conti con l’immagine su di lei negativa diffusa dal padre nel clan familiare.

Lo stile narrativo è incisivo, a tratti risulta crudo, quasi un verismo d’altri tempi, soprattutto là dove si raccontano gravi infortuni sul lavoro, incidenti di viaggio o i tempi lunghi per riassorbire ferite profonde; forse talora prolisso nei particolari descrittivi, con ricchezza di termini specifici che rendono efficacemente l’ambiente della discarica in cui lavora la squadra del padre. Le diverse fasi della rottamazione o della costruzione di capannoni sono osservate e descritte da vicino. La familiarità con gli attrezzi in uso e i macchinari disponibili nasce dall’esperienza diretta da cui non sono assenti pericoli e rischi; quasi epici i lavori pesanti e impegnativi, si direbbe da uomo, svolti dalla giovane Tara sotto lo sguardo del padre e dei fratelli. Anche il periodo di ristrettezze economiche della vita universitaria con i lavori precari sono resi in modo asciutto, pregnante, senza retorica di nessun genere. Nelle interazioni con gli studenti o le studentesse del medesimo corso all’università emerge la dialettica della prima immersione divisa tra i termini, quasi didascalici, dell’in-group opposto all’out-group nella socializzazione alla vita del College.

Gli ambienti e i paesaggi sono qualcosa di più dello scenario della vicenda personale di Tara Westover. Le pendici del montagnoso Buck’s Peak (denominato Princess come riferimento e protezione) le alte cime innevate, le cascate (Twin Falls), i vasti laghi e i profondi canyon[6] come  le aule austere e i pinnacoli gotici del Trinity College a Cambridge sono in qualche modo protagonisti nel memoir. Anche gli scorci di Roma (“a city that is both a living organism and a fossil”, p.267) durante un breve soggiorno, sono tratteggiati con una vena di lirismo che da respiro al racconto (“It wasn’t the color of a modern city, of steel, glass and concrete. I t was the colour of sunset” p.267). Osservare da un balcone della città eterna i bagliori di un temporale, scrive Tara Westover, “it was like being on Buck’Peak” (p.268).

Nello sviluppo della narrazione il lessico familiare fa da collante e ritma le interazioni e gli scambi. Gli slogan e le sentenze del padre incombono nell’interazione quotidiana. Il contrasto con i nemici, identificati con la categoria biblica dei gentiles e la stigmatizzazione degli avversari complottisti (gli illuminati) si accompagnano alla visione alternativa dello stato e all’immagine persecutoria del governo. L’impronta apocalittica che penetra nel quotidiano si riflette nel rifiuto della scuola e della medicina ufficiale. Una costruzione culturale, coesa e integrata, che socializza i figli fin dalla tenera età, riesce difficile da scalfire, anche dopo l’avvio del nuovo secolo senza le attese catastrofi. Tre dei sette figli, tuttavia, a compiere scelte alternative all’imprinting familiare.

La transizione personale della protagonista è descritta attraverso i rapporti personali, in famiglia con il padre e con la madre, l’interazione diversificata e autonoma con i fratelli e la sorella, i dialoghi che si intrecciano negli ulteriori interlocutori che Tara trova nelle colleghe studentesse, nei professori all’università e nei giovani di affetto.

C’è qualcosa di genuino, di immediato, non codificato e non formale, che ricorre nel testo. Anche nel parlare candidamente della propria ignoranza, nel narrare in modo articolato i traumi dell’infanzia vissuta. Il dialogo difficile a senso unico con il padre è spesso interrotto e ricco di silenzi. Il confronto tra il gesto di Giuditta nei confronti di Oloferne del quadro del Caravaggio e le pratiche domestiche di soppressione dei polli rispecchia il passaggio verso la cultura. La considerazione dei clienti della madre come fedeli di una religione rende il senso della cultura da erborista che pervade l’ambiente familiare. Passo dopo passo il microcosmo culturale che domina, in varia misura, il clan familiare è preso di petto e smontato. Al di là del dubbio di disordine mentale del padre, l’autrice prende le distanze progressivamente ma senza disprezzo. Il silenzio nasconde un sentimento profondo e divisivo.

