Sappiamo ogni cosa del lavoro degli avvocati e dei medici grazie a romanzi e serie televisive. Nulla della scuola” (p.127). Contribuiscono a colmare questo vuoto le pagine, leggere e rapide, dell’ultimo volume di Mariapia Veladiano, “donna di scuola” (p.7) e scrittrice, Oggi c’è scuola Un pensiero per tornare, ricostruire, cambiare, edito da Solferino (Milano 2021). Pagine insolite e accattivanti allo stesso tempo. Uno spaccato non comune sul presente della scuola che riapre dopo le chiusure altalenanti del periodo pandemico. Diciassette brevi capitoli di un viaggio per l’inizio di anno scolastico 2021-2022 con una prosa agile, incalzante a tratti, essenziale nelle posizioni, precisa nei riferimenti autorevoli, determinata nei giudizi talvolta spiazzanti. Alternativo ai rimpianti diffusi per il tempo perso, ai coltivati ricordi nostalgici di prima e alla pretesa di voltar pagina per dimenticare, il viaggio distende una lunga riflessione, interna al pianeta scuola ma con un orizzonte di senso aperto a questioni che vanno ben oltre il perimetro delle classi. Una narrazione non retorica perché approfondita nelle analisi, non ideologica perché concreta nei suggerimenti e nelle richieste, non scontata perché non priva di ragionate stroncature. In conclusione un cahier de doléances a favore della non riforma, cioè di un’azione fatta di cose apparentemente banali ma determinanti.

 

2021-2022: un anno scolastico speciale

 

L’attesa è palpabile: genitori, studenti, docenti si ritrovano senz’altro diversi, talvolta più poveri per il lavoro perso, non di rado più soli per parenti e amici travolti dal virus, in ogni caso variamente scossi dopo un “tempo ferito”. Ma non c’è in verità, scrive Veladiano, un “tempo perduto”: i traumi fanno parte della vita, possono distruggerla ma anche aiutarla a rinascere. Le ferite appartengono alla condizione umana. Per gli studenti le settimane di confinamento sono state un “tempo accelerato” per diventare adulti, consapevoli della fragilità del mondo in cui vivono. Per questo sono fuori luogo, senza dubbio, i sentimentalismi o modi paternalistici di trattare gli studenti al rientro; così come la medicalizzazione delle conseguenze rasenta l’irresponsabilità. Un’esperienza da vivere da adulti, attraversando le sofferenze e le incertezze del vivere umano. Per aspera ad astra si potrebbe dire di una formazione che si radica nei labirinti della vita.

Il senso di questo anno speciale viene tratteggiato da Veladiano con puntuali riferimenti a ricerche, sondaggi e documenti, ma soprattutto è centrato sulla necessità di un pensiero nuovo sulla scuola.

 

L’impresa collettiva

 

Il Covid ha “squadernato” abitudini e modi di essere. Una scuola già indebolita, con classi numerose e edilizia in sofferenza, si rivela impreparata, come per altro è avvenuto in tutto il mondo; ma oltre un milione di studenti persi, l’effetto della povertà culturale, sociale ed economica, minano l’idea stessa di una scuola che diventa così moltiplicatore di disuguaglianze. Nel nuovo lessico improprio, la Dad si rivela “un’espressione sbagliata” perché è stata “un’esperienza anche piena di positività”, nel contesto di una “una bella impresa collettiva”.

Alla distanza richiamata dalla dad si sono opposteforme diverse di prossimità (p.26), che hanno aumentato la reciproca conoscenza tra genitori e docenti, illuminando le differenze e le lacune da riparare con esperienze non solo negative: le resurrezioni impreviste di alcuni studenti dicono chiaramente che la didattica di ieri va arricchita.

I giorni del periodo critico hanno disegnato un’altra scuola, con le maestre della primaria in appuntamenti online  con i genitori (p.32-33), con un gran numero di tablet e computer distribuiti, con presidi e segreterie impegnati in un lavoro straordinario, mentre si è messo in opera “il più importante, spontaneo, collettivo corso di aggiornamento della scuola italiana” (p.33). Lo sforzo di molti per tener viva “una forma praticabile di scuola” (p.33) ha ricadute estese.