Cercare nel memoir insegnamenti è probabilmente un errore, come cadere nella tentazione di voler trarre una morale è sminuirne la salienza. Il racconto non si chiude con un finale salvifico e gli interrogativi rimangono. Non è una fiaba alla Propp con la redenzione finale. Per questo Educated va prima letto con attenzione e con calma.

Il riscatto

L’emancipazione e la risurrezione tramite l’educazione sono temi coltivati. Le riuscite oltre le aspettative e il successo al di là delle previsioni statistiche sono oggetto di studio. La quota di studenti resilienti, ad esempio, è un indicatore corrente di equità nell’educazione mentre il calcolo del valore aggiunto misura l’efficacia delle scuole contro le discriminazioni. Nonostante le dominanti evidenze sul peso dei fattori socio-culturali e del background familiare sui livelli di apprendimento degli studenti, di grande interesse è la variabilità esistente tra sistemi scolastici a vari livelli di equità. L’esame dei fattori di discontinuità rispetto alle regolarità statistiche è al centro dell’attenzione degli esperti. La letteratura che rivisita il determinismo sociale nei destini scolastici è ricca anche con analisi quantitative pertinenti. Jonathan Kozol, fustigatore dell’iniquo sistema americano, ha raccolto in un volume testimonianze di destini capovolti e di inattese vite scolastiche nel South Bronx.[7] Leggendo il  memoir di Tara Westover viene in mente The glass castle di Jannette Walls da cui è stato tratto l’omonimo film nel 2017 [8]. Educated richiama il recente esempio, quasi parallelo si direbbe, di Lea Ypi [9] il cui coming of age è narrato in prima persona seppur in un contesto del tutto diverso pubblicato in un memoir nel 2021. Nelle vicende italiane riecheggia, pur in circostanze storiche non confrontabili, la storia di Gavino Ledda, giovane pastore analfabeta strappato alla scuola dal padre e obbligato a seguire il gregge di pecore, approdato, attraverso successivi esami da privatista alla ricerca accademica[10].

Tradotto in 45 lingue il memoir di Tara Westover non è solo un antidoto alla visione deterministica della formazione delle persone[11]; si rivela originale per due cruciali peculiarità della rinascita.

Pagina dopo pagina, si trovano, anzitutto, le tracce di un lavorio interno di presa di coscienza e di maturazione. Non sono le competenze acquisite o le conoscenze conquistate della systematic education (p.135) a segnare la svolta, bensì la scoperta del sé, la ricostruzione di una personale visione delle cose e del mondo, la desatellizzazione dall’angusto mondo della famiglia, attraversata da tormenti, percorsa da dubbi con l’alternarsi di momenti di sconcerto e di sprazzi di speranza. Passo dopo passo è come l’invenzione di sé, non una diversa educazione, né una diversa scuola. Alla radice conoscere più verità e costruire la propria visione (p.304) sono conquiste fondamentali per convincersi che “life is not fixed, a thing unaltered” (p.286) e per prendere le distanze arrivando “to imagine my life at the university as disconnected from my life on Buck’s Peak” (p.190).

Ripercorso paragrafo dopo paragrafo, l’itinerario rivela la seconda peculiarità che distingue il romanzo di Tara Westover. C’è una traiettoria di apprendimento indipendente che riesce a saldare la graduale crescita personale con le opportunità esistenti o che incontra. Tra i due estremi della descolarizzazione  tout court e dell’eccellenza delle scuole, la protagonista traccia un sentiero ibrido, non convenzionale. Non è una scuola migliore, un sistema più inclusivo o una pedagogia meno selettiva, bensì un itinerario fatto di studio individuale, di traguardi definiti e perseguiti, di test preparati e superati, di istituzioni accoglienti, di possibilità di innesto nei percorsi formali, di ingressi possibili nelle strutture della conoscenza e della ricerca. L’ itinerario intellettuale è fatto di scoperte (“a path of awareness“, p.180), rivela i limiti di partenza nell’assenza di conoscenze correnti (che cos’è l’Olocausto, l’Europa come continente) e porta rapidamente ad una presa diretta con gli eventi di un mondo lontano da quello familiare.

Il lavorio interno di crescita e l’ingresso nei sistemi di opportunità sono due linee convergenti che tracciano la strada parallela imboccata. Il potere dell’educazione è di aprire gli occhi e di cambiare la vita. Si misura sulla tempra individuale capace di generare visione, motivazione e tenacia. Congiuntamente, si costruisce con l’ingresso efficace nei santuari mondiali della conoscenza accademica e della ricerca scientifica. Lo slogan “tutto si può imparare” con cui si evita la scuola, ha, comunque, una dimensione individuale e istituzionale ad un tempo.

Educated non è un libro didascalico con il lieto esito finale; il dramma dura fino al termine e non viene risolto in una catarsi conclusiva. La cerimonia della graduation è intrisa di solitudine, non è la fine della storia. il PhD, traguardo ambito da ogni studente, nella narrazione appare quasi marginale, sembra quasi ininfluente rispetto al travaglio interiore sulla frattura. Emblematicamente il confronto drammatico con la famiglia, con il padre soprattutto, arriva anche tra le mura di Harvard e si conclude con una drammatica rottura.

In questo senso non è un volume sull’homeschooling, ma la narrazione di un equilibrio diverso tra crescita personale e istituzioni formative, capaci nella loro fertile interazione di creare le condizioni per un riscatto il cui senso profondo va riscostruito comprendendo la polarizzazione che attraversa tutto il memoir.

La polarizzazione

Survivalist è un termine recente. Richiama storie di uomini e donne che scelgono di estraniarsi con svariate motivazioni  vivendo altrove e, in questo caso, di pensare al day after l’imminente e attesa catastrofe globale (“the End of Days”). Saldo nelle proprie credenze, per nulla scalfite dal passaggio indenne al nuovo millennio, il padre modula il senso della vita quotidiana sulla base dei propri principi e riferimenti religiosi a cui socializza i figli. Facilita questo mondo le montagne in cui la famiglia si è insediata segregandosi e di cui fanno parte paesaggi cangianti con le stagioni, picchi incombenti e vallate verdi. Un parco all’aperto come habitat per esistenze non urbane, ben descritto, ma con profonde spaccature (” A chasm had appeared and was growing”, p.326).

 Le idee portanti del rifiuto radicale della scuola sono esplicite nelle parole del padre, sprezzanti nei confronti dell’istituzione (“College is extra school for people too dumb to learn the first time around”, p.41), intrise di posizioni ideologiche anti-governative (“Public schools were little more than Government propaganda programs“, p.85) e legittimate dalla credenza religiosa (“Homeschooling was a commandment from the Lord”, p.156). “I do schools every day” (p.77) è la risposta suggerita alla figlia dal padre ad ogni eventuale domanda sull’istruzione, ma è anche la ferma convinzione che si può apprendere lontani dalla scuola.

In questo contesto le attese sono culturalmente definite e codificate (“a woman’s place was in the home, p.125), il valore dell’intelligenza è strumentale (il padre considera il figlio Richard un genio: “he’s five times smarter tham that Einstein was. He can disprove all them socialist theories and godless speculations”, p192) e il significato religioso permea anche le attività economiche (gli impiegati e gli operai dell’azienda erboristica della madre sono, in realtà, dei “followers”, dei fedeli, p.231). Ostetrica che esercita senza diploma formale (“that’s how the feds track you” secondo il padre), la madre erborista vende i propri preparati come “spiritual alternative to Obamacare” (p.321).

Il punto di partenza della reinvenzione è ben identificato dalla protagonista (“I believed… – and part of me will always believe – that my father’s words ought to be my own” p.172). Giorno dopo giorno aumenta la percezione di uno stato di dipendenza in cui la propria vita è narrata da altri. Il che la priva di una propria voce (p.197) per cui, scrive l’autrice, è come dare ad altri il potere su di sè (p.199). Riconsidera la lettura dei libri dei mormoni e dei Founding fathers come catechizzazione più che stimolo per la crescita intellettuale (“I read them to learn what to think, not how to think for myself”p.239). Avverte che il dialogo in famiglia spesso non va oltre il monologo ricordando: “Dad had always been a hard man…We listened to him, never the other way around: when he was not speaking, he required silence” (p.223).