 

Si risvegliano i fondamentali

 

Se l’equità, “la misura della buona scuola pubblica e democratica” (p.46), è il criterio di riferimento la scrittrice vicentina ci ricorda che “la chiusura delle scuole ha … moltiplicato le disuguaglianze” (p.29): “una bufera per i ragazzi e le ragazze con disagio economico e sociale”, “devastante per gli studenti con disabilità” (p.43) mentre continua a preoccupare l’esplosione della disuguaglianza di genere (p.53). Il programma PISA, menziona la Veladiano, ormai ritualmente, ad ogni edizione, stigmatizza i fattori socio-economici e culturali come determinanti della riuscita scolastica (p.29).

C’è quasi il profilo di una scuola nuova. L’autonomia “già ora dà spazi di creatività e differenziazione grandi e necessari” (p.45), il ritorno nelle aule riattiva l’“effetto di contesto” (p.51). Il lavoro nelle scuole può trovare realizzazioni significative anche spiazzanti rispetto a posizioni politiche dominanti, come documenta un’esperienza sugli stereotipi del genere in Trentino (p.57). Pur “dentro un sistema iperburocratico e autocentrato” a cui l’ex preside non lesina i richiami, “gli spazi di libertà sono comunque grandi” (p.80). Il paesaggio della scuola, frequentemente vituperato, si presenta affollato di “insegnanti e scuole e collegi docenti straordinari” capaci di fare “la differenza per gli studenti”, sostenuti da “presidi intelligenti” che lavorano ad alleggerire gli adempimenti (p. 81). Le condizioni  ci sono per “riprendersi la parola”, per “educare ad un pensiero nuovo” (p.81) e per “avere un fine nuovo e finalmente più etico” (p.35) riscoprendo della scuola la grande bellezza che non si esaurisce nel profilo architettonico.

 

 

Il “buono che ci teniamo stretto

 

Negli anni difficili si è costruito un patrimonio immateriale: il 14% dei docenti ha adottato un approccio laboratoriale e, oltre ai libri di testo, la pluralità dei materiali, anche auto-prodotti, ha preso il sopravvento. L’insegnamento on line per la maggior parte dei docenti è stato una prima volta (p.32), ma quattro docenti su cinque hanno seguito corsi di formazione sulla didattica digitale; nelle scuole si sono scatenate dinamiche di collaborazione aperta, insolite in passato e si è creato un movimento informale di operatività con i genitori. La riorganizzazione degli spazi e dei movimenti di ingresso e di uscita ha inciso sulla gestione. Quello che può, e deve, restare di questa esperienza è molto ed è importante. La parola può alimentare una narrazione per generare consapevolezza e alimentare la memoria coltivando in questo modo la crescita personale degli studenti.

Scrive Veladiano “i momenti di crisi sono quelli più adatti per rinnovarsi”: ecco il nuovo compito di realtà da affrontare con la ripartenza. Riconoscendo i grandi spazi di libertà che comunque esistono l’autrice prende atto che è venuta meno anche l’ansia da valutazione e che si stanno superando modelli ansiogeni prestando attenzione ai punti di partenza. é l’occasione per una riflessione critica sulla valutazione tradizionale diventata impossibile reimpostando le rilevazioni sulle scuole e superando l’utilizzo parziale dei dati Invalsi. “I continui cambiamenti introdotti dalle ossessive riforme che quasi ogni anno hanno travolto la scuola” (p.87) hanno portato a scelte fallaci come la reintroduzione del voto di condotta. Veladiano si schiera “contro una lettura classificatoria e competitiva delle scuole” (p. 87) che accompagna i rapporti Invalsi che rimangono così materiali “fra addetti ai lavori” (p.87). Per la Veladiano, che la scuola ha amministrato, anche per l’annosa questione degli organici c’è qualcosa di buono da conservare (p.68). L’organico Covid, assegnato sulla base delle necessità di ogni istituto e non per collocare docenti troppo a lungo in graduatoria, come avvenne con l’organico di potenziamento, ha visto docenti giovani al lavoro a fianco di colleghi esperti, una formula da tradurre in pratica ordinaria anche come tirocinio per la formazione iniziale di chi ha scelto di insegnare.