La presa di coscienza, indipendente e spiazzante, avanza lentamente, si fa strada anno dopo anno (p.180), matura attraverso eventi critici in famiglia fino alla piena consapevolezza da cui scaturisce la decisione di svolta (“For nineteen years I’d lived the way my father wanted. Now I would try something else” p.212). E ha origine la strategia per sottrarsi al gioco: entra in campo l’educazione.

Non senza problemi, di ogni genere. Quando vince una borsa Gates, un evento con solo due precedenti nella storia della BYU, Tara Westover, intervistata, deve trovare il modo di scansare le domande indiscrete: “I was asked about my high school experience, and which of my grade school teachers has prepared me for my success, I dodged, I partied, I lied where I had to. I didn’t tell a single reporter that I’d never gone to school” (p.249).

Gli studi accademici si ancorano alle riflessioni personali. Il concetto di libertà positiva e negativa di Isaiah Berlin studiato a Cambridge illuminano la scena della propria traiettoria: ostacoli esterni ed interni che impediscono alcune scelte e azioni. Maturare l’idea di essere in grado di realizzare quello che si desidera fare è un momento decisivo nella crescita. Ad Harvard leggendo vari autori, da Hume a Mill, confessa l’autrice: I became obsessed with their ideas about family – with how a person ought to weight their special obligations to kin against their obligation to society as a whole” (p.297). Anche la tesi di dottorato (pp.317/18) diventa non solo una vicenda accademica, si salda con l’esperienza familiare vissuta. Rivede, infatti, il mormonismo, rifiutando lo schema storico della preparazione all’avvento di Joseph Smithsenza ignorare il contributo alle questioni del tempo (p.318)[12]. Scopre così, il lavoro, profondamente umano, dello storico che non è un profeta con una acritica visione del passato o del futuro.

La lacerazione tra i due mondi dura nel tempo, non si salda facilmente e sentimenti ambivalenti perdurano. Pensando agli esiti del grave incidente subito dal padre scrive: “I’d been afraid of how I would feel, afraid that if he died, I might be glad” (p.130). Alla disconnessione (p.190) corrisponde una ritrovata fiducia in un “myself invincible” (p.191). Gli interrogativi sulle fedeltà antagoniste, tuttavia, affiorano ancora alla fine del memoir (“What is a person to do, I asked, when their obbligation to their family conflitct with other obbligations – to friends, to society, to themselves?”, p.317).

La lacerazione che la separazione con l’accesso all’educazione induce, frattura la stessa famiglia con destini diversi, e opposti, per ciascuno dei sette figli. Il raggiungimento del dottorato di ricerca da parte di Tyler, Richard e Tara, un traguardo rimarchevole in qualunque famiglia, potrebbe riflettere quella coerenza con le proprie idee e la determinazione nel perseguimento degli obiettivi ad esse collegati testimoniate da genitori, assertivi, attivi e imprenditivi, lungo tutto il periodo della loro infanzia e adolescenza.  Dall’insegnamento dei genitori deriva, inoltre, la convinzione che tutto si possa imparare da sé, come dimostra l’autrice del memoir.[13]

La storia di Tara Westover esce dai canoni convenzionali dell’emancipazione tramite la scuola o una cultura progressista. Educated non è un libro politico anche se gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza attraversano divisioni di fondo, sullo scenario della società americana, tra il mondo rurale ai margini e il contesto urbano delle metropoli, tra i ranghi di popolazione di istruzione elevata e le fasce appena scolarizzate, tra i red states conservatori e repubblicani e i blue states progressisti e democratici. I solchi sono più profondi di quanto possa apparire. Di fronte ad un poster di Martin Luther King, protagonista del movimento dei diritti civili, nella stanza della figlia il padre non esita a chiederLe: “Don’t you know he had ties to communism?” (p.248). La storia di Tara Westover attrbversa nelle sue fasi successive tali divisioni e, per questo, il libro è quanto mai attuale nel mondo contemporaneo. Ma quali sono i fattori di collegamento, se non di superamento delle numerose faglie che attraversano il memoir?

Faglie e connessioni

L’origine della discontinuità ha una radice, molto chiara, nella maturazione della coscienza della ultimogenita dei sette figli della famiglia Westover. L’itinerario, tuttavia, è faticoso; non è indotto dall’esterno, non è motivato da istituzioni educative, non segue modelli di riferimento. Si direbbe che Tara si reinventa: essere sé stessa affiora come una esigenza che matura in un contesto del tutto improbabile.

La montagna limita l’orizzonte, ma, inaspettatamente, ha qualcosa di potente. Riconosce l’autrice there is a sense of sovereignity that comes from life on a mountain, a perception of privacy and isolation, even of dominion” (p.27). Diventare adulti è un processo di sedimentazione di “grains of sand, incalculable, pressing into sediment, then rock” (p.40). Tutto trasuda di un’impronta morale; anche il duro lavoro del padre nella discarica e nella rottamazione sporca le mani, ma genera un “honest dirt” (p.49). La libertà affermata è illusoria (“mother had always said we could go to school if we wanted. We just had to ask Dad. Then we could go” (p.61). La percezione di non rispondere alle aspettative fatica ad abbandonare la protagonista (“I was not the daughter he had raised, the daughter of faith” p.66).

Sottotraccia ci sono insegnamenti importanti e maturazioni cruciali: “All my life those instincts had been instructing me in this single doctrine – that the odds are better if rely only on yourself (p.102). Abituata a parlare solo all’interno del microcosmo familiare trova difficoltà al dialogo nel mondo altro (“I’d never learned how to talk to people who weren’t like us – people who went to school and visited doctor. Who weren’t preparing for the End of the World” , p. 85).

Ci sono vie d’uscita come quella imboccata dal fratello Tyler: un esempio in casa che dimostra che altra strada è possibile. Si può essere autodidatti: anche la difficile trigonometria non è fuori portata. Occasioni di prossimità non mancano per sperimentare i propri talenti come la musica e il canto e rompere, così, l’accerchiamento.  L’inizio avviene per aree di contorno, la danza, esclusa poi per ragioni di stereotipi, e il canto, una via di ingresso nella comunità locale oltre la famiglia e non del tutto osteggiato dal padre. Soprattutto ci sono istituzioni aperte a livello di College: “BYU takes homeschoolers” (p.121) le riferisce il fratello. Occorre supera l’American College Test (ACT).

Senza giorni di scuola alle spalle prima dei 17 anni l’ambiente universitario si staglia come un mondo a sè stante, non familiare e non amichevole. “Now that I’d seen the other students-watched them march into the classroom in neat rows, claim their seats and calmy fill in their answers, as if they were performing a practiced routine – it seemed absurd that I had thought I could score un the top fiteen percent“(p.135). Con i corsi universitari cambia l’orizzonte culturale di riferimento. Al corso di American History non ritrova, come attendeva, riferimenti ai Founding Fathers, da Washington a Jefferson, secondo gli insegnamenti del padre, ma incontra Cicerone e Hume (“names I’d never heard”, p.156).

Seppur di sfuggita si colgono alcuni tratti del modo di insegnare, diretti, dialogici con docenti esperti che ricordano confronti con quanto succede nelle nostre classi[14]; l’acceso diretto alle opere d’arte, la lettura dei testi di autori rilevanti facilitare i primi passi per gli studenti. Soprattutto all’inizio il confronto con la propria esperienza è continuo (così la decapitazione di Oloferne da parte di Giuditta e l’esperienza personale dei polli decapitati in casa), può creare incidenti come la richiesta sull’Olocausto. In seguito il confronto tra le credenze mormoniche a livello domestico e la storia del movimento diventa uno stimolo intellettuale per una ricerca da condurre.

Nella transizione la disponibilità di risorse finanziarie assume grande rilievo e motiva l’accettazione di lavori precari; soprattutto il peso della preoccupazione di poter disporre delle risorse sufficienti occupa la mente e, dopo l’ottenimento di una borsa, la sorpresa di non poter restituire le somme superiori al bisogno e la percezione del privilegio di poter pensare solo allo studio.

La valutazione in accesso sulla base degli esiti di test senza peso attribuito ai precedenti riflette un’idea di merito e di possibilità di ripartenza, culturalmente legittime; condizione indispensabili per una ragazza con l’home schooling alle spalle. Conoscendo i caratteri del percorso la strategia di preparazione diventa un impegno personale con scadenze e obiettivi definiti, al di fuori di un contesto educativo formale.