 

Le connessioni

 

Come un cigno nero la pandemia ha costretto a rivedere le diverse facce dell’insegnare e della scuola, svelandoci le scelte politiche e amministrative osservate da parte di chi è all’ultimo miglio della scuola. C’è un fil rouge che unisce le diverse indicazioni per “tornare, ricostruire e cambiare”, presenti nel saggio: si va dall’apprendimento cooperativo alla sottolineatura del non essere soli, dalla condanna dell’egoismo all’affermazione delle reti, dalla solidarietà ai valori di scuola. Non solo pari opportunità, ma anche, citando il rapporto Invalsi, la vera inclusione ossia quella che garantisce buoni risultati di competenza a molti” (p.86). Si allarga il terreno dell’apprendere e si ritracciano i perimetri. La scuola nel bosco è l’inizio simbolico di un’apertura che si salda con il diritto alla città da riconquistare.

La fiducia che lega la società alla sua scuola crea le condizioni per un tempo nuovo da vivere con la consapevolezza di che cosa vada cambiato nella proposta di non riforma e con gli elementi del futuro presente nella scuola che “Oggi c’è”.

Gli studenti sono i nuovi protagonisti, le risorse potenziali per il domani e, quindi, al centro della scuola; l’asse intergenerazionale, a cui la scuola deve dare “la consapevolezza della complessità del tempo presente e insieme le conoscenze per fare meglio di noi“ (p.108). I ragazzi e le ragazze sono progetti in fieri (“Ogni ragazzo e ragazza è un universo da creare, pieno di idee e di energie” (p.108).

 

La scuola che “resiste

 

Di pagina in pagina l’orizzonte si mantiene largo. In un “inverno di disattenzione politica” (p. 22) c’è una scuola che “ha saputo restare viva e resiste” (p.7). Una sorta di zoccolo duro che respinge i reiterati attacchi e si oppone, la Veladiano non usa mezzi termini, “alla sciatteria del linguaggio corrente del mondo intorno” (p.7), “all’ideologia del successo quale che sia il prezzo in termini di vergogna” (p.7), “alla svalutazione della cultura” (p.7) e alla “slavina demagogica e burocratica” (p.7). Ad una cultrice dello scrivere, finalista del Premio Strega nel 2011, non sfuggono le scelte linguistiche di una scuola che “adotta un burocratese economicistico sventurato per cui i presidi diventano dirigenti, le difficoltà nei risultati sono debiti, i voti maturano crediti, l’alternanza scuola lavoro si traduce nella sigla PCTO, l’”acronimo infelice” dell’UAT priva di ogni riferimento all’educazione gli uffici amministrativi territoriali (p.137) all’insegna di “un moderno latinorum” che ci fa schiavi di una lettura economica della realtà” (p.9).

Al sistema borbonico e alla burocrazia stratificata associa l’”altalenante demagogia scolastica”’ (p.87), con le incertezze sui voti e sulla valutazione, e l’isolamento delle operazioni, pur valide, per addetti ai lavori dell’Invalsi (p.87). Aspetti che non soffocano, tuttavia, il pensiero.

Le libertà delle scuole e dei presidi sono risorse importanti anche per “vigilare ed alzare insieme la voce” (p.24). Con la scuola vista come “bene comune” (pp.7; 79) i presidi, le scuole medie e superiori esprimono voglia di scuola, di democrazia, di società civile e di partecipazione, evitando le cose che fanno male alla scuola.

 

L’indignazione

 

Lo stile piano, calmo, leggero dell’autrice non impedisce l’affiorare, ad una seconda lettura, di una ricorrente denuncia, mai urlata, mai sopra le righe, ma puntuale e pertinente.

Il principio che la scuola è per gli studenti e non per i laureati o per gli insegnanti è evidentemente fuori discussione, ma decenni di politiche scolastiche si sono mosse in senso contrario, rovesciando il raccordo tra le finalità e i fattori per raggiungerle. Il cuore della scuola non è risolvere il problema della disoccupazione dei laureati.

“Follia” è l’assenza di un obbligo di formazione continua per i docenti. Siamo lontanissimi da rapporti di genere equilibrati (p.53). “Bruttissima espressione” è l’ascensore sociale (p.46) perché, spiega la Veladiano, “non si tratta di salire o scendere, dove salire vuol dire, nel sottotesto del nostro parlare, essere più ricchi e potenti”: ognuno “deve poter diventare quello che desidera” (p.46). La scuola dà “cultura e consapevolezza” (p.46).