Lo shock è evidente ma anche la sfida è molto elevata (“BYU was a competitive school. I’d need a high score… I was sixteen, had never taken an exam, and had only recently undertaken anything like systematic education”

(p.134-5). Iscriversi al test è “like throwing dice, like the roll was out of my hands” (p.135). La non familiarità con le routine di scuola acccentua il contrasto con gli altri studenti (p.135).

Il conseguimento di un Mphil in intellectual history a Cambridge, la borsa come visiting fellow a Harvard e il PhD conquistato a  Cambridge nel 2014 non sono tanto la consacrazione di una carriera: sono parte di un itinerario, personale, quasi appaiono come esiti scontati.

Quando ti accorgi che c’è qualcosa altro, che la cultura di famiglia ha limiti scopre un mondo senza confini, globale, aperto e accessibile, con opportunità a portata di mano per chi lavora, seppur con l’ossessione per il denaro che manca ma che è la condizione per la libertà. Si assapora il privilegio di pensare allo studio senza la distrazione di preoccupazioni materiali.

Ferite che il tempo non rimargina

Il dramma di base è il rapporto, ambiguo, ambivalente, conflittuale tra l’appartenenza familiare e l’istruzione. Due fedeltà in opposizione che travagliano la vita quotidiana. La composizione è difficile, per non dire drammatica. In un momento di incertezza rispetto alla possibilità di concludere il proprio ciclo di studi, Tara Westover ha una reazione imprevista (“I laughed maniacally for ten minutes at this irony: that having sacrificed my family to my education, I might lose that, also”, p.307). Le radici non si recidono facilmente. Quando mi avvicinai a casa, narra Tara Westover in uno dei suoi ritorni, I breathed in the welcome scent of pine(p.308).

Il tracciato dall’ambito familiare al mondo dell’educazione non ha un andamento continuo nelle biografie individuali. I condizionamenti sociali sui destini scolastici frenano la divaricazione tra generazioni successive, mentre traumi adolescenziali, difficoltà di dialogo tra genitori e figli possono indebolire i vincoli della riproduzione sociale e culturale che l’educazione può arrivare a spezzare.

Nel ciclo dei due decenni del memoir si scava progressivamente un fossato, nelle vicende quotidiane tra le regole, le aspettative, i comportamenti del padre, con l’accondiscendenza della madre, e la maturazione di una ragazza che trova in sé stessa la forza per il riscatto.

Il prezzo da pagare per la crescita autonoma, per la resurrezione è l’incombere di un macigno, difficile da rimuovere, anche a distanza di tempo e di miglia. Ritorna negli incubi notturni come nel labirinto di cui il padre l’ha fatta prigioniera (p.307) e nella ricerca di un rifugio nello stare 18 o 20 ore al giorno davanti alla televisione (p.307). Le due appartenenze appaiono inconciliabili, ma mantengono una trama di sentimenti, di percezioni, di nostalgie che rendono il travaglio se non permanente, certamente presente nel lungo periodo, anche quando i lacci sembrano essere sciolti. Ad un certo punto la protagonista si accorge di aver viaggiato forse troppo, non solo geograficamente, e si interroga se ci sia una via di ritorno.

L’interrogativo sul destino dei rapporti familiari rende la lettura avvincente e coinvolgente. La lacerazione dei legami familiari emerge come una conditio sine qua non per la reinvenzione personale; questo non significa, tuttavia, la loro cancellazione definitiva come si estirpassero le radici di una pianta appassita. Si può imparare la trigonometria su un libro acquistato e l’apprendimento indipendente può aprire varchi inimmaginabili. La pacificazione dei sentimenti reciproci tra i componenti di una famiglia, tuttavia, riesce più difficile del conseguimento di un prestigioso dottorato di ricerca o dell’ingresso in un’università dell’Ivy League. Si spiega, così, l’annual pilgrimage (p.326) al focolare domestico, alla ricerca di poter riallacciare i rapporti, oltre che con il nonno, anche con la madre, rigorosamente ferma nella sua decisione di non accettare un incontro a cui sia assente il marito.