Indecente” è “la misura unica per valutare gli studenti” (p.47) come indecente è il mito del legare il successo al denaro, all’apparire, al potere (p.111). Da ex-preside denuncia la discontinuità nelle regolazioni che “ha stritolato le capacità organizzative” (p.44).

Donna di scuola e di cultura non teme di smitizzare l’idea di una scuola che si allinei alle aspettative delle famiglie. La scuola “vive della propria autonomia”, cioè della “capacità di leggere il reale e di proporne strumenti interpretativi” (p.58). “Sarebbe la paralisi”, ha il coraggio di scrivere Veladiano, “se la scuola dovesse seguire le attese delle famiglie” (p.58) perdendo “il respiro della cultura e dell’educazione” (p.58).

Non esita a definire “normalità patologica” (p.67) quella della scuola pre-covid dove era palpabile “il terrore di ogni operatore scolastico” per la sicurezza (p.66) con “l’ossessione per il controllo” nel timore per una “mancata sorveglianza”. E considera una “rivoluzione copernicana” il riconoscimento della responsabilità educativa dei genitori. “Non c’è niente da restaurare” (p.68): anche con i genitori la collaborazione ha assunto forme nuove e informali.

Adesso davvero basta”, sembra non contenere la rabbia la Veladiano, che ha frequento le aule impegnative dei professionali di cui menziona il progetto ‘92[1], La scuola non può essere strumentalizzata. Risulta “improprio” (p.79) l’adeguamento della scuola e della formazione al modello sociale ed economico dominante. La scuola fornisce “gli strumenti per trovare autonome soluzioni alla complessità” (p.79). Il “malinconico realismo senza prospettiva” è la “scorciatoia pigra” di una “scuola che riproduce la realtà sociale da cui nasce”. Dimenticando che “la scuola è di più”, anche se questo può essere considerato un’utopia o identificato come una rivoluzione. La scuola è il luogo dove “il mito della meritocrazia e quello del successo vanno messi a tema e smontati” (p.116) perché “la vera eccellenza è la qualità per tutti”. Purtroppo, “il desiderio dei ragazzi e delle ragazze è intossicato  dal mito del successo senza cultura, senza competenza, senza impegno e senza qualità” (p.117).

Il nuovo pensiero, pare di poter dedurre, è anzitutto contrasto e cambiamento di rotta.

 

La frattura

 

La posta in gioco nel “tornare e ricostruire” è la scuola come “comunità, comunità di vita e comunità educante e luogo in cui si imparano le dinamiche buone della società” (p.131). Veladiano ritorna, qui e là nel saggio, sulla frattura che oppone le dinamiche di scuola e un “sistema borbonico che è fatto di burocrazia stratificata” (p.135) di fronte a cui non rimangono che “la pazienza, la capillare conoscenza e l’affidamento a persone competenti che di scuola sanno davvero (p.135).

In questa situazione dicotomica ai politici si chiede di rinunciare a disegnare riforme, al ministero si domanda  di lasciare lavorare le scuole in pace riducendo il contenzioso, riportando coerenza e semplicità nelle norme, provvedendo agli organici con concorsi regolari e seri, come da Costituzione. L’Invalsi offre una miniera di informazioni e aiuta a capire le scuole, ma l’innesto con il mondo della scuola è ancora, dopo anni, in itinere.

 

Non riforma, ma aggiustamenti “per una normalità addirittura banale

 

La voce riforma non gode di buona salute ormai nemmeno nelle pagine di Veladiano. Alle proposte, o alla tentazione, di un’ennesima riforma la scrittrice contrappone “progressivi, sistematici aggiustamenti nella direzione di una normalità addirittura banale” (p.135). In poche righe in sintesi hanno fatto male alla scuola il taglio del personale, la non indizione di concorsi, l’accesso senza titolo, senza competenze e senza formazione con le prevedibili conseguenze in una fase di cambiamento e le ripercussioni sull’attività didattica e sulla scuola nel suo insieme. Cambiano gli insegnanti per mobilità possibile, per l’elevato numero di precari, per lo sfasamento tra cronologia dei concorsi e calendario scolastico. Con un sistema in cui si mescolano docenti “preparatissimi, motivati e seri” e “docenti senza le qualità minime per il lavoro che svolgono” (p.143). Mancano figure intermedie e non c’è la valorizzazione della qualità dell’insegnamento: entrambi nodi da sciogliere non banali. L’argomentazione è ragionevole: ci sono soluzioni che altrove si adottano, dalla permanenza per tre anni in una sede come in Trentino alla carriera degli insegnanti costruita “in molte scuole del mondo”), e, quindi, possibili. Applicare la legge con previsioni triennali e concorsi selettivi è la nuova normalità, non una restaurazione né una rivoluzione. Il terzo settore e le associazioni la solidarietà[2] diventano gli attori, non di sistema, ma con un ruolo crescente a fianco delle scuole.

Viaggiare controvento

 

La scrittrice, già docente e preside, non cade nella trappola della facile retorica. La scuola non è un idillio. Da trent’anni viaggia contro vento come ben sa chi la scuola conosce. Non c’è solo l’immagine coinvolgente della scuola e dei suoi obiettivi; c’è una realtà sottostante (il ‘sottotesto’) da riconoscere per poter guardare in avanti.

La concezione del merito che erode l’idea di condivisione, di rispetto reciproco, di fiducia in ognuno degli studenti; un collante improprio delle dinamiche scolastiche. Le richieste, talora pressanti, dei genitori di protezione dei figli tradiscono la visione della formazione del carattere e ignorano la costruzione di persone autonome che la scuola si prefigge. L’involontaria connivenza dei docenti porta talora gli studenti a scelte determinate da stereotipi perpetuando la selezione implicita. I presidi che devono affrontare le richieste opposte dei genitori possono aver difficoltà a ragionare di scuola seriamente. Il caso trentino a proposito di un coraggioso progetto contro gli stereotipi di genere dimostra l’uso strumentale dei genitori e la negazione dell’autonomia della scuola. Gli adulti, gli amministratori delegati, i grandi costruttori, i politici che non credono nel futuro sono un deserto.

Il testo si trasforma in un plaidoyer. “Rispetto ad una società che non solo tollera ma anche celebra l’aggressività verbale, i toni esasperati, la dinamica del più si battono i pugni più si ha ragione” (p.105) la scuola può essere l’alternativa quando cerca di coltivare l’arte della cortesia. “Una sistematica capillare ostinata operazione di discredito” (p.101) degli insegnanti degli ultimi 30 anni li ha impegnati a smentire i luoghi comuni distogliendoli dal sereno svolgimento della propria missione.

Gli studenti

 

Le pagine che più ispirano del libro sono quelle che toccano gli studenti[3]. Veladiano riconosce che non li abbiano protetti; hanno dovuto affrontare problemi più grandi di loro nel turbinio pandemico. Nella scuola, tuttavia, ritrovano strumenti per crescere e per un ruolo da protagonisti sconosciuto alle generazioni precedenti. Non sfugge il cambiamento epocale che è in atto, sulla scia di Malala Yousafzai e Greta Thunberg, protagonisti di alcuni tra i fenomeni più interessanti che si siano visti sul tema del futuro equo e sostenibile” (p.122). La giustizia, peraltro, sta dando loro ragione, dalla Germania alla Nuova Zelanda, alle loro istanze con giudici, lungimiranti e riflessivi, che considerano la privazione del futuro una colpa e un addebito per gli adulti. I mutamenti e le situazioni non determinano destini fatali; sono il frutto delle azioni umane che vedono perdenti le giovani generazioni, in credito per il danno subito e per le relative conseguenze di lunga durata; da risarcire da parte del mondo degli adulti.

Oggi c’è scuola

 

C’è un’idea di scuola che Veladiano trasmette. é la visione, necessaria oggi più che mai, che raccoglie una fiducia elevata, forse inaspettata, anche  nei “tempi scettici e iconoclasti in cui viviamo” (p.102).

La narrazione della scuola si perde spesso nell’incastro tra scenari diversi, sovrapposti, interconnessi ma distinti: la vita in classe, il rapporto con il mondo esterno e le criticità. Una saldatura del mondo della scuola che riesce all’autrice, ricca di esperienza e di talento per tradurla nella parola. Serve, sottolinea Veladiano, un pensiero per leggere in modo integrato la scuola. Contro il darwinismo scolastico praticato (p.14), contro la ricerca dell’ascensore sociale, contro il merito, è indispensabile il richiamo al fine della scuola.