Il memoir è anzitutto la narrazione di come sopravvivere alle ferite che la maturazione personale porta con sé e di come l’educazione si riveli determinante[15]. è comprensibile come siano fuori luogo facili derive interpretative anticipate nei caveat formulati dalla stessa autrice. In una nota di incipit, forse pensando ad una distorsione di lettura, Tara Westover avverte con decisione che non è un libro sui mormoni. Si può aggiungere che non è nemmeno un libro sull’homescholing come alternativa alla comune scolarizzazione. Riesce, altresì, difficile considerare il memoir come un classico della pedagogia progressista nonostante la citazione in apertura di Jonh Dewey.              

Un memoir tra autobiografia e romanzo

Educated, scritto da Tara Westover a 29 anni, è un romanzo autobiografico o un’autobiografia romanzata? La domanda, peraltro, è plausibile per una creazione narrativa? Come in ogni memoir entrano in gioco la nitidezza dei ricordi e la loro rielaborazione nel tempo, accanto alla passione per la scrittura e allo stile compositivo. Senza dimenticare il ruolo della percezione soggettiva degli eventi[16] che altri possono diversamente interpretare. Alla domanda posta probabilmente non c’è risposta certa e chiara. La veridicità dei fatti non impoverisce l’ispirazione letteraria che a sua volta non stravolge la realtà.

Come abbiamo già detto, il racconto di  Westover non può essere ridotto ad un elogio della pedagogia o ad un peana nei confronti dell’educazione. é una cavalcata che rasenta l’impossibile, rende reale l’improbabile, apre al non previsto, vissuto con intensità e ricostruito nei suoi componenti. Un mosaico che si rivela al termine e nell’insieme ma che sfuma nel non-finito. Una storia individuale, solida in sé stessa ma che non prescinde dal contesto che diventa a sua volta protagonista. La vicenda assume, tuttavia, un significato generale, fuori dalle circostanze storiche in cui si realizza, sia per quello che significa per la persona in formazione e sia per come le istituzioni dell’educazione possano modulare le traiettorie personali.

L’approdo del memoir non è un happy end: dopo il naufragio le fratture perdurano, anzi si aggravano, le ferite rimangono aperte e non si rimarginano, anche se, paradossalmente, non impediscono la serenità d’animo (“I don’t know if the separation is permanent, if one day I will find a way back, but it has brought me peace, p.327). Sembra di cogliere qualcosa di nostalgico nelle stagioni vissute dalla protagonista quasi da sopravvissuta. è un’impressione, tuttavia, passeggera: la realtà della vita è diversa, senza confronti con il passato di cui non conosceremo mai a fondo l’impatto, soprattutto con orizzonti che travalicano gli amati pendii del Buck’s Peak e il profilo prominente, dalla primavera in poi, della Princess che non perde di vista la ragazza fuggita (“From across the oceans I’d heard her beckoning, as if I were a troublesome calf who’s wandered from the herd” p.320). 

[1] Nel 2018 Il New York Times ha collocato Educated tra i 10 migliori libri dell’anno e l’American Booksellers Association l’ha definito il Non fiction book of the Year.

[2] Educazione, Feltrinelli Milano 2020, trad.it di Silvia Rota Sperti.

[3] Nel 2018 il libro ha ottenuto il premio Goodreads Choice Awards nella categoria Best Memoir & Autobiography.

[4] Horatio Alber è uno scrittore americano (1832-1899), autore di oltre un centinaio di romanzi con storie sul passaggio da esistenze precarie e di miseria a vite di benessere della classe media (“from rags to riches”). Per questa ragione è considerato come una figura chiave nella storia degli ideali culturali e sociali degli Stati Uniti.

[5] In un recente contributo apparso sul New York Times (“I am not a proof of the American Dream“, 2, 2022) Tara Westover prende posizione netta sul tema sottolineando come nel corso degli anni le condizioni che le hanno consentito di accedere a percorsi universitari di élite sono state progressivamente erose. Scrive: For kids today from poorer backgrounds, the path I took through education no longer exists“. Negli ultimi decenni i costi per il college sono raddoppiati e, ad esempio, la copertura di una borsa quale quella di cui ha goduto prima copriva il 79% dei costi ora raggiunge appena il 29%. Per i “poor kids”, quindi, “the American dream has become a taunt” e, paradossalmente, confessa: “Perhaps my story is proof not of the persistence of the American dream but of its precarity, even its absence”.

[6] L’affinità elettiva con il proprio mondo rurale caratterizza anche la scelta del luogo adatto per scivere il memoir. Racconta Westover: I was struggling to get the feeling of Idaho right, because I wasn’t there. I went on a retreat, a writing retreat, to southern France, which doesn’t really look like Idaho, but it was rural. I was sitting, looking out of the window and there were horses, and there was a field. After that is when I wrote the introduction, the prologue, and after that it was easier. Sitting in the city I couldn’t actually seem to evoke that” (Intervista apparsa su VanityFair a cura di Eric Vanderhoof il 23 febbraio 2918 (Tara Westover Turns Her Isolated Childhood into the Gripping Memoir Educated).

[7] Jonathan Kozol, Ordinary Resurrections. Children in the years of hope, Perennial, New York 2001.

[8] The Glass Castle: A memoir (2006) di Jeannette Walls è uno degli esempi classici di storie di resilienza e di redenzione. Negli anni più recenti si vedano Heartland: A Memoir of Working Hard and Being Broke in the Richest Country on Earth (2018) di Sarah Smarsh, Southern Discomfort (2018) di Tena Clark, Estrange: Leaving Family and Finding Home. A memoir (1917) di Jessica Berger Gross, The Memory Palace di Mira Bartok, The Escape artist. A Memoir (2020), di Helen Fremont

[9] Lea Ypi docente alla London School of Economics pubblica nel 2021 un memoir filosofico sul crescere nell’Albania comunista e sulla transizione al liberalimso occidentale (Free. Coming of Age at the End of History, Allen Lane 2021).

[10] Nel romanzo autobiografico Padre padrone. L’educazione di un pastore (Feltrinelli, 1975) Gavino Ledda ricostruisce la propria vicenda da bambino analfabeta, letteralmente strappato alla scuola, relegato in un podere di famiglia a governare il gregge, che inizia un percorso di emancipazione partendo dalla musica e dalla fisarmonica, supera l’esame di licenza elementare da privatista, entra nel servizio militare, continua studiare e raggiunge la terza media e il diploma di maturità classica che gli apre le porte dell’università.

[11] Sul sito dedicato Tara Westover elenca per i lettori i libri che hanno contribuito alla sua maturazione (ww.tara.westover.com/otherwriting)

[13] In una intervista apparsa su VanityFair a cura di Eric Vanderhoof il 23 febbraio 2918 (Tara Westover Turns Her Isolated Childhood into the Gripping Memoir Educated) Tara Westover risponde alla domanda della giornalista sull’autoapprendimento: “I think it’s a belief that you can learn something. That’s something that I really value from the upbringing I got. My parents would say to me all the time: you can teach yourself anything better than someone else can teach it to you. Which I really think is true. I hate the the word “disempower,” because it seems kind of cliché, but I do think that we take people’s ability to self-teach away by creating this idea that someone else has to do this for you, that you have to take a course, you have to do it in some formal way. Any curriculum that you design for yourself is going to be better, even if it’s not the absolute perfect one”.

[14] In una ricerca comparativa di qualche anno fa Marianella Sclavi ha colto un la differenza tra lo stile italiano rispetto all’approccio statunitense riassumendolo in questi termini:”…In USA si leggono i i classici, ma non si sa in che secolo sono vissuti, in Italia non si leggono ma si sa che cosa ne hanno detto alcuni posteri autorevoli” (A una spanna da terra, Feltrinelli, Milano 1994 p.250). L’osservazione applicata anche all’insegnamento della storia dell’arte rende ragione dello spazio dato alla lettura e interpretazione dei capolavori di pittori e scultori.

[15] Leggendo il memoir di Tara Westover ritornano alla mente le analisi delle inconcludenze dei percorsi scolastici formali. Howard Gardner ha dedicato un libro a sostenere che “even when school appears to be successful, even when it elicits the performance for which it has apparently been designed, it tipically fails to achieve its most important missions” (The Unschooled mind. How Children Think & How Schools should Teach, Basic Books, New York 1991, p.3).

[16] Educating: A Memoir, Buttlerfly Expressions, Clifton2020 è il memoir scritto da LaRee Westover, la madre di Tara Westover con l’intento di fornire il suo racconto di quanto è veramente avvenuto nella propria famiglia.