La transizione è mantenere quanto si è imparato. é una scuola che c’è, non chiusa nel periodo pandemico, non semplicemente ritornata alla normalità: è un organismo che vive, in autonomia e continuità, arricchendosi di esperienze nel tempo, spesso non conosciute o considerate.[4]

La scuola come bene comune intreccia aspetti della società, non è un’area di lato, o un cono d’ombra, ma un polmone pulsante; le cose di scuola hanno un senso più ampio, dall’aula nel bosco al diritto alla città, dove si impara il vivere civile.

Riga dopo riga, pagine dopo pagina, le cose che non vanno, le cose che fanno male alla scuola affiorano in superficie senza infingimenti. Come potrebbero andare meglio o essere corrette non sembrano missioni impossibili. La ‘non riforma’, perorata dalla scrittrice, sta in questo: privilegiare aggiustamenti progressivi, attrezzarsi per interventi di riparazione, lasciando alle spalle, senza rammarico, quell’idea di riforma che ministri successivi hanno inseguito senza grande successo.

Affiora nel testo la scuola come luogo del pensiero, come funzione riparatrice di disuguaglianze. Si parla di scuola, ma si intendono le scuole più che il sistema scolastico nel suo insieme, i presidi e i docenti che vi lavorano. Non occorrono gli eroi straordinari, non “figure carismatiche di docenti ma comunità scolastiche in cui l’esercizio della partecipazione sia un principio guida di ogni decisione” (p.145).

La consapevolezza dei problemi e delle storture non è purtroppo risolutiva; paradossalmente può convivere nel tempo con la mediocrità diffusa nei fatti o con l’inerzia che perdura. E’, tuttavia, un ingrediente sine qua non per un cambiamento di rotta, soprattutto le conoscenze dei retroscena, dei vissuti di chi vi lavora. Per questo le pagine di Mariapia Veladiano sono da leggere e da meditare per ricostruire un pensare di scuola che sia anche una visione del domani.

Indagini sul campo, dibattiti nell’opinione pubblica e confronti tra esperti[5] hanno avuto un tema comune, scontato e rituale: hanno insistito sul tempo perso degli alunni senza scuola e hanno richiamato gli effetti devastanti del lungo periodo riempito con giorni di assenza dalla scuola, in termini di learning losses[6]. Non sono stati, tuttavia, due anni di “tempo ferito” (p.13) è l’idea dominante che il lettore può trarre dalle 150 pagine del volume. In sintesi una narrazione della scuola non solo che fa bene perché costruttiva ma che arricchisce la conoscenza della scuola stessa nei suoi volti autentici, nei suoi dolori taciti e nelle sue ambizioni coltivate. Se “i momenti di crisi sono quelli più adatti a rinnovarsi” (p.75), l’anno scolastico 2021-2022 non è solo un impegnativo banco di prova, è una spinta a cui non ci si può sottrarre perché la scuola continui a mantenere “un valore immenso per la nostra vita personale e civile” (p.8). Dalla “normalità patologica” alla “normalità banale” il passaggio, tuttavia, non è così semplice come sembra.

[1] Sui professionali cfr. Silvia Dai Pra’, Quelli che però lo stesso, Laterza, Bari-Roma 2011; Ugo Cornia, Il professionale Avventure scolastiche, Feltrinelli Milano 2012.

[2] L’autrice cita varie realtà associative tra cui Non uno di meno a Milano (p.47) e Farsi Comunità educanti in varie regioni (p.48).

[3] L’attenzione agli studenti non come oggetto di ricerca e di diagnosi, ma come riconoscimento del loro protagonismo e del loro ruolo nell’azione pubblica cfr. le iniziative dell’OECD per rendere protagonisti i giovani (The power of youth. The driving force for change after COVID-19).

 

[4] La Veladiano fa un riferimento al Progetto 92 che ha rinnovato gli istituti professionali-

[5] Indagine della Comunità di Sant’Egidio, p.41

[6] Si vedano le indagini di Indire, della Fondazione Giovanni Agnelli e dell’OECD.